La rassicurazione del “consolidato” e la paura del “cambiamento”

Tempo addietro, parlando di un libro, è venuto fuori che il testo piaceva perché i lettori si ritrovavano in parte della storia raccontata, cioè in quello che essi stessi avevano vissuto. Se il libro avesse raccontato storie nuove, se avesse dato nuove idee generando pensieri, probabilmente sarebbe piaciuto meno.

Alcuni anni fa un agente letterario mi disse che un libro, magari un poliziesco, lo avrebbe potuto promuovere facilmente se vicino alla realtà. Ancora anni prima, ricordo che un lettore criticò un libro che avevo proposto perché poco credibile. Qualcosa di simile succede in poesia, quando si propongono versi che toccano temi noti, molti lettori saranno contenti perché diranno “anch’io lo penso”; se invece la poesia compie la sua missione non sarà difficile trovare commenti del genere “questo non si capisce”.

Questo succede tra i lettori occasionali e tra i lettori medi. Certo, se parliamo di lettori forti, probabilmente la reazione sarà diversa, ma l’esempio che sto usando per iniziare il mio ragionamento serve per capire se il pensiero nuovo nasce da chi va oltre il “consolidato”, oppure se è rappresentato dalle conferme che troviamo in ciò che leggiamo, ascoltiamo, vediamo e capiamo, di solito proposto e promosso dal potere della propaganda o dai “mass media”, giustamente identificati come mezzi di comunicazione di massa.

Ecco la chiave: “di massa”. La letteratura, ma questo vale per qualsiasi tipo di arte, ha un valore straordinario quando non è “di massa”, cioè quando si avventura in terreni inesplorati. I lettori preferiscono il già esplorato? Non sarà certo per questo che lo scrittore si deve adeguare a ciò che vuole il lettore perché, se così facesse, non esisterebbe il “nuovo”. In altre parole non si paventerebbe alcuna possibilità di cambiamento.

Gli artisti sono un vivaio di idee e di pensiero e il loro valore risiede proprio nella capacità di uscire dal seminato, proponendo qualcosa di nuovo, dando vita alla macchina del “non era stato fatto prima”, che poi corrisponde al non ripetere la storia, ma a sfidarla. Se Cervantes avesse accettato la sua storia così com’era non avrebbe scritto il Don Chisciotte (tra l’altro in prigione, a lume di candela e con un braccio fuori uso).

Perché lo ha fatto? Non lo so, ma è da lì che è nato il romanzo moderno, con personaggi e caratteri che andavano molto aldilà del consolidato. Un altro esempio è Goya: non avrebbe mai fatto le sue “pinturas negras” se avesse accettato di conformarsi ai canoni dell’epoca. Anche Beethoven, già citato nei miei articoli, invece di proporci le sue monumentali meraviglie avrebbe probabilmente seguito i canoni di Haydn.

L’arte è disubbidienza, esplorazione, ricerca, novità… l’arte ha un ruolo fondamentale nella nostra società perché propone percorsi inesplorati e riesce nella sua missione nel momento in cui non ripete l’esistente, ma rappresenta una sfida al “consolidato” e accenna un nuovo percorso.

Il pubblico, però, questo è un dato di fatto, in genere cerca rassicurazioni perché teme il nuovo, il cambiamento fa paura e la ricerca dell’identificazione è preferita allo “stupore”.

Lo stupore genera dubbio, curiosità e voglia di andare oltre. Potremmo dire che l’artista è un intellettuale del “non pensato”? Forse. Di fatto l’artista ha, nelle nostre società, un ruolo fondamentale perché proprio dalle sue esplorazioni può sorgere il pensiero di domani e, proprio per questo, è, spesso, condannato a una forma di clandestinità perché il suo lavoro nasce dal non essere parte del “consolidato”, nasce dal cercare un cammino espressivo in grado di parlare di “altro” e, spesso, dell’imponderabile: una cosa è seguire il pensiero delle “masse”, altra cosa è sfidare le dinamiche del pensiero per cercare “altro”. L’arte propone ciò che ancora non esiste, se non lo facesse sarebbe artigianato.

Ora, però, esiste il pubblico, esistono le “masse” che influenzate, appunto, dai “mass media”, non si riconoscono nel volo dell’arte e preferiscono il “consolidato” al “non ancora pensato”, perché andare “oltre” il “consolidato” implica affrontare un cambiamento che non sempre è comodo. L’arte è, per sua natura, scomoda.

Lo è anche il pensiero, perché implica sfidare ogni ragionamento d’immediata comprensione. Abbiamo già parlato di come i “social media”, cresciuti come una pianta infestante, risolvono il dilemma del pensiero con slogan spesso privi di fondamento. Questo è un problema, perché riducono le capacità di analisi nell’immediata risposta riassunta in “lo penso anch’io”. Identità, è questo ciò che si cerca nelle proposte informative, e anche nelle proposte artistiche.

Qui è opportuno citare Oscar Wilde: Un’opera d’arte è il risultato unico di un unico temperamento. Essa deriva la sua bellezza dal fatto che l’autore è ciò che è, e non ha niente di comune col fatto che gli altri vogliono ciò di cui han bisogno. E veramente, non appena l’artista tiene conto di quello che gli altri chiedono, e cerca di soddisfare la domanda, egli cessa di essere un artista e diventa uno sciocco o un divertente artigiano, un onesto o disonesto negoziante … Il pubblico è stato sempre e in ogni tempo educato male. Ha sempre domandato all’Arte di essere popolare, di compiacere la povertà del suo gusto, di lusingare la sua assurda vanità, di ripetergli ciò che già sapeva, di mostrargli ancora ciò che dovrebbe essere stanco di vedere, di divertirlo con ciò che è pesante fino all’indigestione, di distrarre il suo pensiero quando è affaticato dalla propria stupidità. Ma l’Arte non può mai cercare di essere popolare. È il pubblico che deve cercare di diventare artistico.

Un ruolo fondamentale per mediare tra queste differenze lo svolgono gli intellettuali: loro sono il collegamento tra il “nuovo” e il “consolidato”; loro sono gli analisti del pensiero, gli studiosi delle dinamiche della società e i ricercatori della ragione. Non esiste ragione nella massificazione del pensiero operata prima dai mass media e poi dai social media; o, se esiste una ragione, essa va capita e, forse, contrastata con una ragione più grande, che è quella del “pensiero”.

Tuttavia, spesso i “media” si traducono in propaganda da paccottiglia e gli intellettuali non riescono a sfidarla. L’arroganza, ormai caratteristica del pensiero delle “masse”, porta a dire, a volte anche con buone ragioni, “quello è al soldo di…”, per cui anche l’intellettuale è condannato a vivere nel suo eremo, discutendo nei talk show come se fosse un animale da circo. Perché è solo nel circo del “media” che si manifesta il protagonismo dell’individuo, oggi spacciato per “pensiero”.

Ma i media sono “mass”, cioè non sono educazione e studio, quella è roba da gente che ha voglia di lavorare. I “mass” sono pensiero immediato, mentre il “pensiero” dovrebbe essere ben altro.

Andando avanti in questo ragionamento, vediamo come anche la classe politica, che dovrebbe essere illuminata, riduce la sua azione alla ricerca del consenso, cosa che si può ottenere solo proponendo il “consolidato”, senza mai dare spazio a proposte realmente nuove che, invece, condannerebbero al fallimento. Nella politica si cerca una risposta identitaria e non una proposta innovativa. Questo è un problema.

La ricerca d’identità, il dire “lo penso anch’io”, non aiuta a tracciare un cammino verso il futuro, cosa di cui la politica si dovrebbe occupare, cioè del futuro.

Ma il futuro cos’è se non cambiamento? Il cambiamento va capito, va descritto e va proposto. Non solo: il cambiamento implica che si tracci un percorso affinché si possa arrivare al futuro con la testa alta. La classe politica dovrebbe studiare il futuro (grande sfida perché il futuro ancora non esiste) e spiegarlo. La classe politica dovrebbe essere un po’ artistica. Allo stesso tempo dovrebbe dire come si deve arrivare a questo futuro, e lo deve fare con programmi e piani d’azione, non con proclami e con slogan. Ahimè, questo, la classe politica italiana (e non solo), se non in rari casi, non è capace di farlo.

E in tutto questo, le masse? Qui vale una citazione di Blaise Pascal: Siamo talmente presuntuosi che vorremmo essere conosciuti da tutta la terra e persino dalle genti che verranno quando non ci saremo più; e siamo talmente vanitosi, che la stima di cinque o sei persone che ci stanno attorno ci diletta e ci appaga … La vanità è così radicata nel cuore dell’uomo che un soldato, un cuoco, un facchino, si vanta e vuole avere i propri ammiratori; e gli stessi filosofi ne vogliono; e coloro che scrivono contro la vanagloria vogliono avere il vanto di aver scritto bene; e quelli che li leggono il vanto di averli letti; ed io che scrivo questo, ho forse lo stesso desiderio; e forse anche quelli che mi leggeranno.

In qualche modo, questa citazione di Blaise Pascal, sebbene vecchia di circa quattrocento anni, può applicarsi alla perfezione alla dinamica delle reti sociali.

Quindi, non c’è salvezza?

No, secondo me c’è salvezza. Ho scritto prima, in questo mio articolo: “gli artisti sono un vivaio di pensiero”. Quindi chi dice “la bellezza salverà il mondo” non è del tutto fuori dalla realtà, sebbene l’arte, nel momento in cui si propone, a volte viene respinta perché, come detto, il fruitore cerca conforto nel “consolidato”. Per questo dobbiamo ricordare che gli artisti, quelli che hanno in qualche modo inciso sulla nostra storia, spesso sono stati dei clandestini e le “masse” non li hanno minimamente considerati. Salvo poi diventare, le opere di questi artisti, un monumento del nostro pensiero. E noi dovremmo affidarci un po’ di più alle dinamiche dell’arte. Quella vera.

Claudio Fiorentini