Il 9 settembre Mario Draghi ha presentato il rapporto sulla competitività in Europa e, citando testualmente le sue parole, non sarebbe un messaggio per l’Unione riassumibile in un “Do this or die”, ma in un “Do this or agonize”.
Si capisce che per lavorare su questi temi, Mario Draghi non poteva essere eletto a capo della Comunità Europea, ma ne è divenuto a tutti gli effetti un regista e, lavorando dietro le quinte, fa analisi strategiche e propone piani di sviluppo visionari e a lungo termine di grande valore per il futuro di noi tutti. Questo “report” non può essere ignorato anche perché si direbbe che non è mai stato fatto nulla di meglio.
La scena politica comunitaria, per quanto spesso protagonizzata da conservatori nazionalisti, è ben consapevole che, davanti a certe realtà, scudarsi dietro i soliti lemmi privi di visione, equivale a darsi la zappa sui piedi. Se non sui propri piedi, sicuramente sui piedi del proprio Paese. L’Europa che si delinea in questo studio fa debito, identifica le aree strategiche in cui può essere determinante, investe, è protagonista dei mercati e ha uno sguardo aperto al futuro. Cosa vorremmo di diverso?
Ha fatto bene Draghi a mantenere un ruolo da regista, in questo modo non è un protagonista che riempie le prime pagine di tutti i quotidiani e non si occupa di politica, è un mentore super partes, redige piani strategici e non programmi di governo, definisce le linee guida e le raccomandazioni utili a non ridurre l’Europa a un’accozzaglia di Paesi litigiosi e nazionalisti, indicazioni su quale toro prendere per le corna per garantire un futuro all’insegna dei valori democratici, per quel che può significare questa parola, che sono pur sempre un faro per noi e per i nostri figli.
Draghi e altri come lui sono pilastri della nostra Comunità e ci regalano una continuità di visione. L’Europa ha evidentemente bisogno di riforme, ed è giusto che si faccia un “audit” per definire quali possono essere le più urgenti senza ricorrere a proclami populisti corredati di foto del tappo che rimane attaccato alle bottiglie.
Le male lingue parleranno a sproposito di questo “report”, ma c’è da chiedersi se qualcun altro ha lavorato con lo stesso livello di professionalità, identificando limiti, nodi burocratici, rischi e priorità, e avendo sempre davanti l’idea del futuro e della competitività. Dubito che un tale lavoro abbia qualche reale precedente o qualche valido studio di pari valore che possa dirsi alternativo se non antagonista.
A tutti quelli che si diranno contrari allo studio, che saranno pronti ad obiettare, che ne confuteranno le conclusioni, chiederei innanzi tutto di leggere il “report”, che è disponibile sui siti istituzionali, e poi di trovare argomenti validi per dire se e perché non va bene. Di sicuro in Italia avremo molti esperti che al bar o in rete diranno di tutto pur di mostrare la propria competenza in pianificazione strategica, così come l’hanno dimostrata in virologia con la pandemia o in androginia per recenti vicende di pugilato femminile, ma alla fine anche questo fa parte del dibattito politico e si può interpretare come un invito a informarsi a dovere prima di parlare.
Il “report” ora è stato dato ai commissari che lo studieranno e che dovranno riportarne i contenuti ai governi che rappresentano, e francamente non credo che le politiche locali saranno un freno perché lo capiscono anche i trogloditi che, oltre a presentare una situazione di “Do this or agonize”, parla di investimenti, di soldi, di lavoro e di orientamento strategico, cosa che non dobbiamo mai perdere di vista. Quindi, speriamo in bene.
Tuttavia, qualche osservazione la devo fare anch’io. Non sul “report”, che per il poco che ho letto mi è sembrato illuminante, semmai su qualche stranezza che ho visto in conferenza stampa. I giornalisti si rivolgevano a Draghi in perfetto inglese, anzi, quasi tutti con accento britannico, questo nonostante la Brexit. Solo i giornalisti italiani si sono rivolti a Draghi in italiano. Di questo atteggiamento, secondo me provinciale, un po’ mi sono vergognato. Speriamo che il Governo non si distingua per lo stesso provincialismo (non per la lingua, ma per lo studio dei contenuti), perché ne va del futuro dell’Italia.
Claudio Fiorentini