Musica o inquinamento sonoro?

La musica, una rivoluzione silenziosa, è in parte stata trasformata in un mercato insulso, dove personaggi artificiali propongono i loro brani, spesso insulsi, spacciandoli per musica o, peggio, per buona musica. Verrebbe da chiedere chi decide cosa sia buona musica e perché gli editori musicali hanno trasformato un’arte, per sua natura disobbediente, in un mercato frivolo popolato da mediocrità indicibili.

Certo, esiste l’ascoltatore medio, si direbbe che è lui a decidere cosa meriti la ribalta, ma se i mass media (e conseguentemente il mercato della musica) propongono mediocrità, la scelta è prima di tutto editoriale. Ricordo benissimo che, quando ero bambino, la radio in casa sempre accesa proponeva anche grande musica, per questo già a cinque o sei anni io avevo ascoltato Verdi e Beethoven oltre i vari Gianni Meccia e Domenico Modugno.

Però, permettetemi una nota: gli arrangiamenti di molte “canzonette” (anche mediocri) a volte erano affidati a geni del calibro di Morricone che non esitavano ad introdurre nel brano sperimentazioni, come schiaffeggiare l’acqua o far rotolare barattoli, esempi chiari della musica “concreta” di “varesiana” memoria.

Oggi, tuttavia, ci troviamo davanti all’invasione del nulla, dove i brani di valore sono spesso esclusi a favore dei fuoriusciti dai vari “talent” o dai vari festival, e la creatività o la sperimentazione sono messe da parte per lasciare campo libero a costrutti consolidati e rassicuranti. Intendiamoci, non tutto è mediocre, anche nel pop più scarso, a volte, qualcosa di buono si può trovare.

Ma torniamo al tema di questa analisi: oggi il pubblico è quasi addormentato e ha perso quel sano senso critico che viene dall’educazione all’ascolto, e si divide in fan di questo o dell’altro autore, più per l’immagine che propongono che per la reale qualità del lavoro artistico e creativo. In una intervista George Harrison (che non era l’ultimo arrivato) diceva che lui non scriveva musica, non era un compositore, ma si metteva alla chitarra e registrava quello che gli veniva in mente… aveva ragione e, anche se i Beatles sono stati (e ancora sono) un monumento planetario insuperabile, lui riconosceva i suoi limiti lasciando intuire che la musica è altro… ed era George Harrison…

Eddie Davies era un sassofonista geniale, suonava con i più grandi come Oscar Peterson e Clark Terry, ma dopo i cinquant’anni si è iscritto al conservatorio per imparare a fare musica. Le Orme, tra i più grandi del prog-rock, si sono iscritti al conservatorio quando erano già famosi e facevano soldi a palate, poi hanno prodotto uno dei dischi più geniali dell’epoca (Florian, del 1979), che ben pochi ricordano, dove usavano percussioni tribali e strumenti puramente acustici, tra l’altro con testi di qualità sia poetica che di critica al sistema di cui facevano parte (con una critica neanche tanto velata a Bob Dylan e a quello che rappresentava musicalmente, ma che di certo non si riferiva alla sua valida poetica), il loro è stato forse un requiem per la buona musica emersa dal mondo del rock in quegli anni.

Ennio Morricone riteneva che le sue bellissime colonne sonore fossero robetta, forse gli sarebbe piaciuto seguire le orme del suo maestro Goffredo Petrassi e continuare a sperimentare come aveva sempre voluto fare (ma poi ascolti la musica di Mission e ti rendi conto che nel suo campo ha fatto una rivoluzione ciclopica)…

Certamente, alcuni brani della musica pop possono entrare nel regno della musica, anche alcune banalissime melodie possono definirsi musica, ma sono molte, troppe le schifezze che si sentono in giro e che vengono spacciate per musica (peggio, per buona musica) e l’inquinamento sonoro di cui siamo vittime (basta entrare in un negozio qualsiasi), per chi sceglie di sintonizzarsi su quella specifica emittente radio, è buona musica.

Un altro punto riguarda i testi: la musica non sempre ricorre alle parole, è prima di tutto un insieme di suoni, di ritmi e di armonie che non hanno nulla di razionale, le parole vengono dopo e, se eliminiamo la quasi totalità di testi che propongono i “non-musicisti” che vanno tanto di moda, in alcuni casi troviamo testi poetici straordinari (mi vengono in mente “The sage” di Greg Lake, “E mi viene da pensare” di Francesco di Giacomo, poeta e voce del Banco, “What a wonderful world” di Louis Armstrong… per citare solo tre testi di indubbio valore poetico).

La musica ha un carattere rivoluzionario di suo (come lo ha la poesia e come lo ha qualsiasi arte), ma credo che sia proprio questo suo carattere rivoluzionario, quando c’è, a renderla ostica o poco commerciabile, è riservata a una élite di appassionati e raramente viene proposta dalle varie radio o dai vari festival (o talent show) che i “mass media” propongono agli utenti.

Ci fu un’epoca non tanto tempo fa, in cui la musica ha preso il sopravvento ed è diventata protagonista assoluta delle chiacchiere tra amici; parlo degli anni sessanta e settanta, quando ci fu un’esplosione di creatività, soprattutto in Europa, che portò la scena rock nel novero della musica classica o del jazz. Fu qualcosa di magico e di irripetibile, e a seguito della rivoluzione iniziata dal quartetto di Liverpool, centinaia di giovani hanno iniziato ad amare la musica complessa e ricercata, quella proposta da altri giovani, e gente come Keith Emerson e Vittorio Nocenzi (per citare solo due nomi) hanno proposto al grande pubblico composizioni musicali articolate, innovative e assolutamente geniali.

A un certo punto, però, è arrivato il dominio degli editori che invece di investire nei talenti musicali emergenti si sono concentrati nel prodotto commerciabile. Frank Zappa, in una intervista, spiega a modo suo perché questo sia successo:

E infine, la musica cos’è, se non il ritmo del passo del tempo che sale e scende, che si mischia con altre cose che salgono e che scendono, che si contrappone, che litiga, che sbuffa e che… ti fa sentire che così è la vita… e che ti fa capire che nulla torna e tutto va… insomma, la musica è un’arte intoccabile e invisibile che entra nella mente e attiva il pensiero non pensato. Ecco il punto: attiva qualcosa dentro di noi.

Poi esistono le canzoni che si sentono in giro, che non sempre (anzi, quasi mai) possono dirsi musica, che si riducono a motivetti ripetitivi, che piacciono proprio per la ripetitività (o per la prevedibilità) e che diseducano al buon ascolto perché fanno pensare che la vera musica sia una rottura di scatole. Se qualcosa richiede un po’ d’impegno o un po’ di concentrazione va scansata e un popolo che non pensa torna utile a chi deve vendere l’immondizia. E se gente come Keith Emerson ha portato a scoprire Holst, Scriabin e Mussorskij ai giovani che lo ascoltavano, gli ascoltatori di Sferaebbasta non avranno questa opportunità. E abbiamo creato il popolo bue.

Claudio Fiorentini

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