L’arte e l’evoluzione del suo linguaggio

Vecchia macchina da scrivere su un barile di petrolio.
Vecchia macchina da scrivere su un barile di petrolio.

Le prime opere artistiche, di cui siamo a conoscenza, sono pitture rupestri che vantano ben 37.000 anni di storia. Ora, per un attimo, tentiamo di immaginare non come le hanno fatte, ma che effetto hanno avuto sulla comunità. Immaginiamo, quindi, gli uomini che, nella penombra della caverna, hanno visto prender forma quelle pitture rupestri: meraviglia, stupore, divertimento, allegria, gioia… quante conversazioni fatte di monosillabi e grugniti sono nate dall’osservazione di quelle pitture, quanto rispetto provavano gli uomini antichi per colui che, per primo, disegnò qualcosa sulla roccia. L’artista non era un uomo come tanti perché aveva avuto l’idea di disegnare qualcosa. L’idea! Ecco la parola chiave per capire l’arte.

Grazie a quell’idea, davanti a quei disegni si riuniva la comunità per fare chissà cosa, forse per realizzare riti propiziatori per le prossime sortite a caccia di nutrimento, probabilmente dando all’immagine una sacralità, diventando con la fissità dell’opera l’occasione per far nascere la ritualità territoriale. Ecco che l’arte, per quanto inutile, diventa importante e acquisisce un ruolo fondamentale nella società.

Poi ci sono gli strumenti che si hanno a disposizione per realizzare l’opera che, con i millenni, sono andati via via cambiando.

Gli uomini dell’antichità usavano carbone e pigmenti colorati. Questi strumenti, oggi giudicati rudimentali, all’epoca erano grandi scoperte tecnologiche. Probabilmente fu una rivoluzione culturale lo scoprire che questi strumenti potevano essere utilizzati per fare qualcosa di perfettamente inutile, come disegnare scene di caccia su una parete rocciosa. Ripeto: inutile… ma… quanti riti si sono consumati davanti a quelle immagini, quante preghiere e quanti misteriosi canti e lamenti si sono levati osservando quelle figure. Non lo potremo mai sapere, ma è probabile che da quel momento l’arte sia diventata un evento che avvicinava al sacro, di certo non un gingillo da mostrare ai turisti.

L’opera d’arte non ha scopi pratici, ma fa vivere qualcosa che ha a che vedere con lo spirito. Già, perché l’arte, a differenza dell’artigianato, ha una qualità meravigliosa: è intrisa di quell’inutilità che parla di ciò che è insito nel profondo di tutti noi che dimostra che nell’uomo esiste una intima pulsione, un motore segreto che spinge la persona ad esprimersi con gesti che non servono a niente, ma che fissano le idee e le fanno vivere nei secoli e nei millenni.

Questa pulsione non è quello che oggi, direi con una certa faciloneria, qualcuno chiamerebbe “ispirazione”, semmai è la conseguenza della spinta madre che ha dato (e che dà) vita a tutte le ispirazioni. Ciò che ha mosso la mano di quell’uomo delle caverne non è diverso da ciò che oggi muove la mano di qualsiasi artista. Si tratta di una pulsione ancestrale, direi archetipa, che non cerca la ricompensa dell’applauso o la soddisfazione del pubblico.

L’artista non sa perché fa quello che fa, semplicemente lo fa. L’arte non nasce per soddisfare un bisogno “primario”, ma per rispondere a una necessità misteriosa che spinge l’uomo a fare cose inutili e incarna il dubbio profondo dell’esistenza, traducendosi nella ricerca dell’archetipo. L’arte è quindi ricerca dell’archetipo? Forse. E se non lo è, è comunque ricerca di qualcosa che vive nel profondo.

Ma allora, gli artisti sono tutti uguali? Evidentemente no. L’arte è un linguaggio e come tale si sviluppa nel mondo in cui è immersa. Non solo: l’arte utilizza gli strumenti che ha a disposizione per esprimersi, e se l’uomo delle caverne aveva a disposizione un tizzone carbonizzato e una pietra appuntita, l’artista contemporaneo ha a disposizione un’infinità di strumenti che gli consentono di programmare un sistema, di giocare con luci colorate, di elaborare al computer un’opera e di stampare in 3D.

L’artista è immerso nella storia che vive e se nei trentasette millenni che ci separano dalla prima pittura rupestre il mondo è cambiato, sarebbe opportuno parlare di questa evoluzione che inizialmente è stata assai lenta e che, negli ultimi 200 anni, specie nei paesi che hanno vissuto la rivoluzione industriale e poi il post-industriale, è andata avanti ad una velocità incredibile.

Certo, se andassimo in qualche sperduto villaggio africano probabilmente troveremmo esempi di arte “primitiva” – non per questo con meno valore artistico – ma nelle società “evolute” troviamo ben altro, per cui è opportuno fare una distinzione tra tecnica e contenuto.

Il carbone è stato sostituito dal pennello, poi pennello e pigmento si sono perfezionati sempre di più, la parete rocciosa è stata sostituita da una tavola di legno, la tavola di legno è stata sostituita dalla tela (leggera e facile da spostare da un posto all’altro) e la tecnica del disegno e della pittura è andata via via perfezionandosi fino ad arrivare alle eccellenze che conosciamo.

La tecnica evolve e il genio, usando la tecnica, affina le proprie capacità. Arriviamo, quindi, a Michelangelo, Leonardo, Caravaggio e tutti gli altri. Si è raggiunto un livello di perfezione ancora oggi inarrivabile, ma quasi sempre rappresentativo della natura umana o della ricerca del sacro. Le figure erano sempre più perfette, belle, invidiabili per la forma o per l’espressione, però raramente rappresentavano la crudeltà della vita. Almeno fino a quando qualche pittore, tra questi Goya, comincia a disubbidire ai canoni e, invece di rappresentare il mondo dei santi, dei ricchi e di gente bella e privilegiata, rappresenta un mondo di poveracci sdentati, malvestiti e sporchi. Il culmine dell’opera di Goya è in un quadro che probabilmente è assai vicino all’astrattismo: il cane.

L’esigenza di disubbidire agli schemi dell’arte, ormai troppo orientata al sacro e alla rappresentazione della realtà dei ricchi, colmava la pena dell’artista di dubbi, e questi si sono liberati, travolgendo il mondo dell’arte pittorica, grazie all’evoluzione, abbastanza recente, della tecnica che ha portato un chimico francese, Daguerre, a inventare la fotografia.

Ecco la rivoluzione che ha liberato l’artista dalla necessità di rappresentare contesti visibili e conoscibili perché la fotografia poteva farlo meglio e in pochissimo tempo! È stato da allora che i pittori hanno cominciato a deformare la realtà e ad esplorare anche il mondo della non realtà. Libertà creativa, finalmente!

Ma la tecnica si acquisisce e continua ad evolvere, la fotografia si è mischiata con la pittura, gli artisti hanno cominciato a capire che gli strumenti a disposizione erano molti, anzi, troppi, e che se non venivano usati l’espressione pittorica sarebbe rimasta al palo, quindi oltre alle opere che esplorano il mondo dell’astrazione si comincia a proporre lavori interdisciplinari, si esplora la libertà di espressione a tutti i livelli, si dipinge con i chiodi su un tavolaccio, si fanno sculture con pezzi di ferro arrugginiti, si utilizza materiale di scarto, si lavora con la spazzatura…

Ma il motore resta l’idea.

Così, quando l’artista ha iniziato a sentire l’impulso di fare altro ed ha trovato lo spunto per liberarsi da ogni canone figurativo con l’avvento della fotografia, dobbiamo dire che quest’ultima non si è fermata: anch’essa ha conosciuto una poderosa evoluzione e ha raggiunto livelli espressivi di innegabile valore artistico. Non solo, alcuni fotografi, vuoi perché manipolano il prodotto in camera oscura (o con strumenti software), vuoi perché isolano da un contesto un piccolo dettaglio, riescono a proporre opere fotografiche equiparabili all’arte astratta.

Oh mio Dio, questo allora vuol dire che la rivoluzione dello smartphone equivale alla rivoluzione di Daguerre? Forse no, ma forse sì… e se una foto (anche casuale) può avere lo stesso valore di un’opera astratta, occorre fare una riflessione.

Nella mia esperienza come gallerista, mi è capitato più di una volta, di osservare le foto scattate da un amico libraio appassionato di immagini inutili, e di paragonarle ad opere d’arte contemporanee. Le foto fanno concorrenza alla pittura astratta! Allora mi sono chiesto: se quelle immagini esistono in un muro scrostato, in una macchia di vernice, in una cacca di piccione, probabilmente tutti le abbiamo viste senza accorgercene. Anche l’artista le ha viste e, inconsapevolmente, le ripropone in una sua opera.

Le immagini che vediamo nel nostro vivere quotidiano non passano inavvertite, semmai entrano e lavorano dentro. Poi arriva qualcuno che ha l’intuizione artistica e, pur non avendone la consapevolezza, le ripropone. Qual è la differenza tra il prima e il dopo l’arrivo di questo tipo di fotografia? Semplice: se il fotografo ha la sensibilità di isolare un dettaglio da un contesto, cogliendone il senso estetico, coglie l’idea e diventa un creativo. Se l’artista percepisce i segnali che vengono dal suo intorno e poi li traduce in opera astratta, coglie l’idea. Quindi c’è competizione tra arte astratta e fotografia del dettaglio decontestualizzato? Forse no, se parliamo della capacità di cogliere l’idea, ma forse sì, se parliamo di risultato.

Da lì la necessità, per qualsiasi artista, di esplorare nuovi linguaggi, di estremizzare lo sviluppo dell’idea e di creare con quello che ha a disposizione qualcosa che abbia un senso in grado di superare il livello di astrazione.

Insomma, l’esigenza di fare arte è sempre la stessa da millenni, ma gli strumenti per fare arte sono moltissimi, per cui abbiamo un oceano di possibilità in costante evoluzione.

Esiste, però, un modo di fare arte che non dipende tanto dalla capacità di usare gli strumenti evoluti ma che dipende quasi esclusivamente dall’idea e dalla capacità di esprimere un concetto attraverso l’uso di oggetti comuni. Si tratta di un linguaggio artistico che raccoglie l’espressione primitiva e la declina in oggetti effimeri che durano il tempo di un’istallazione. Questa è l’arte concettuale. Volendo estremizzare, il Dolmen è quanto di più vicino a questo tipo di arte, del resto è un oggetto “sacro” che nasce dalla sovrapposizione di alcune pietre, un oggetto che nell’antichità aveva un valore mistico.

Oggi l’arte concettuale mette insieme oggetti e parla attraverso la loro dimensione inutile, ha un valore effimero e dialoga con il pubblico perché gli oggetti usati dall’artista sono simboli, e i simboli sono alla radice delle parole. L’artista ne coglie il senso e costruisce frasi complesse mettendoli insieme. È così che vediamo, in un magazzino di sale scavato nell’arenaria, una trentina di vecchi tostapane da cui escono libri di scrittori esiliati, oppure troviamo su barili di petrolio vecchie macchine da scrivere, con la tastiera della lingua del paese di provenienza di quel barile, e dal rullo di quelle inservibili macchine esce l’immagine di qualcosa o qualcuno che rappresenta la censura (mi sono permesso di citare opere di Norbert Attard). L’arte concettuale non elabora, semmai riassembla. È una forma d’arte estremamente potente che oggi può proporsi come strumento di comunicazione in grado di generare stupore, ammirazione, meraviglia e… pensiero!

Già, perché l’arte, non dimentichiamolo, genera pensiero!

In conclusione l’arte utilizza la tecnica che ha a disposizione e la tecnica evolve sempre, ma l’arte, affinché sia arte, deve essere inutile. E affinché sia riconosciuta come tale, deve tracciare un percorso nella coscienza dell’uomo.

Ma l’arte non è nulla se non nasce da un’idea! Se quest’idea cresce, l’arte, pur nella sua inutilità, diventa imprescindibile affinché la società possa evolvere. Si spera in meglio.

Claudio Fiorentini

1 comments

Concordo.
Il viaggio del mondo artistico ha forti
radici e non di meno un roseo futuro.
C’è un grande fermento oggi ma ancora più importante è, secondo me, il rispetto che si è dimostrato nel conservare e preservare le opere d’arte nel tempo.
Un saluto.
Giuliano

Lascia un commento