Progressisti, conservatori e la banana di Cattelan

In un mio articolo di qualche anno fa parlavo della banana di Cattelan, opera concettuale che, nella sua assurdità, risulta rivelatrice: “…la banana rappresenta il falso mito, un oggetto deperibile che se rimane lì per più di una settimana si riempie di vermi. La banana, però, è fissata al muro con il nastro adesivo, che senso ha il suo rimanere lì? Meglio mangiarla, se poi è matura è anche più buona. Ecco il senso della rivoluzione. Il falso mito è fissato al muro da un nastro, e il nastro rappresenta chi mitizza il nuovo mito, cioè il “popolo”, cioè noi.

Questo mito marcisce in fretta (per questo l’artista ha usato la banana e non il melograno), a meno che non arrivi qualcuno che stravolga l’ordine costituito e metta in evidenza che il mito, essendo falso, può essere semplicemente mangiato e digerito. E dopo aver mangiato la banana, che succede a quei venti centimetri dl nastro adesivo (il popolo che ha retto il falso mito)? Si buttano, tanto ce n’è ancora un rotolo da consumare.”. Insomma, il falso mito, creato dalle dinamiche della comunicazione, assurge al suo ruolo con la complicità inconsapevole delle masse che diventano oggetto di consumo non deperibile e che hanno la caratteristica di essere modellabili.

Oggi, ribellarsi a quelle dinamiche, come ha ben rappresentato il secondo artista che ha distrutto l’opera di Cattelan mangiandola, implica il riconoscimento della falsità del mito. Per arrivarci occorre il coraggio di ribellarsi al dominio del messaggio mediatico, smontandolo con un atto rivoluzionario che, trasferito nel mondo della comunicazione, potrebbe semplicemente chiamarsi “approfondimento”.

E qui veniamo al tema di questo articolo: non è possibile il dibattito se non si hanno gli strumenti per dialogare, questi strumenti li danno l’umiltà, valore ormai poco praticato, la curiosità, caratteristica umana che tende a dissolversi quando la soluzione ai dubbi viene riassunta da uno slogan, e la capacità di cercare le informazioni necessarie per capire il contesto dove si colloca il problema.

Sono tre elementi facili da manipolare perché, sebbene oggi abbiamo accesso alle informazioni quasi illimitato, cosa che solo trent’anni fa era impensabile, l’alta digeribilità degli slogan risolve ogni possibilità di approfondimento e trasforma la curiosità e la capacità di cercare le informazioni in detrito, contrapponendo all’umiltà l’arma segreta della comunicazione: l’arroganza.

Dopo questa lunga premessa, vorrei parlare della scena politica italiana (ma non solo politica) che oggi vive di capacità comunicativa più che di contenuti. Ebbene, la politica, per chiamarsi tale, necessita dell’approfondimento dei temi da trattare. Mancando quello, il “popolo” diventa una fabbrica di voti. Del resto basta uno slogan per convincere, e ben sappiamo che convincere equivale a vincere.

Io però vorrei tentare di contrappormi a questa dinamica e, attraverso una breve analisi, tornare al nemico dello slogan: l’approfondimento. Iniziamo con la terminologia che, ad oggi, dovremmo essere in grado di utilizzare, mettendo in campo due termini fondamentali come “progressista” e “conservatore”, raramente usati dall’agone politico e poco trattati tra gli elettori. Per farlo chiedo aiuto alla Treccani.

Progressista: Che sostiene la necessità di accelerare il progresso, cioè l’evoluzione della società, nell’ambito politico, sociale ed economico, e si comporta e agisce di conseguenza…

Conservatore: Che o chi, in politica, sostenendo il valore della tradizione, si oppone a qualunque ideologia progressista, e mira a conservare le strutture sociali e politiche tradizionali…

Semplificando, si potrebbe dire che in un caso si tentano di comprendere le dinamiche evolutive delle nostre società, nell’altro ci si oppone a queste dinamiche. Tenendo presente che, in qualsiasi contesto si collochino le due visioni, ci sono sempre mille sfumature da valutare, mi chiedo, estremizzando: se l’uomo delle caverne fosse stato sempre conservatore, saremmo ancora uomini delle caverne?

Ora veniamo all’agone politico. Chiaramente, nessuna delle due posizioni può essere radicale. Alcuni conservatori sono, in parte, progressisti, alcuni progressisti sono, in parte, conservatori. Dipende dal contesto. Le sfumature intermedie, come dicevo, ci sono, e sono degne di entrare nel dibattito politico dove il dialogo dovrebbe servire ad arricchire il pensiero di ciascuno rendendolo, giustamente, dinamico. Già, perché il mondo è inserito in una dinamica che non va mai indietro, che va sempre avanti, che “progredisce”, per cui anche il pensiero conservatore non può mai perdere il senso dell’evoluzione. E l’evoluzione, per definizione, non si ferma mai.

Essere conservatori implica rifiutare che le cose cambino? Evidentemente no, ma stando alla definizione, implica l’attaccamento a certe “tradizioni”. E allora, le tradizioni non cambiano mai? Evidentemente no, ed essere progressista significa accettarne le mutazioni e capirne l’evoluzione.

L’attaccamento alle tradizioni può essere legittimo, ma facciamo un esempio, tanto per capire cosa significa “tradizione”, sempre con l’ausilio della Treccani, citando il ballo della Taranta: “…per far tornare la tarantolata alla normalità si dà luogo a una cerimonia con musica, nel corso della quale la donna si abbandona a una danza sfrenata nella quale mima con movimenti convulsi, a terra e in piedi, la lotta con la tarantola e la sua uccisione.”

Si tratta di una danza per certi aspetti sciamanica. Allora chiediamoci se lo scopo della taranta, oggi, è risolvere i problemi della “tarantolata” o semplicemente divertirsi ballando o allietare i turisti, avendo ormai svuotato la tradizione del suo contenuto misterico.

Quindi, se la tradizione, nella sua meravigliosa rappresentazione, ha perso il suo senso primario, come si collocano i progressisti e i conservatori davanti all’impoverimento dei contenuti si questa o quella “tradizione”? Forse il conservatore propone la danza ricercandone le origini e il progressista ne studia l’evoluzione?

È un esempio estremo, ma serve per affermare che l’evoluzione delle tradizioni sentenzia che il cambiamento fa parte della natura umana, e tornare al senso originario della tradizione è impossibile se questa è inserita in un mondo in costante evoluzione. Ammettiamolo, opporsi al cambiamento non è concepibile e, per capirlo, occorre affidarsi a studi antropologici e sociologici.

Ora, se invece parlassimo delle dinamiche della comunicazione, in politica ci troviamo di fronte a un paradosso: i politici che intendono rappresentare il pensiero “conservatore”, come abbiamo visto negli ultimi decenni, sono i più evoluti utilizzatori delle reti sociali (e della TV) e catturano il “consenso” meglio di qualsiasi altro. Sono i “progressisti” della comunicazione? Evidentemente no, ma sicuramente c’è chi ha capito che oggi il consenso non si ottiene proponendo contenuti, perché basta uno slogan azzeccato.

Contrariamente, buona parte dei così detti “progressisti”, sono quelli che maggiormente tentano di impegnarsi nel dibattito, nei circoli, nei congressi… strutture comunicative arcaiche che, nella loro straordinaria democraticità, ben poco catturano l’attenzione dell’elettore indeciso e che, pur essendo la rappresentazione più viva del dibattito, fanno pensare all’aspetto “conservatore” di questa parte.

Pochi anni fa, un tentativo di stravolgimento del sistema è stato fatto da un movimento che ha tentato di ribaltare i paradigmi dell’agone politico. Tutto è partito da un blog. Il messaggio è stato forte e chiaro: la comunicazione è la chiave del successo; eppure si direbbe che i segnali non siano stati colti. Certo, le dinamiche della politica non si risolvono con una chat, ma a chi ha provato a farlo va riconosciuto il merito del coraggio.

A distanza di anni ancora possiamo dire che, dal punto di vista della comunicazione (qui non parlo di contenuti), l’ala “conservatrice” usa al meglio le sue dinamiche, l’ala che si professa “progressista” appare conservatrice, e l’ala “movimentista”, portatrice di rinnovamento, non ha fatto scuola. Questo perché le dinamiche della comunicazione spesso sfuggono e, data l’evoluzione dei sistemi di divulgazione, rispondono più a logiche consumistiche che informative.

Ora, un piccolo commento: un’idea ha bisogno di essere confermata da notizie e da fatti, ma se le notizie e i fatti dimostrano che l’idea non risponde alle dinamiche delle nostre società, che rispondono all’esigenza di evolvere, per difendere l’idea si può far ricorso alla “censura”. Questa, però, oggi non ha bisogno di comitati scientifici che mettono stracci sulle nudità, oggi è assai facile da attuare, tanto gli slogan funzionano sempre e bastano due titoli in grassetto, non importa la fonte o la veridicità, condivisi a catena su tutte le reti sociali per “convincere” che la ragione sta da una parte. Questo equivale a “censurare” un pensiero articolato che potrebbe ricontestualizzare, se non contraddire, il testo di quel titolo. Non c’è niente di più veritiero di uno slogan falso, se questo è ben comunicato.

Ecco che il pensiero “progressista” potrebbe diventare illuminante: conservare implica porre dei limiti ai cambiamenti, progredire significa vivere questi cambiamenti, significa studiarli e tentare di prevederne l’evoluzione per anticipare, con politiche visionarie, la collocazione della società nel mondo del futuro. Insomma, essere progressista significa guidare verso il futuro, essere conservatore significa controllare il mezzo che si guida.

Ma tra guidare e controllare c’è una grande differenza. In questo, la missione della comunicazione non deve mai essere dimenticata (cito di nuovo la Treccani): “rendere partecipe qualcuno di un contenuto mentale o spirituale, di uno stato d’animo, in un rapporto spesso privilegiato e interattivo”, cioè condivisione di contenuti. Se questa si basa sul riconoscimento delle dinamiche che rendono la società viva e libera di evolvere, non saremo ridotti a un pezzo di nastro adesivo col quale si attacca la banana al muro.

Claudio Fiorentini

Lascia un commento