Migranti

I resti del piroscafo "Utopia" al largo di Gibilterra.

Non era abitudine dei miei genitori parlare del loro passato. Neanche i miei nonni lo facevano. Non credo che provassero vergogna della loro vita disgraziata, semmai credo che, avendo vissuto guerra e dittatura, dal dopoguerra in poi avevano solo una cosa nella testa: vivere al meglio per dare il meglio a chi veniva dopo. In altre parole, coltivavano il futuro.

Questa breve premessa serve per introdurre una riflessione sulle migrazioni e sul concetto di emigrante, o “migrante”, come oggi si usa dire. 

Il tema, per noi che viviamo una vita senza privazioni, è spesso legato a vecchie fotografie in bianco e nero, dove si vede la povera gente in qualche centro di smistamento. Quella povera gente erano i nonni o i bisnonni di cui abbiamo perso memoria e che, quando erano in vita, raramente raccontavano la tristezza e la desolazione di quei giorni. La rappresentavano, sì, quando spezzavano il pane e te lo davano, ma i ricordi dolorosi rimanevano lì, nel pane e nei gesti, non sempre nelle parole.  

Perché?

 Sul finire della guerra mio nonno partì, con mezzi di fortuna e due rimediate valigie di cartone, dalle valli del Trentino per andare in Francia a lavorare nelle acciaierie di Pantin, un sobborgo di Parigi. Qualcuno ricorderà che in alcuni bar e negozi sulla porta scrivevano “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, questo è stato, in parte, il servizio di accoglienza. Certo, non si può generalizzare, ma per loro non fu facile.

Mio padre lo raggiunse pochi mesi dopo, anche lui andò a lavorare nelle acciaierie. Partì con pochi stracci in una valigia di cartone legata con uno spago, facendo l’autostop, condividendo un tozzo di pane o un giaciglio di fortuna con delinquenti e disperati. Queste cose le so perché un giorno, lui che non raccontava mai nulla, ricordò come aveva imparato il francese, lingua che parlava benissimo.

Del lavoro a Pantin posso anche ritrovare le date precise perché tra i vecchi documenti di famiglia conservo il suo certificato di lavoro. Ma lui non raccontò mai nulla. Neanche mio nonno (mia nonna ancora meno perché morì quando io avevo sei anni) raccontò mai nulla. E mia madre? Lei era di Napoli, aveva smesso di andare a scuola per i continui bombardamenti che si accanivano sulla città, era quasi analfabeta. Ma non raccontava nulla della sua infanzia nei rifugi.

Ho un rammarico: non aver mai chiesto nulla sul loro passato.

Ora, però, vorrei prendere spunto da questa introduzione per fare una riflessione sul popolo migrante, e partirei dal naufragio dell’Utopia, avvenuto il 17 marzo del 1891 a soli venti minuti di navigazione da Gibilterra. In quel naufragio persero la vita 562 migranti, principalmente italiani. Partivano con i loro pochi stracci e le valigie piene di sogni, sogni che rimasero con loro, chiusi nelle stive da cui non poterono uscire. Ecco il bagaglio più importante dei migranti: il sogno di un futuro migliore. 

È così anche oggi? Partiamo da un dato di fatto: i disperati di oggi che attraversano il deserto e poi il Mediterraneo, rispetto ai disperati di allora, sono sfruttati dalle mafie e dagli scafisti. Hanno come bagaglio il sogno del futuro e affrontano l’inferno pur di realizzarlo. Il coraggioso film di Garrone “Io capitano” ha tentato di ritrarre questo inferno che forse è assai peggiore di quello che hanno vissuto i nostri antepassati. Chi tra loro sopravvive, una volta arrivato, cosa trova ad accoglierlo, se non le mafie, le politiche miopi e l’avidità dell’uomo che considera la vita di un migrante, specie se di colore, priva di vaore? 

Tuttavia, essendo io uno di quelli che vivono all’estero, è d’obbligo fare un confronto con la mia vita: posso definirmi migrante? Certo, ho vissuto in Messico, in Francia, in Marocco e ora in Spagna e nei miei trasferimenti ho sempre avuto come bagaglio il futuro, ma questo fino a un certo punto perché le mie migrazioni sono sempre state avvenute all’insegna del privilegio. Cioè, io non sono mai partito con la disperazione negli occhi e non mi è mai mancato il lavoro, il cibo e i divertimenti. Questo ha tolto valore al sogno del futuro perché, diciamolo chiaramente: quando hai di che divertirti, non pensi tanto al futuro quanto al presente.

Mia madre rammendava i calzini e rigirava i colletti delle camicie e mio padre riparava tutto, anche quando non ci mancava nulla, anche quando vivevamo in una relativa agiatezza. Risparmiavano, mettevano da parte, sistemavano. Perché? Perché non si sa mai, potrebbe servire nel “futuro”, e quello ti coglie di sorpresa. 

Il futuro, per chi ha avuto un passato difficile, affascina, si deve costruire coi piccoli gesti dell’oggi e… fa paura. 

Io non riparo nulla, sperpero, mi concedo piaceri, in fondo si vive una volta sola. Questa è la differenza fondamentale. 

Quando si ricorda il dramma di quel 17 marzo, si commemora quel disastro e si tenta di dare un volto ai pochi resti ancora privi di nome, penso ai miei nonni e ai miei genitori, poi penso a quei disgraziati che oggi arrivano nella fiorente Italia o nella ricca Europa. Loro, come i poveracci che hanno perso la vita in quel naufragio, hanno un sogno: il futuro. Il sogno che noi, drogati dal lemma “si vive una volta sola”, abbiamo dimenticato. Noi impegnati a sperperare il presente, loro impegnati a costruire un futuro.

Infine, vorrei chiedere: noi italiani in Spagna, in Francia, in Portogallo, possiamo dire di vivere all’estero? Forse quarant’anni fa. Oggi no, perbacco! Noi stiamo beneficiando del sacrificio di altri e beneficiamo della faticosa e meravigliosa opera di unificazione europea. Noi non abbiamo fatto altro che trasferirci da un paese all’altro, rimanendo in una Comunità. Oltre ad imparare una lingua e mangiare in modo diverso, sempre lamentandoci di quanto sia schifoso il caffè che fanno ovunque mettiamo piede, siamo rimasti in Europa, spesso senza renderci conto di quanto si viva bene nell’Unione. Per questo ben vengano le commemorazioni del dramma dell’Utopia, ben vengano queste riflessioni, purché si ricordi che loro cercavano il futuro, quello che noi abbiamo in mano e che sperperiamo.

Claudio Fiorentini

2 comments

Totalmente d’accordo: forse la situazione idierna dei migranti è davvero peggiore, basti considerare la costanza con cui questo smercio di carne viene perseguito e, si può dire, da sempre.

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