La censura ha cambiato vestito

Il secolo scorso ha portato guerre, dittature, distruzione, carestie e, allo stesso tempo, rivoluzioni epocali che hanno trasformato le nostre vite. Basti pensare al telefono, all’automobile, alle macchine agricole, alle case popolari, ai voli civili, alle vie di comunicazione e tante altre cose che, una volta iniziata la ricostruzione del dopoguerra, sono diventate l’occasione per partecipare a una crescita impressionante. Inoltre, è proprio dalla seconda metà del secolo, con il boom economico, che tutto è diventato popolare e la società è diventata consumistica.

Non è mia intenzione ripercorrere, in questo articolo, le titaniche trasformazioni che abbiamo vissuto; intendo semmai proporre una riflessione su alcuni cambiamenti paralleli, quelli meno evidenti, che hanno avuto grande influenza sulla nostra evoluzione. Uno di questi è il controllo dell’informazione. In altre parole: la censura.

Ben sappiamo che una delle armi dei dittatori è la propaganda e il controllo dell’informazione, ma anche nelle società democratiche, in un modo meno opprimente, abbiamo lo stesso fenomeno perché, nonostante con l’accesso libero a tutte le informazioni, cercare dati e documenti è cosa assai complicata e richiede un certo impegno, cosa che, ahimè, nella pigra e frettolosa società del click, è una fatica che pochi gradiscono affrontare.

Ma vediamo come ci siamo arrivati.

Negli anni cinquanta e sessanta, radio e televisione sono entrate in tutte le case. Il potere contenuto in quelle scatole era straordinario: trasmettevano informazione, diffondevano cultura e, prima timidamente, poi con atroce invadenza, veicolavano i nostri consumi attraverso la pubblicità.

Cultura e informazione, comunque, non erano per nulla esenti da controlli fatti da comitati “scientifici” che decidevano cosa proporre al “popolo”. Vigeva la censura del perbenismo. Vale la pena ricordare alcuni esempi, come le canzoni di Fabrizio de André che venivano censurate alla RAI e, paradossalmente, venivano trasmesse sulla Radio Vaticana (dopo lunghe introduzioni spiegando che questa o quella canzone, pur parlando di “puttane”, era degna di nota).

Altro esempio lo abbiamo in Luigi Tenco che, per partecipare al festival di Sanremo, dovette cambiare completamente il testo di una sua canzone che parlava di guerra, trasformandola in una banale canzone d’amore. Anche Lucio Dalla dovette censurare alcuni suoi testi, ma lo sopportò senza dramma. Certo, alla censura si affiancava anche un contenuto culturale. Di quell’epoca ricordo il teatro di De’ Filippo e le sinfonie di Beethoven trasmesse alla radio, perennemente accesa in casa, ma anche Don Camillo e Peppone o Padre Brown alla TV che, non dimentichiamolo, uno era tratto dai libri di Guareschi, l’altro da Chesterton. Scusate se è poco.

Tuttavia, con il ferreo controllo della censura, non solo le parolacce erano bandite dai “mass media”, ma anche i baci, i sospiri (nel bellissimo Nuovo cinema Paradiso, di Tornatore, viene ben riportato, con arte cinematografica esemplare, il rigoroso controllo sui film) e anche le canzoni in inglese, che venivano puntualmente riscritte con testi banali e stucchevoli, facendo la fortuna di parolieri come l’onnipresente (e sopravvalutato) Mogol. Un esempio vergognoso è il brano “senza luce”, portato al successo dai Dik Dik: in origine aveva un testo profondamente poetico evidenziato già dal titolo che, tradotto, sarebbe “Una sfumatura più bianca del pallido”, certamente più impegnativo del titolo che gli venne dato in italiano.

A fine anni sessanta, però, qualcosa cambiò anche perché, a seguito dell’alfabetizzazione e del livello di scolarità che si elevava, nasceva il pensiero critico. Da lì sono nati movimenti come quello dei figli dei fiori e come l’impegno politico dei giovani. Negli USA, presi da sempre come modello, iniziò una grande rivoluzione di costumi partendo dal “molleggiato” Elvis Presley, fino a diventare un movimento liberatorio che si ribellò alla guerra in Vietnam che, anche se in realtà i giovani non si ribellarono alla guerra ma alla leva obbligatoria che li avrebbe portati a morire per le assurdità di un sistema marcio e conservatore, divenne un movimento esemplare in grado di suscitare, ancora oggi, meraviglia.

Allo stesso tempo, per onestà intellettuale, dovremmo ricordare che non ci fu solo l’America: in Argentina ci furono i “descamisados”, in Messico il ’68 studentesco (che portò alla strage di Tlatelolco), e così in molti altri luoghi ci furono movimenti e proteste che hanno segnato la nostra storia con una impressionante rivoluzione culturale.

Anche la censura andò via via cambiando, almeno in Italia, dove finalmente si potevano ascoltare i Beatles alla radio che, se poco prima erano tacciati da capelloni schiamazzanti, diventarono, meritatamente, i più ascoltati e ammirati della storia della musica del secolo scorso (e ancora oggi lo sono). Eppure, me ne ricordo bene, se non del tutto censurati, continuarono per un bel po’ a essere presi di mira non solo per il cambiamento che portavano nel mondo della musica, ma anche per il titanico messaggio sociale che rappresentavano.

In quegli anni, sempre in Italia, sorsero anche molte realtà alternative che ospitavano questo grande movimento culturale. Ricordiamo, ad esempio, il Folkstudio di Roma, che tra gli ospiti ebbe artisti di grande valore come, a inizio anni sessanta, uno sconosciuto Bob Dylan.

Gli anni sessanta furono lo scenario di una rivoluzione culturale? Evidentemente sì!

Ma le rivoluzioni culturali vanno controllate, non è pensabile che si passi da “Io tu e le rose” a “Woodstock” senza che dai giovani e dagli intellettuali abbia preso vita un moto di cambiamento radicale di usi, costumi e abitudini. All’epoca, però, il sistema del controllo, ben rappresentato dalla censura, non era in grado di gestire le dinamiche del cambiamento sociale. Era un sistema anacronistico e andava, anch’esso, rinnovato. Ma intanto aveva lasciato un vuoto e non si sapeva come fare per riempirlo.

L’opportunismo di alcuni imprenditori sfruttò il momento e, grazie anche alle liberalizzazioni di frequenze e alla creazione di spazi editoriali, il vento di rinnovamento fu cavalcato dai nuovi “mass media” che, vista l’opportunità di crescita che gli veniva data, hanno rappresentato, a volte indegnamente, la soddisfazione di un bisogno: quello di divertirsi senza faticare. Già, perché se fino agli anni cinquanta l’Italia era semianalfabeta e operaia, negli anni sessanta e settanta ha vissuto la rivoluzione più grande della storia che, dopo l’alfabetizzazione simboleggiata dal magnifico maestro Manzi, ha portato diplomi e lauree in casa di quasi tutti i cittadini.

Con l’accesso allo studio prendeva forma il pensiero critico che, di certo, non poteva accontentarsi delle prosopopee censorie di un sistema logoro e bigotto. Si sa, se il pensiero ha briglia sciolta, chi ne capisce le implicazioni trova il modo di governarlo. Certo, il vento di libertà di quegli anni, cosa innegabile, portò anche molti problemi. Ma non è questo il tema del mio articolo.

Il dilemma divenne governare il pensiero senza ricorrere alla censura e la soluzione fu la trasformazione del sistema che, dando al popolo “panem et circenses”, invece di tagliare la scena del bacio o la parolaccia, tracciò un nuovo percorso con proposte di TV e radio private che, a cambio di uno squallido spogliarello o della ritrasmissione ossessiva di “Hotel California”, ovviamente accompagnati da infidi messaggi pubblicitari, diventavano la luce del faro che orienta nella notte, a vantaggio della società dei consumi. La censura scomparve e nacque la manipolazione.

Capendo la portata di questo fenomeno, i media smisero di preoccuparsi della qualità dei contenuti e proposero schemi elementari e manicheistici, dove la divisione tra buoni e cattivi imponeva modelli che annientavano il pensiero critico. Non è difficile fare l’inventario di prodotti televisivi (quasi tutti americani) dove ci sono i buoni e i cattivi, e dove i buoni sono sempre americani, belli, bianchi e con gli occhi azzurri che nel lieto fine sterminano i cattivi e se ne vanno con una valigia di dollari in mano e senza crisi di coscienza.

I vecchi metodi di censura sono stati sostituiti dall’imposizione di modelli che, con l’avvento dei videogiochi e delle reti sociali, esasperano la divisione tra buoni e cattivi e costringono il pensiero critico a vivere in un recinto soffocante. I “mass media”, iniziando con spogliarelli per “debordare” nel turpiloquio, hanno disegnato modelli comportamentali che limitano la capacità di analisi e la proposta “culturale” è diventata sempre più rarefatta, se non semplicemente asservita a scopi commerciali.

Per passare dal sogno di Woodstock agli spogliarelli televisivi ci sono voluti meno di dieci anni ma, una volta creato il modello, tutto il resto ha seguito la rotta tracciata per poi evolvere nella rete, il “non luogo” dove impera l’isolamento dell’utente e la proposta di contenuti spesso privi di qualsiasi principio etico. Se Woodstock rappresenta un momento straordinario della nostra storia, il dopo rappresenta l’impoverimento del pensiero mascherato da conquista civile, cioè la censura al contrario.

Arriviamo ai giorni nostri, dove vediamo che questi modelli si sono trasformati in slogan, spesso privi di contenuti altrettanto spesso gridati sulle reti sociali, e che riescono ad avere più seguito di una ricerca scientifica o di un pensiero filosofico.

Come evolverà questa “censura” al contrario non lo so, ma oggi, nell’eccesso dell’offerta, si perde il senso della ricerca e basta la “condivisione” di un messaggio riassunto in un tweet per affossare un ragionamento fondato su argomentazioni sensate.

Basta un click, e si oscura il pensiero!

Claudio Fiorentini

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