La dinamica dei consumi e l’alienazione del pensiero

Negli ultimi cinquant’anni la nostra società è cambiata radicalmente e credo che sia utile una riflessione su alcune dinamiche che ci spingono a vivere con frenesia e a consumare senza tempi morti. Non è nelle mie intenzioni dire se oggi è meglio o è peggio di ieri, semmai intendo evidenziare come si sono trasformate alcune nostre abitudini e, soprattutto, come sono cambiate le nostre tendenze consumistiche.

Negli anni ’60 ci fu il boom economico che, seguendo l’alfabetizzazione di massa, ci ha resi consapevoli della nostra capacità di costruire un benessere diffuso basato, però, sui consumi, perché stare meglio significava avere cose migliori e averne sempre di più. Da un’altra parte è proprio a partire dagli anni sessanta che lo studio diventa essenziale per scavarsi un ruolo nella società. Quindi vediamo crescere i consumi e, parallelamente, crescere le competenze medie ed elevarsi il livello di scolarità.

Notiamo, però, che se il primo punto è arrivato a livelli parossistici diventando irrinunciabile specchio per allodole che determina la “qualità” della vita, il secondo è ancora oggetto di dibattito e, ahimè, a volte anche di derisione perché, alla fine, il lavoro te lo trovi con le amicizie. Non sempre, per fortuna, ma purtroppo in molti casi è ancora così.

Ma come eravamo negli anni sessanta? Ignoranti, umili e, chi è avanti con gli anni lo può ricordare, non sprecavamo nulla. Certo, venivamo dal dopoguerra e cercavamo il riscatto, inoltre i nostri genitori e i nostri nonni avevano bisogno di darci la sicurezza che loro non avevano avuto. Come primo bene rifugio dovevano lasciare ai figli una casa. E la possibilità di studiare. Scarpe di marca e vestiti firmati? Non se ne conosceva neanche l’esistenza. Le scarpe si risuolavano anche due volte, i calzini si rammendavano, i vestiti passavano dal fratello o dalla sorella maggiore al fratello o alla sorella minore, e poi agli amici che avevano figli più piccoli. L’aperitivo al bar era un lusso e la pizza in compagnia era una festa da ricordare perché ben pochi se la potevano permettere. O almeno se la potevano permettere poche volte. Insomma, si viveva con poco e non si sprecava nulla.

Dagli anni sessanta ad oggi la cultura del risparmio è andata via via scomparendo, avendo preso il suo posto la cultura dell’apparire e oggi è inconcepibile che un giovane non abbia l’armadio pieno di scarpe di marca e di capi firmati, così come è inconcepibile che i giovani non vadano a divertirsi in discoteca o in pizzeria almeno una volta a settimana. 

Immaginate, ora, se si tornasse ad essere come negli anni sessanta, dove risparmio e riutilizzo erano la norma: credete che le famiglie sarebbero più ricche? Di getto verrebbe da rispondere sì, ma la risposta esatta sarebbe “NO”, infatti l’intero sistema industriale e imprenditoriale, che vive dei nostri consumi, dovrebbe produrre di meno e, conseguentemente, si creerebbe una crisi senza precedenti. 

La società dei consumi è nemica del risparmio e si sviluppa al meglio nel parossismo dello spreco. 

Ma come fa questa società consumistica a prosperare? Mi viene da ridere quando i complottisti dicono “ci vogliono controllare”, come se scoprissimo solo ora che le tendenze consumistiche provengono da ricerche di mercato e da pubblicità. Insomma, si devono creare dei bisogni, questi determinano le nostre abitudini e le nostre tendenze e cambiano insieme alla nostra società per farci consumare di più. Ma non è questo il tema dell’articolo.

Partendo dai nostri consumi, cerchiamo di capire cosa determina il nostro potere d’acquisto. Per farlo, la prima considerazione riguarda lo stipendio medio. Certo, in rete si trovano molte mistificazioni e risulta difficile avere dati certi, inoltre dire “stipendio medio” è abbastanza fuorviante perché nella media ci si mette tutto, ma proprio tutto, anche quello dei supermanager e dei politici.

Partiamo, quindi da un esempio reale, l’impiegato di 4º livello (oggi C2) metalmeccanico che a fine anni 80 aveva uno stipendio netto minimo di 1,200,000 lire (poco meno di 600€) al mese. Il livello C2 di oggi ha uno stipendio netto minimo di 1260€, poco più del doppio. In quegli anni un’utilitaria di base, senza tutti gli accessori di oggi, costava intorno ai 10 milioni (cioè, circa 5,000€) mentre oggi, per quanto il paragone risulti impietoso per allestimento, sicurezza eccetera, intorno ai 15,000 €.

Lo stipendio è raddoppiato e il prezzo di listino (senza considerare le numerose e allettanti offerte) sembrerebbe triplicato. Tuttavia, se tenessimo conto di tutti gli accessori di serie, la garanzia a due anni, le dotazioni di sicurezza e la qualità incomparabile, probabilmente si invertirebbe il risultato e, a pari dotazioni, l’utilitaria di fine anni 80 sarebbe costata, in proporzione, molto più di quella di oggi. 

Sempre a fine anni 80 un paio di scarpe non di marca (esisteva il mercato alla buona) si comprava con 50,000 lire, cioè circa 25 €; se si comprava un prodotto di marca si spendeva il doppio. Oggi siamo tra i 100€ e i 150€ per prodotti di marca, ma il mercato alla buona non è neanche considerato dalla maggior parte dei consumatori. 

Qui occorre porre qualche domanda: un’automobile con allestimento pari a quello di una utilitaria di base del 1990, qualcuno, oggi, la comprerebbe? No, perché “come fai senza aria condizionata, senza chiusura centralizzata, senza telecomando eccetera”? E i vestiti firmati, o le scarpe non di marca? “No, no, mi riderebbero dietro, figurati”. Insomma, ciò che ieri era superfluo oggi è indispensabile e ciò che ieri era per pochi oggi è la norma. Altrimenti non vivi bene. 

Veniamo ora a un altro settore: gli elettrodomestici e i prodotti High Tech, tutti, sono proposti a prezzi inimmaginabili solo trent’anni fa e in proporzione costano molto, molto meno pur essendo tecnologicamente superiori al punto che quando si rompono quasi quasi è meglio sostituirli. E se non si rompono li sostituiamo lo stesso, tanto la tecnologia avanza e l’obsolescenza del prodotto arriva rapidamente. Già, quando in casa c’è già tutto e non si compra più nulla il mercato si ferma.

Immaginate: se un prodotto durasse trent’anni non ci sarebbe bisogno di produrne così tanti e il mercato andrebbe in crisi… Ecco il mercato di sostituzione. 

E l’intrattenimento, il biglietto del cinema, il concerto o la pizza con gli amici? Non so se in proporzione costano di meno o di più, ma è sicuro che oggi, in questo settore, si consuma di più rispetto agli anni passati. 

Il mercato immobiliare è un caso particolare: oltre ad essere stato per anni falsato dalla febbre dell’acquisto, ha subito tante di quelle fluttuazioni da sembrare quasi una piazza finanziaria. 

In ultimo, la spesa al mercato, di quanto è aumentata? Diciamo anche che i prezzi di ortaggi e frutta dipendono molto dalle condizioni climatiche dell’anno di produzione, quindi il paragone andrebbe fatto non di anno in anno, ma tra anni che abbiano avuto condizioni simili. Certo, se uno va al mercato oggi, comunque qualche domanda se la pone. 

In conclusione, e ben sapendo che per fare uno studio più sensato occorrerebbe mettere sul tavolo anche le nuove soluzioni, prima inesistenti, come la shared economy, i finanziamenti, il noleggio, la trasformazione della GDO eccetera, il paragone è tanto complesso che non può essere fatto in un articolo come questo. È innegabile, però, che stiamo perdendo potere d’acquisto, ma come e rispetto a quando è difficile da dire. 

Oggi stiamo affrontando seri problemi d’inflazione e i beni di primaria necessità costano molto di più rispetto a 5-6 anni fa e non credo che il paragone vada fatto con i prezzi di 30-40 anni fa, quando il nostro orientamento ai consumi era assai diverso. Il recente fenomeno dell’impennata dei prezzi deriva, tra l’altro, da condizioni climatiche deteriorate, dalla passata pandemia (ancora non del tutto risolta) e da altri fattori come le guerre e i nuovi squilibri mondiali; non deriva soltanto dalla, ahimè, dissennata gestione del bene pubblico e dell’ambiente, dalla mancanza di visione della classe politica e dalla classe imprenditoriale un po’ arruffona che caratterizza l’Italia e la rende inappetibile per qualsiasi investimento.

Cioè, anche da quello, ma non solo, e qualsiasi semplificazione opportunista porterebbe fuori strada. Eppure è proprio di queste semplificazioni che vive la rete! Veicolando menzogne riduce la capacità di analisi a frasi sconnesse e a slogan scorticati, spacciandoli per verità assolute. È così che nascono i populismi.

Per questo diventa indispensabile un cambio nella nostra mentalità, un ritorno della capacità di approfondimento (ammesso che sia mai esistita) e occorre un guizzo di onestà. E soprattutto, occorre coltivare una “cultura” possibilmente umanistica, perché la vita di oggi e futura non sia un prodotto matematico o un flusso economico, ma si arricchisca di valori e meriti di diventare un pezzo di storia. 

Claudio Fiorentini

2 comments

Purtroppo nella forsennata corsa alle nuove “necessità”, ovviamente malposte e al solo fine di creare nuovi consumi, la realtà viene distorta, o per lo meno la percezione che abbiamo di essa. Ne consegue che culturalmente siamo impregnati di necessità che mai come ora non sono altro che droghe consumistiche a cui si crede di non poter fare a meno (primo fra tutti, a mio parere, l’abito o l’oggetto di marca). Il problema è che noto una grande, massificata schizofrenia fra la necessità di queste “nuove” droghe e la conseguente perdita di auto-controllo, quel minimo di buon senso.. Quando tutto diviene mistificato al punto tale da non sapere più dove e come si vive, quello che rimane è un pericoloso, se non insensato, virtuale.
L’articolo è uno spunto di riflessione molto prezioso per questi tempi di transizione della coscienza umana, e sono assolutamente d’accordo che bisogna ritrovare una cultura più umanistica, in cui la semplicità non è banalità ma, forse, quella bellezza che può salvare il mondo.

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