Terramatta

Una pagina del libro Terramatta di Giovanni Rabito.
Una pagina del libro Terramatta di Giovanni Rabito.

Chi ha più lauree e chi è analfabeta, non solo hanno pari diritti, ma possono in egual modo avere idee. Le idee, infatti, non sono classiste. Alcuni decenni fa non era così, e le masse analfabete avevano ben pochi diritti. Quanto il mondo sia cambiato in una manciata di secoli lo dimostra il fatto che oggi abbiamo accesso all’educazione e abbiamo una sanità pubblica che, pur con i loro difetti, garantiscono opportunità simili a tutti i cittadini.

Quindi, oggi, le “idee”, godono di pari opportunità. Ed anche il talento, che prima era poco ascoltato, oggi può essere coltivato. Ma c’è un problema: in altri articoli ho parlato dell’arroganza che si è palesata negli ultimi anni, stigmatizzando l’allontanamento dal socratico “so di non sapere”. Aver seppellito Socrate è un evidente danno all’intelligenza collettiva.

Ciascuno di noi ha un “talento” da coltivare e, se lo accompagna dalla voglia di leggere, di informarsi e di studiare, questo a prescindere dai titoli, può portare molto valore alla comunità, e può proporre nuove “idee”. Lo studio, che sia accademico o da autodidatta, consente di avere gli strumenti necessari per articolare il pensiero e per argomentare la propria visione del tema trattato, ma da solo non basta, occorre talento.

Il talento porta al superamento delle proprie barriere e dei propri limiti, spinge a realizzare un lavoro titanico che implica riscoprire lo “stupore” dell’infanzia. E che bello è stupirsi. Un esempio monumentale di superamento di limiti e barriere si trova in Terramatta, di Giovanni Rabito, un bracciante semianalfabeta che, in età già avanzata, ha imparato a scrivere su una vecchia Olivetti mezza rotta, regalatagli dai suoi figli, lasciandoci quasi mille pagine dattiloscritte.

Si tratta di un’opera di difficilissima lettura, ma è anche un impetuoso fiume di valori umani, di esperienze e di idee che ci fanno scoprire l’animo di chi si è spaccato la schiena per costruire strade e case, le stesse che usiamo quotidianamente senza pensare a chi le ha fatte per noi.

Nel racconto di Rabito, oltre a leggere il novecento dal punto di vista di chi l’ha sofferto in prima persona, si leggono la forza di volontà, l’umiltà, l’ingenuità, la purezza e la consapevolezza del ruolo dell’essere umano nella storia. La vita dello scrittore è ben poco, se non nulla, nell’infinità di vite umane sue contemporanee, ma è pur sempre un tassello nel mosaico della storia perché, non dimentichiamolo, se la storia è stata scritta da gente colta e raffinata, è stata fatta da gente comune con le mani callose e il cappello di carta. Gente come Rabito.

Questa gente ci ha lasciato non solo il presente come lo viviamo, ma anche la forza di volontà sul quale si regge.

Giovanni Rabito, oltre alla storia che rappresenta e che racconta, aveva qualcosa dentro, forse una smisurata sete di vita con cui ha sfidato l’ignoranza e la povertà e che gli ha permesso, inconsapevole di realizzare un suo sogno, di plasmare sulla carta un pezzo di storia portando al pubblico (lui non lo avrebbe mai immaginato, ma il suo libro è stato pubblicato da Einaudi) la visione degli insignificanti e il peso dei valori umani che si sono caricati in spalla trasmettendoci, nell’involucro di uno sguardo ingenuo che è lo stesso con cui tutti i nostri antepassati hanno affrontato la vita, un esempio di modestia e rettitudine che tutti dovremmo avere come modello. Lo ha fatto perché ha saputo coltivare il suo talento: una tempesta incontenibile che gli scoppiava dentro.

Dal libro Costanza Quatriglio ha fatto un film di scarso successo, ma di grande valore artistico e narrativo. Il film si chiude con una frase di Rabito;

“Che belle ebiche che sono queste per i mei feglie!
Che bella ebica hanno capitato tutta questa cioventù.”

“ebiche” sta per “epoche”

Questa citazione sembra un monito per ricordarci da dove veniamo. Ma cosa abbiamo fatto delle nostre origini? In alcuni articoli pubblicati su questa rubrica, ho stigmatizzato il pensiero arrogante che inquina la rete, ormai diventata la principale fonte d’informazione. A questa nostra pretesa di sapere si contrappone con ferocia l’eredità di è venuto prima di noi. Eredità che non va tradita e che ci ricorda le nostre origini ignoranti e dolorose.

E quindi ricordo mia madre, che visse la sua infanzia nei rifugi mentre cadevano le bombe su Napoli; mio padre che, ancora adolescente, partì con la valigia di cartone per andare a fare l’operaio in un’acciaieria della periferia di Parigi. Come vissero la loro infanzia e la loro adolescenza è un segreto che si sono portati nella tomba, ma se loro hanno vissuto sofferenza e privazioni, hanno anche fatto di tutto per spianarmi la strada e se oggi mi curo i denti, indosso maglie di lana pregiata, vado al cinema e al teatro, ho girato il mondo e, a mia volta, ho figlie a cui tento di dare il meglio della vita spianando per loro un’autostrada, lo devo a chi c’era prima.

In un intervento in rete, la scrittrice Giovanna Mulas citava una frase di suo padre che diceva più o meno così: “Non dimenticare mai da dove vieni, non chi sei, ma da dove vieni”. E noi, quasi tutti, veniamo da gente come Giovanni Rabito, che ha conosciuto la fame e la disperazione e che, con ingrato lavoro e monumentale forza di volontà, ha fatto studiare i figli e ha trasformato il mondo (e l’Italia), e l’insegnamento dei nostri nonni e dei nostri genitori è il seme della stessa cultura che oggi calpestiamo senza avvedercene.

Ma veniamo all’incipit di questa riflessione: le idee possono averle tutti, titolati o meno; questo è il sunto dell’eredità che ci hanno lasciato: possiamo studiare e possiamo curare il corpo e la salute, abbiamo tutti accesso all’educazione e alla sanità perché sono pubbliche e non sono riservate a pochi fortunati. Se oggi abbiamo sogni nel cassetto che possiamo coltivare e realizzare, la dobbiamo a gente che non aveva tempo per pensare ai sogni nel cassetto. Questo è il cambiamento epocale che abbiamo vissuto negli ultimi cento, e poco più, anni, ed è, semplicemente, titanico.

La nostra riconoscenza per chi lo ha realizzato, però, è minima. Lo dimostra il fatto che abbiamo perso la capacità di immedesimarci nella vita di chi si trova nella stessa situazione dei nostri predecessori. È da lì che nasce il razzismo dei giorni d’oggi, per cui, se un nero africano approda sulle nostre coste, invece di pensare a quanto ha penato (o hanno penato i suoi genitori) per fuggire da una situazione disperata, affrontando anni di migrazione, diciamo semplicemente “se ne stessero a casa loro a risolvere i problemi”. E lo diciamo da “titolati” saccenti (mentre magari un “disgraziato” spezza la pagnotta con un altro “disgraziato”).

“Ricorda sempre da dove vieni, non chi sei, ma da dove vieni” (ringrazio Giovanna Mulas per questa citazione).

Ammettiamolo: viviamo in una condizione che dà accesso a maggiori opportunità. E non dimentichiamo che, se queste opportunità prima non c’erano, c’è stato qualcuno che, fedele ai suoi valori, ha costruito la strada che percorriamo. E se i valori non sono stati traditi da chi ha fatto la storia, non devono essere traditi da noi.

Claudio Fiorentini