Joshua e la specie protetta

Al turista, incantato dalle loro danze, non è dato vedere il dramma di un popolo che non può più cacciare perché le loro prede sono specie protette, e che non può più coltivare la terra perché ormai è parte di un parco naturale e non gli appartiene più. Al turista viene dato in pasto il colore dei loro abiti, il sorriso delle guide, il mercatino, la trattativa commerciale incisa sulla pelle e le danze alle quali viene invitato a partecipare. Il turista troverà la cosa molto divertente e la tradurrà, nel suo libro dei ricordi, in frasi del tipo “come sono gentili” e “che carini sono i bambini”. 

Ma la realtà di questo spettacolo è ben più crudele: le danze rituali perdono la loro sacralità e diventano souvenirs e mercatini, mentre il turista, contento delle nuove fotografie, tornerà a casa con una collezione di immagini da condividere con gli amici. Lui, la guida che a diciassette anni ha messo nel cassetto il suo sogno di diventare dottore ed è tornato nel suo villaggio tra la sua gente, continuerà a fare la guida fino alla fine dei suoi giorni, oppure fino a quando lo consentiranno le autorità che, visto il mercato che si è creato intorno a questo circo, non tarderanno molto per impossessarsene. 

Però c’è una speranza: non tutto il popolo Masai si è uniformato, una parte resiste, è guerriera e non gradisce la perdita della loro fierezza, o semplicemente l’esproprio della loro terra. Terra che, più che all’agricoltura, spesso è destinata alle intrusioni di schiere di turisti a cui l’indigeno si oppone lanciando un sasso, minacciando con la lancia e cantando chissà quale inno segreto e silenzioso. Certo, i cattivi sono loro, che male fa il turista, con cappello di stoffa e macchina fotografica? Non scende neanche dal fuoristrada perché è pericoloso calpestare quel suolo, se la gode in mezzo a quelle terre che una volta erano fonte di nutrimento e oggi sono territorio ultraprotetto, riserve naturali che mascherano una nuova forma di devastazione. Il Safari fotografico, diamine, è una risorsa per l’economia del paese, quel poveraccio armato di lancia e bastone conta ben poco vicino all’invasione del turista che, invece, è nutrimento del PIL di governi avidi e corrotti e non dei legittimi proprietari di quella terra, costretti all’autogestione.

In modo analogo i nativi americani furono prima sterminati e i pochi superstiti furono poi confinati in riserve, mentre le loro tradizioni, le loro superstizioni e le loro credenze, ridotte a intrattenimento per i turisti, sono diventate, più recentemente, stuzzichini per spiritualismo new age.

Già, la verità è ben diversa da quello che si racconta: la vera specie protetta è proprio il turista e questo nonostante sia tra le specie più aggressive. 

Protetta perché viaggia in aereo o in automobile, sempre di scatole metalliche si tratta, e dorme in “resort” quasi sempre di lusso, sempre scatole, anche se di terra e cemento. E indumenti sdatti al viaggio, protezioni solari, spray antizanzare… scatole, appunto, protezioni costruite apposta per lui, perché è sulle sue ambizioni, quelle di mettere i puntini sul mappamondo segnalando i posti dove è stato o quelle di condividere le foto in rete e con gli amici, che si basa il commercio di cui è protagonista. 

L’industria del turismo è la saga dell’ipocrisia perché definisce come deve essere l’aereo, il fuoristrada, il treno, la stazione, il “lodge”, la sala d’attesa, il buffet, il vestito e… il divertimento… il turismo definisce la roulotte in cui il turista si muove, deve avere tutti comfort possibili e immaginabili, deve essere protetto e coccolato, si deve godere delle bellezze del posto amplificando i piaceri… questo è il senso della sua spesa. 

Al turista non importa se i soldi che spende finiscono nelle tasche di individui corrotti che si arricchiscono facendo della povertà altrui uno spettacolo, al turista importa il divertimento e per il turista vedere un elefante, protetto dalla barriera del “resort” o dalle pareti del fuoristrada, è il colmo del divertimento. 

Le persone che hanno perso tutto, e per tutto intendo anche la sacralità delle loro danze, rappresentano un danno collaterale che, se ben gestito, diventa parte del divertimento. Non importa se queste persone sono vittime di una spietata macchinazione o, se preferite, di un complotto ordito dalla macchina dei consumi ai danni del più debole. O più semplicemente, vittime del progresso che spiana la strada alle classi dominanti. Inevitabile che succeda, la civiltà fagocita usi e costumi, mentre il progresso convoglia le energie intellettuali e fisiche verso uno scopo comune, di solito identificato con il profitto. E civiltà e progresso sono sempre nelle mani di chi ha il potere. 

Poi il turista “illuminato”, comunque tornerà a casa e, invece di fare un esame di coscienza, si metterà a cianciare sui problemi del mondo, convinto di essere vittima di un complotto, perché l’auto elettrica, il covid, la raccolta differenziata e tutte queste menate sono invenzioni del “potere” che gli tolgono “potere”. A lui, che ha appena elargito mance qui e là per il proprio intrattenimento, lui non è “potere”, lui è “vittima” delle angherie delle “lobby”. Nessuna novità, è sempre stato così.

Morale della favola: il turista è esperto di tutto, capisce alla perfezione anche il sorriso del bambino a cui ha regalato una penna e un quaderno, sanando la sua colpa di essere “turista” con quattro soldi e un gesto che comunque (per quanto sia poco) lo onora. O, peggio ancora, sanando la sua colpa scrivendo articoli come questo, per sentirsi ipocritamente ribelle grazie a quattro parole e due pensieri messi in croce.

La realtà è che il Masai che ha smesso di studiare, vuoi perché non ha alternative vuoi per salvare il salvabile, sa che rimarrà lì finché il “progresso” glielo concederà e il turista, che non ha avuto difficoltà a dirgli “ce la puoi fare” o “continua a studiare”, pur se animato dalle migliori intenzioni, davanti a sé ha avuto solo un oggetto colorato che diverte e rimane nell’album dei ricordi e che gli fa dire “come sono gentili lì” e “che carini sono i bambini”. 

Claudio Fiorentini

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