La diseducazione alla lettura

Negli ultimi decenni il mondo dell’editoria ha subito una trasformazione a dir poco epocale. Tanto per cominciare, se i titoli pubblicati ogni anno nei primi anni ottanta erano sui 13,000, oggi si toccano i 70,000. Tuttavia il numero di lettori, se non contiamo la crescita di circa il 10% nei due anni di pandemia, è rimasto più o meno stabile. Non è vero che oggi si legge di meno o che ci sono più scrittori che lettori, è invece vero che la velocità di fruizione dettata dai vari accessori che utilizziamo, e anche dalle eccessive fonti di informazione (e disinformazione) fornite dalle reti, incidono drasticamente sulla capacità di concentrazione.

Se, invece, dovessimo parlare di disaffezione alla lettura, cosa non riscontrabile se osserviamo i numeri, dovremmo anche sottolineare che gran parte della responsabilità è degli editori che, essendo qualche migliaio, presentano un’offerta eccessiva e spesso priva di valore. Come conseguenza, rendono difficile scegliere l’opera da leggere. Peggio ancora: in molti casi la selezione editoriale è scadente se non del tutto carente.

Il problema riguarda soprattutto la letteratura nazionale, perché quando si tratta di letteratura internazionale, quindi quando l’editore deve investire nella traduzione, una selezione naturale è già stata fatta nel paese di origine e il rischio di deludere i lettori è inferiore.

Diciamolo chiaramente: nella letteratura nazionale (questo vale sia in Spagna che in Italia, ma sicuramente anche in altri paesi) sono troppe le volte in cui il lettore rimane deluso. I motivi non risiedono solamente nell’eccesso di titoli a catalogo, ma anche a un certo dilettantismo editoriale e alla fretta di pubblicare: l’editore deve far numeri, deve fatturare. In questo tranello cadono anche gli editori più blasonati per cui è facile trovare testi che sono banali, poco originali o mal lavorati (ridondanti o con un editing approssimativo), o testi scritti su richiesta dell’editore, ma frettolosi perché “bisogna far numeri”.

Riduzione dei costi? Certo, un editor serio si fa pagare e gli editori piccoli raramente hanno le risorse necessarie, mentre gli editori grandi, per tagliare i costi, spesso si affidano a tirocinanti o a editor poco professionali.

Fretta di pubblicare? Certo, perché spesso a un numero elevato di pubblicazioni corrispondono finanziamenti (quando non è lo stesso autore che finanzia la pubblicazione). Ma alla fine, che l’editore sia a pagamento o meno è del tutto secondario, ciò che conta è che il catalogo che presenta sia di qualità. Non sempre è così.

La vittima di questi meccanismi è il lettore!

Infatti, oltre al rischio di delusione nella lettura, esiste un altro rischio, ben più grave, che è la diseducazione alla fruizione della letteratura. E qui è il lettore che deve ribellarsi, perché la diseducazione è conseguenza dell’impoverimento del prodotto letterario, del conformismo di un mercato che non scommette sulla qualità e deriva nella privazione del carattere rivoluzionario della letteratura che non genera pensiero. E, ahimè, ben sappiamo che il pensiero conformista genera mostri.

Trovo utile, quindi, fare alcune considerazioni su come poter valutare la lettura, lavoro che poi non è tanto impegnativo, ma necessario per leggere bene, e per non essere presi in giro dalla proposta massimalista guidata da scopi puramente commerciali.

Partiamo quindi da alcuni principi:

1. La letteratura deve intrattenere, ma deve anche far pensare, altrimenti rischia di non essere arte. Quando si legge un romanzo è utile fare un esercizio, cioè, vedere quante sono le citazioni (frasi che riassumono un pensiero forte e che tanto ci piace condividere in rete, o anche passaggi di indiscutibile bellezza che accendono il piacere della lettura) che possiamo estrapolare dal testo: una ogni cento pagine? Un po’ poco. Una ogni dieci pagine? Magari. Una ogni pagina? Quasi utopia, ma non impossibile. Cosa succede quando si legge qualcosa di degno che può diventare una citazione? Semplice: il lettore si ferma, torna un po’ indietro, rilegge il frammento, a volte lo sottolinea o lo copia, insomma la lettura si fa attenta e diventa puro godimento per il pensiero. Se manca, il libro passa nell’indifferenza e, pur se può essere bello, a meno di essere un capolavoro, difficilmente si fissa nel ricordo.

2. La rappresentazione letteraria è preferibile se condita da invenzione letteraria. Leggere un libro che racconta, ad esempio, vicende note a tutti, non arricchisce. Quando invece nella lettura si è colti dallo stupore o dalla sorpresa, allora qualcosa di buono succede. Per questo l’invenzione letteraria, vista col fumo negli occhi da alcuni agenti e da alcuni editori, deve essere apprezzata come un valore. Purtroppo ad essa si contrappone l’esigenza di entrare in un mercato: è molto più rassicurante una traccia nota che non un nuovo guizzo letterario. Oggi sono troppe le opere che non dicono nulla di nuovo. Ma se non dice nulla di nuovo, che letteratura è?

3. C’è differenza tra identificarsi nella narrazione e sorprendersi della narrazione. Questo punto sembra ricalcare quanto appena scritto, per cui lo spiego meglio: identificarsi indica ripetizione; sorprendersi, invece, implica mettersi a nudo, trovarsi impreparati a quello che si legge, vivere un vuoto da riempire. Gioia per il lettore, ma anche per la mente perché, presa da una ginnastica rinnovatrice, si tiene in allenamento e diventa più forte.

4. Rappresentare un personaggio o entrare nell’intimità del personaggio? Nel primo caso il lettore è spettatore e subisce la lettura, nel secondo caso il lettore penetra nella psiche del personaggio e vive un’esperienza quasi attoriale, addirittura sciamanica, perché diventa altro da sé. E cosa c’è di più arricchente dell’esplorazione dell’altro da sé?

5. Una sfida per gli scrittori è proprio diventare il personaggio di cui si scrive. Lo è anche per il lettore. Per questo il personaggio deve avere una sua dinamica. Il personaggio statico che non evolve, non invita a crescere con lui. Se leggendo riusciamo a identificare le dinamiche che trasformano un personaggio e troviamo credibile (ancora meglio se credibile essendo onirica) la sua evoluzione, beh, anche noi viviamo la nostra evoluzione.

6. I livelli sensoriali del lettore hanno per indicatore la capacità di aprire le porte a nuove sensazioni. La letteratura ha anche la missione di invitare ad esplorare il proprio essere, ma c’è una differenza sostanziale tra “aprire” e “insinuare”, oppure evocare, suscitare, invitare. Nel primo caso lo scrittore impone il suo cammino, negli altri è il lettore che vive una sua esperienza a seguito di accenni e stimoli fatti di parole e silenzi.

7. E in tutto questo, la trama? Alcuni libri (che non definirei romanzi, ma racconti) hanno una trama dominante su tutto e si leggono per vedere cosa succede. Altri libri, che oltre la trama hanno una tessitura fatta di personaggi, di invenzione, ecc., hanno la virtù di farsi leggere per capire come, perché, in che modo, cosa frulla nel cervello di quegli esserini e quegli oggettini scolpiti con le parole. Scusate se è poco.

8. La reazione del lettore alla proposta letteraria può essere superficiale, il che non è una colpa, e magari si concentra sui fatti raccontati o narrati. Questo, però, impoverisce il senso della creazione artistica. Se invece il lettore vive un’esperienza di rinnovamento, allora lo scrittore ha fatto il suo dovere.

In altre parole, il nostro sentire, in quanto lettori, può essere edito, quindi di consolidamento dell’esistente, o inedito, quindi, nuovo, stimolante e costruttivo. Nel primo caso si produce una lettura statica, nel secondo caso il lettore si arricchisce. E se da una parte il lavoro dello scrittore è quello di creare dinamiche di pensiero e di intrattenimento, da un’altra parte il lavoro del lettore è quello di lasciare che queste dinamiche gli vivano dentro. Altrimenti leggere un libro è come leggere fatti di cronaca.

Claudio Fiorentini

1 comments

Articolo pienamente condivisibile. Lucido e “spietato” (giustamente) come sempre, Claudio Fiorentini. Dagli anni 80 in poi, tra l’altro, in Italia non abbiamo più vera narrativa ma “sceneggiature” , di gialli, di storie intimistiche, di saghe familiari e stop . E io sono il primo, come modestissimo autore, a ammetterlo anche con riferimento ai miei “parti”. Purtroppo, dopo Calvino e Sciascia, il buio senza nemmeno la siepe.

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