Anni fa partii per una breve vacanza in un paese sperduto tra Córdoba e Sevilla, l’albergo era una vecchia azienda agricola di oltre 100 ettari con annesso allevamento di maialini, un po’ isolata, in piena campagna. Quando feci il Check In, ci raggiunse il proprietario e, sorpresa, era un ligure che viveva in quelle lande da oltre trent’anni e che, prima di sbarcare in Spagna, faceva il musicista di strada. La moglie era, se ricordo bene, sudamericana. In un’altra vacanza a Gran Canaria, passeggiando per le strade di un paesetto minuscolo dell’entroterra notai una pizzeria italocubana (strana combinazione) e, curioso e goloso, entrai e parlai con il pizzaiolo, napoletano, e con la moglie, cubana. Ah, la pizza era deliziosa, ma anche i piatti cubani non scherzavano. Di casi come questi ce ne sono tanti e ben rappresentano il coraggio di chi, viaggiando, sceglie un cammino diverso dal consolidato. Soprattutto il cammino dell’integrazione. Nel vero senso del termine. Io stesso, in qualche modo, entro in questa categoria, del resto ho una moglie marocchina e la mia attività di gallerista a Madrid si caratterizza perché, intorno a me, si è costituita una comunità di artisti di ogni nazionalità, confermando che l’arte non ha frontiere. E non ne ha neanche la vita.
Questo, per me, significa rappresentare l’Italia nel mondo. Non per la pizza, per l’allevamento di maiali o per l’attività culturale, a cui comunque va riconosciuta la loro dignità, ma perché l’italianità più pura, più potente e più vera, si manifesta nell’arte dell’incontro. Questo valore, talvolta poco citato, è fondamento delle qualità umane che vorremmo e dovremmo manifestare sempre, e sempre di più.
Rabindarnat Tagore diceva proprio questo: “La vita è l’arte dell’incontro”, non dello scontro, non del confronto. In-contro, cioè, far proprie le differenze, arricchirsi con la fusione di mentalità, culture e lingue, mischiare il sangue per contribuire al futuro senza frontiere, dove i figli crescono in orizzonti allargati.
Ivano Fossati, nel suo primo disco da solista, cantava dei versi che ben si inseriscono in questo articolo:
Ho scelto la mia vita libera
Può darsi che non torni più
Del mio ricordo fanne un po’
quel che vuoi tu
Ecco, uscire dal “paesotto”, abbandonare i provincialismi, vedere il mondo come un insieme di territori e popoli da esplorare e da imparare ad amare, ovunque si sia. Imparare, va detto, è fondamentale. Non si ama subito, in modo incondizionato, si ama quando ci si fonde, quando ci si integra e si scopre che il mondo non è “italocentrico”.
Molte volte pensiamo all’emigrante come a un povero disgraziato che ha dovuto allontanarsi da casa e si cruccia nella nostalgia, ma oggi non è così. Già, “casa” è dove si vive la propria vita, non solo dove si lavora. Casa è dove si “ama” e il concetto di “tornare” è valido solo se ci si allontana da quella “casa”. Quando si impara ad “amare” ovunque ci si trovi, allora la casa è dove si trova il cuore, non nei perimetri definiti dalle frontiere.
Questa premessa mi serve per parlare dell’apprezzato intervento di Maria Chiara Prodi, Segretaria generale del CGIE, a cui ha fatto seguito il sempre ottimo intervento del Presidente della Repubblica Mattarella, in occasione dell’assemblea generale dello stesso Consiglio.
Il CGIE è un laboratorio, ma prima ancora è un osservatorio che ha come scopo dar voce alla realtà poco nota degli italiani che scelgono di andar via dall’Italia e che, oggi, non emigrano con la valigia di cartone e la fame in tasca, ma con un sogno da realizzare.
Infatti, secondo me occorre fare una differenza tra “migrante” e italiano all’estero, fermo restando che non è lo stesso vivere in Spagna che vivere in Nuova Zelanda e che non va messo sullo stesso piano di ragionamento colui che, dopo essere stato “spulciato” a Ellys Island, ha vissuto di stenti, e l’ingegnere che ha un contratto di lavoro di tutto rispetto con qualche multinazionale.
Chiarisco: entrambi fanno la storia, ma tra chi emigra per disperazione e chi si sposta in un altro paese per le opportunità che gli si presentano (o anche per amore, ce ne sono molti) c’è una bella differenza. Il primo ha vissuto tra terribili sofferenze, il secondo, spesso, migliora le sue condizioni lavorative e sociali che, molto probabilmente, prima di partire non erano circoscritte da fame e ignoranza. Insomma: se il primo si costruiva la sua “Little Italy”, che altro non era che un riflesso distorto del suo paese di origine, pieno di nostalgia, dettato anche dalle difficoltà in cui si trovava, il secondo si integra in ambienti lavorativi e in contesti sociali che non gli sono nemici. E spesso è apprezzato e ha la sua dose di successo sia professionale che umano.
Questo punto è assai importante perché, se vogliamo parlare di italiani nel mondo che rappresentano l’italianità, dobbiamo prima riconoscere che i più apprezzati sono quelli che si distinguono per creatività, adattabilità, proattività e capacità di integrarsi là dove si trovano.
Oggi, l’italiano che “emigra”, raramente parte da zero. Inoltre impara la lingua, si interessa alla storia del paese che lo ospita e costruisce nuove relazioni e, anche se sarà sempre critico sulla qualità del caffè, insieme a colleghi e amici prenderà la sbobba bollente finlandese o il caffè bruciacchiato spagnolo senza ritenerlo un’offesa per la sacralità dell’espresso del Gambrinus.
L’italiano che vive all’estero fa onore al suo paese non quando si relaziona solo coi suoi connazionali celebrando porchetta e mozzarella negli eventi gastronomici (pur sempre meritevoli di rispetto), ma quando si integra! E integrarsi non è essere nostalgici, ma vivere il presente ovunque si sia.
Vorrei aggiungere qualcosa sulle mie esperienze personali, qualcosa che illustra alcune sfaccettature non piacevoli dell’essere “migranti”, mettendole a confronto con esempi virtuosi:
Quando abitavo a Città del Messico, negli anni settanta, i miei genitori frequentavano molti italiani. Erano i “migranti di allora” che si costituivano in circoli chiusi per passare le serate a criticare il Paese che gli dava da mangiare dicendo “in Italia è meglio”. Conobbi, però, anche l’opposto, come il sarto napoletano che aveva una moglie russa, conosciuta nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale (la loro storia era meravigliosa), da cui non ho mai sentito una parola negativa sulla sua condizione di “migrante”.
Quando mi trasferii in Marocco, anni novanta, per un breve periodo frequentai alcuni italiani del posto che, a porte chiuse, non facevano altro che criticare il Paese che li ospitava. Quelli, però, non erano i migranti della storia, ma gli “espatriati” che si trasferivano per qualche anno con il solo scopo di tornare in Italia col portafoglio pieno. Dissi all’amico che me li aveva fatti conoscere che non aveva senso essere in un Paese da scoprire se ci si rinchiudeva in casa per mugugnare… l’effetto fu immediato: mollò quell’insalubre compagnia, si integrò nel Paese e alla fine si sposò con una donna marocchina (in questo io l’ho preceduto di un anno).
Ecco, il mugugno, il vero nemico dell’integrazione, non fa onore a quello che dovremmo manifestare, cioè, l’italianità, quella vera, quella che è fatta di voglia di vivere, di curiosità, di capacità di ascolto…
Credo che, col tempo, la cultura del “mugugno”, quel moto percussivo ossessivo che ti porta a chiuderti a riccio, sia un po’ cambiata dando spazio a una “migrazione” più integrata, direi quasi “solare”, ed è quella di cui il mondo ha sempre più bisogno perché ci dimostra che i confini sono linee su mappe e che l’umanità non ha frontiere.
Importante è prenderne atto e smetterla di vedere chi, per motivi diversi, decide di “emigrare”, come uno che si allontana dagli affetti perché, oggi lo sappiamo, gli affetti si trovano ovunque. E l’amore non ha frontiere.
E ben lo dice, di nuovo, Fossati, in un’altra canzone:
che bisogno c’è di partire per poi
non pensare che a tornare
Claudio Fiorentini
Per completezza, vi invito ad ascoltare la prima delle due canzoni che ho citato in questo mio articolo.
https://www.youtube.com/watch?v=ideg0f3YarU&list=RDideg0f3YarU&start_radio=1