Italiani che emigrano

Quando leggo titoli a caratteri cubitali riguardanti gli italiani che “emigrano”, mi viene da chiedere: e che c’è di male?

Partiamo da un presupposto: ciò che ha garantito al Sapiens la sua prosperità (direi, per certi versi, anche eccessiva) sono state proprio, per molti millenni, le migrazioni. Ora, se parliamo di italiani che “emigrano”, dovremmo chiarire quali sono le condizioni di questi trasferimenti, e dove partono questi italiani.

Primo punto da chiarire: l’Europa non va vista come terra lontana. L’Italia ne fa parte e, se facciamo due conti con il pallottoliere, possiamo scoprire che è più facile (e meno oneroso) andare da Roma a Madrid o da Milano a Parigi, che andare da Livorno a Matera. Inoltre, una volta superata la barriera della lingua (sarebbe vergognoso non farlo), scopriamo qualsiasi paese europeo ha caratteristiche analoghe all’Italia.

Oggi, per dire “emigrare”, dovremmo dire che ci si trasferisce in Australia, in Cina o in India, non di certo in Spagna, in Francia o in Portogallo, ma neanche in Olanda o in Lussemburgo. L’Europa, diciamolo chiaramente, è una casa comune e quando ci si trasferisce in un paese europeo è come se ci si spostasse da un luogo a un altro in una grande federazione. Certo, ancora non si può dire che l’Europa sia una federazione di stati, ma provate a chiedere a uno studente Erasmus se per lui spostarsi in Europa è andare all’estero, vedrete che dirà di non sentirsi poi così tanto straniero.

Bisognerebbe, però, porsi qualche domanda sul perché di certi spostamenti: in Italia, specie in alcune città, i servizi al cittadino sono scadenti, la meritocrazia è una parola spesso priva di significato, l’accesso al mercato del lavoro è appannaggio di amici e parenti di qualcuno un po’ più altolocato.

Non sempre e non in tutte le città italiane è così, esistono esempi virtuosi, ma è innegabile che l’immobilismo delle PMI, che costituiscono una percentuale troppo elevata del nostro PIL, la PA che funziona solo per chi ha qualche privilegio e una mentalità poco progressista, direi anche nepotista, non fanno bene al paese.

Emigrare invece è positivo, i nostri giovani imparano a vivere in luoghi dove le cose funzionano meglio e, forse, capiscono che le virtù degli italiani, che pure esistono, non sono rappresentate dalla pubblica amministrazione o dal tessuto malato di relazioni e raccomandazioni che caratterizzano la vita quotidiana dell’italiano medio.

Si può obiettare “Se i migliori se ne vanno, chi migliorerà l’Italia?”, ma non è così che occorre vedere la questione perché i migliori sono ovunque, basterebbe riconoscerne il merito! E non tutti “emigrano”. Chiediamoci, semmai, cosa succede ai “migliori” che rimangono in Italia, adattati a far lavori poco premianti, a cedere il posto al raccomandato di turno, a subire le angherie del “capo”, a combattere con una burocrazia che non funziona, o che funziona solo se “oliata”.

Faccio un esempio personale: quando mi sono trasferito in Spagna ho aperto la mia ditta individuale. Come potete immaginare, sono andato all’agenzia delle entrate e per sbrigare la pratica ho chiesto appuntamento. Tale giorno a tale ora mi sono presentato, mi hanno chiamato con quindici minuti di ritardo, mi hanno chiesto “scusa per il ritardo”, e dopo venti minuti sono uscito con la pratica fatta, accompagnato dal sorriso dell’impiegata che mi ha seguito per quei venti minuti, dandomi tutte le indicazioni possibili e immaginabili. Il confronto con Roma, città dove risiedevo prima, ha dell’incredibile perché all’agenzia delle entrate Roma 1, quindi parlo del centro, ho fatto anche cinque ore e mezza di fila per non risolvere i miei problemi. Parlo di Roma, la capitale d’Italia, non di una sperduta città della Siberia.

Oltre questo, posso citare la gestione della spazzatura, il trasporto pubblico, la manutenzione delle strade e dei marciapiedi, l’efficienza delle poste, la cortesia degli addetti eccetera… Di esempi ne ho molti come ho anche molti termini di paragone, del resto sono stato residente in Francia, in Marocco e in Messico per molti anni prima di trasferirmi in Spagna, ma se il confronto lo faccio solo tra capitali europee, siate sicuri che almeno Roma perde su tutti i fronti.

Certo, qualcuno direbbe che a Roma perdoniamo tutto grazie alla sua opulenta bellezza, ma uscendo dal centro storico, andando dove vive la gente comune (e questo vale per qualsiasi città italiana), forse la bellezza diventa tutt’altro che opulenta, per cui ridimensionerei anche la concessione del nostro perdono.

Se parliamo di lavoro, invece, dobbiamo essere molto aperti nell’accettare le critiche. Iniziamo chiarendo che le catene di montaggio ormai non sono il fulcro della produttività perché oggi ciò che maggiormente si sviluppa è la tecnologia di alto livello. L’Italia cosa fa se non partecipare in maniera assai marginale? Certo, vestiti e scarpe forse possono ancora essere considerate una parte dell’eccellenza del “made in Italy”, e se vogliamo esagerare parliamo di Ducati, Brembo e Ferrari… ma quanta gente può lavorare in queste eccellenze? La maggior parte dei lavoratori è nelle multinazionali o nelle normalissime PMI che, non dimentichiamolo, rappresentano un bel quasi 50% del PIL…

E l’High Tech? Un punto dolente.

La verità è che ci sono eccellenze, ma sono poche; e se dovesse sorgere qualche nuova realtà di quelle che cambiano il modo di vivere (come lo hanno fatto Google, Yahoo, Skype e Apple, per citare qualche azienda che forse ha iniziato il suo percorso come “cantinara”), di certo non è l’Italia il paese dove possono emergere perché la PA, il nepotismo e il conservatorismo (la cronica mancanza di visione), soffocano ogni iniziativa degna di successo.

Oggi, tra l’altro, le aziende hanno vita breve, questo non perché sono fatte male, ma perché la tecnologia si sviluppa a una velocità tale che starle dietro non è facile; e se in un mondo tecnologico la velocità di adattamento o di trasformazione è fondamentale, in Italia tale velocità non trova supporto essendo, il mondo dell’impresa, schiavo di una mentalità retrograda e clientelare. Insomma, i giovani “emigrano”? Fanno bene! E dirò anche che fanno un bene all’Italia perché con queste dinamiche si può dare uno scossone al “carrozzone” che si è venuto a creare nel nostro amato Paese.

E poi, siamo o non siamo nell’era della globalizzazione? Il mercato è parte fondante di una società che, con tutte le sue dinamiche, costituisce un impasto di interconnessioni. Gli equilibri che si stanno disegnando, ormai da decenni, determinano come sarà il futuro. Essere conservatori e nazionalisti significa non capire che il mondo gira sempre e comunque, a prescindere dalla nostra voglia di tenere i figli a casa, o a poche centinaia di metri da casa.

Qui aggancio un’altra considerazione sul carattere un po’ “mammone” di alcuni nostri connazionali: tempo addietro, in una trasmissione su Radio3, è intervenuta una giovane tra i trenta e i quarant’anni (una volta a quell’età non ci consideravamo tanto giovani) che da nove anni viveva a Londra. Ebbene, la cosa che più mi ha stupito del suo intervento, era che diceva “quando torno a casa” parlando di Pescara, cioè casa di mamma e papà. Ma dico io, in nove anni la “giovane” non è stata capace di dire “casa mia è dove vivo”? Ah, questi italiani che non riescono a vivere dove il caffè è cattivo e dove la pasta è scotta. Ci rendiamo conto che l’Italia non è il centro del mondo? Allora aveva ragione Padoa Schioppa quando diceva che gli italiani devono smettere di essere “mammoni”, per poi beccarsi bacchettate a destra e a manca.

Ma veniamo a un altro punto: il lavoro, dente cariato della nostra società.

Le nostre PMI sono, spesso, un fiore all’occhiello. Tuttavia soffrono, altrettanto spesso, di una gestione padronale dove il management intermedio è visto, ad essere gentili, come un intralcio. Eppure è proprio il management intermedio la chiave del successo in un mondo globalizzato. Ma cos’è questo “management”? Se visto correttamente, è un pensatoio gestionale in cui si elaborano le idee e si trovano nuovi sbocchi. Ma allora, perché fa paura a tanti imprenditori, forse temono di perdere il “potere”? Non mi sembra che siano tutti degli illuminati come lo furono Olivetti e Ferrari!

Continuo: in una delle aziende per le quali ho lavorato ben ricordo che, avendo studiato la strategia a livello Paese, proposi alla proprietà di fare un piano industriale a cinque anni per affrontare le sfide del futuro che, se avessimo continuato sulla strada tracciata dalla proprietà, non avremmo potuto sperare di vincere. Ebbene, quando parlai di strategia, la proprietà cadde dalle nuvole e non seppe quale fosse la differenza tra strategia e piano d’azione. Nonostante ciò, mi incaricò di fare un piano industriale. Lo feci, per poi trovarmi dopo un paio di mesi con le solite storie di relazioni e amicizie perché per l’azienda la sfida non era il mercato, ma trovare le amicizie giuste. In breve, il mio lavoro (ammesso che abbia avuto un minimo valore) venne ignorato e in meno di un anno l’azienda portò i libri in tribunale. Già, perché quando un’azienda nasce per “amicizie”, difficilmente potrà confrontarsi con il “mercato” che ha il maledetto vizio di premiare l’innovazione e l’audacia delle proposte e affondare le anacronistiche pretese dell’imprenditore di turno che dice “ma eravamo d’accordo”.

Tornando ai giovani che “emigrano”, cosa potranno fare questi giovani se un giorno dovessero tornare in Italia e ritrovarsi con le solite beghe clientelari? Ripartire all’estero o insediarsi in una città italiana a loro scelta per far partire una nuova attività impiegando le giuste competenze? Certo, ripartiranno se il sistema rimane lo stesso, ma cambieranno l’Italia se questa è disposta a recepire le nuove proposte.

Alla fine, dovremmo dire che se l’Italia sarà ancora in grado di proporre valore, e ad oggi ancora (nonostante tutto) lo è, lo dovremo alla forza di volontà di molte persone che hanno capito che il mondo non è un contorno, ma un contenitore dove ci siamo pure noi. Tutti insieme. E questo lo si capisce, per ora, “emigrando”.

Concludo dicendo grazie a tutti i giovani e meno giovani che “emigrano”, auspicando che l’Italia capisca che l’estero non esiste, esiste solo un mondo da osservare, da conoscere, e da cui si può imparare molto, per poi replicare il “bene” anche nel proprio paese di origine.

Claudio Fiorentini

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