Credo che sia capitato a tutti di incontrare l’amico, l’amica, il collega o la collega che, di ritorno da un viaggio, racconta le sue impressioni. Spesso queste impressioni diventano giudizi su quanto visto, a volte diventano anche giudizi definitivi, specie se, magari, vengono sostenuti da quanto si dice da anni. Quanto si dice da anni… ecco il punto. Quanto che? Dice chi? Ah: si dice in giro. Bene così, rafforziamo le nostre povere impressioni solo perché confermato da quanto “si dice in giro”.
Ma veniamo al punto: che tipo di viaggio ha fatto il viaggiatore o la viaggiatrice? Era solo/sola? In compagnia di chi viaggiava? La maggior parte dei viaggi vengono fatti in compagnia, che sia della famiglia o di qualche amico/a, raramente sono immersioni totali (ma anche minimamente parziali) nella realtà che si visita. Certo, si collezionano foto di monumenti, di curiosità, di paesaggi, di tavole imbandite, di volti imbellettati e di animali strani, ma in realtà il viaggiatore passa il suo tempo a commentare con i suoi compagni di viaggio nella propria lingua, magari lamentandosi della qualità mediocre del caffè o dicendo quanto è bello quel vestito che, però lei/lui non metterebbe mai.
Ad essere realisti, però, supponendo che il viaggio duri un paio di settimane, tra albergo, ristoranti, piscina, trasporti e visite a luoghi esotici, il protagonista del nostro racconto passerà la maggior parte del suo tempo a vivere nella condizione più privilegiata che esiste, cioè, quella di essere servito e riverito.
Il contatto con la gente del posto sarà limitato a chi serve e riverisce, che siano guide, autisti, camerieri, bagnini, massaggiatori, intrattenitori, venditori di ciarpame per turisti, addestratori di tigri o roba simile, si tratta di gente con cui si può avere un rapporto molto limitato. A questo limitato rapporto è relegato il metro di giudizio.
In un viaggio sarebbe interessante calcolare il tempo che viene realmente utilizzato per dialogare con “l’altro” e il tempo che invece viene sprecato a sentenziare su come si veste o come si comporta “la gente” che si vede in giro: trenta secondi per il buongiorno all’autista, cinque minuti per il ricevimento, ogni pasto due minuti circa per fare l’ordinazione e poi chiedere il conto, venti secondi per mettersi d’accordo sul massaggio che si vuole, mezz’ora sulla groppa di un elefante a sentire le poche cose che può dire la guida… insomma, un grande bagaglio di dialoghi e di scambi d’opinione con la gente del posto, non vi pare? E poi la sera in albergo a “postare” foto in rete e scambiare qualche “ciao” in “chat”, naturalmente senza aver imparato neanche a dire buongiorno nella lingua che si parla là dove ci si trova.
Beh, insomma, se ad essere serviti e riveriti ci si diverte e si vive un autentico momento di riposo, non si può dire che si acquisiscano molte conoscenze sulla cultura del posto che si visita, ma questo sì, bastano pochi sorrisi per dire “sono molto ospitali” e basta un gesto di stanchezza per dire “questi sono musoni e maleducati”. In due settimane di viaggio è già tanto se si parla mezz’ora con la gente del posto, e quella mezz’ora basta per decidere se un popolo è antipatico, ospitale, simpatico, razzista, maleducato o altezzoso.
È così che si ritorna dal viaggio con l’idea chiara e precisa di ciò che è stato visto e, se le voci che girano sono le stesse, ecco che si rafforza il luogo comune che non è descritto su enciclopedie o su libri di geografia, ma che è scritto nell’aria.
Bene, ora vediamo la reazione a chi, invece, subisce questo trattamento da parte del viaggiatore. Chi deve “servire e riverire” spesso è pagato per farlo, e a volte si aspetta anche di ricevere una mancia. Cos’ha nell’anima non è possibile saperlo, ma di sicuro è una persona che fa il proprio lavoro. La sua missione è far sì che l’ospite sia contento.
Insomma, è il sorriso di un’industria, quella del turismo, che, pur se a volte è sincero, è sempre simbolo di privilegi pagati con soldoni. Ma non dimentichiamo che anche l’elargitore di sorrisi alimenterà i luoghi comuni del posto, forse lo farà basandosi su una certa esperienza, e magari dirà “questi italiani (o francesi, o tedeschi…) si fanno riconoscere subito”.
Bene, questo è la visione della superficie ma diciamo la verità: oltre la superficie esiste il mondo. E infatti tutto cambia quando il viaggiatore si espone a quello che vede, si immerge nella realtà locale e si mimetizza per non farsi notare. Non è facile, ci vuole allenamento e coraggio. È anche ovvio che ci si mimetizza meglio tra chi è simile, questo non solo nell’aspetto fisico, ma anche nel modo di parlare e di muoversi. Per mimetizzarsi la prima regola è il silenzio.
Ma andiamo avanti. Il viaggiatore che si espone è sempre all’ascolto. Quante cose si scoprono quando si ascoltano voci e rumori, odori, atmosfere, tonalità, sonorità. Il viaggiatore è anche aperto alle sorprese: sa stupirsi, si lascia guidare dall’intuito, si perde nelle strade, a volte rischia, magari si avventura a camminare nelle borgate, sente sulla sua pelle il brivido scomodo del disagio e, a volte, della paura… Torna in albergo con idee e sensazioni, grato di aver vissuto almeno un briciolo di mondo.
Sa anche di non aver imparato granché, ma almeno è consapevole di questo limite e sospende il giudizio, non si lascia abbindolare dal luogo comune ma, soprattutto, non si unisce al coro sguaiato di chi esprime giudizi su un intero popolo dopo aver parlato col venditore di tappeti o con il barista che “shakera” il cocktail cantando canzoni di moda.
In questo mio ragionamento ho volutamente usato il viaggio per esemplificare, in modo abbastanza evidente, alcuni atteggiamenti che ci portano a dar vita ai luoghi comuni. Certo, non è solo nel viaggio che questi prendono vita, vi sono migliaia di altri modi, ma per riassumere: il luogo comune nasce quando non c’è incontro, ma confronto. Mi spiego: se nei contatti umani si usa sempre un termine di paragone dove il riferimento è solo nostro, anzi, siamo noi, gli altri sono altri e vengono frettolosamente giudicati col nostro metro.
Facile giudicare se abbiamo a disposizione il gran calderone dei luoghi comuni, una volta classificate persone e popolazioni, usando questo metodo semplificatore, resta solamente da certificare con la nostra ridicola esperienza che è così, e basta. Non si va neanche a cercare un po’ più in là, a grattare sulla superficie per vedere cosa c’è dietro.
Ah, ma questo sì, pretendiamo che l’altro non ci giudichi con lo stesso metro: lui deve scavare perché noi, nel luogo comune dove ci classificheranno, non vogliamo entrare neanche per sogno.
Infine, forse è il caso di ricordare che il vero “Luogo Comune” esiste, è uno solo, e si chiama Terra.
Era il 12 aprile del 1961 quando Gagarin, dallo spazio, disse “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”. E aggiungo: senza luoghi comuni.
Claudio Fiorentini