Arte nella “memecrazia”


In un saggio sulla poesia contemporanea ho trovato un termine che merita di essere segnalato: “memecrazia”. E già, oltre allo slogan e al post sbrindellato sulle reti sociali, al nostro quieto vivere si è aggiunta l’efficacia del “meme”, la cui definizione potrebbe essere “elemento di un sistema che viene trasmesso da un individuo all’altro per imitazione”, ma che potrebbe definirsi ancora meglio come riassunto preconfezionato del pensiero, icona che coglie la voce popolare e la rappresenta impedendogli di rappresentarsi da sola. Cioè, siamo passati dal disimpegnato “like” al più ingombrante “meme”. È bastato un attimo affinché ciò avvenisse ed ecco che il “meme”, come un intruso impiccione, è entrato a far parte della nostra comunicazione impacchettando e infiocchettando la realtà, e prevalendo sulla nostra capacità di fruizione.

Certo, con l’IA ci saranno sviluppi imprevedibili, ma per quanto raffinati, saranno sempre un prodotto preconfezionato, risultato di uno scandaglio dei dati disponibili in rete e alla fine ancora più efficace. Riassunto di, ecco il senso del simbolo, un segno corrispondente a valori particolari o universali che, con l’evoluzione dei sistemi, sicuramente diventa espressione di valori ricavabili dai contenuti dei “data base”, quindi emanazione del Big Data.

Quest’indegna appropriazione della capacità di analisi da parte dei sempre più sofisticati (e invadenti) sistemi informatici sta svilendo la nostra capacità di analisi, si sta impossessando della nostra visione critica, sta diventando un orco affamato di pensiero e non è difficile dedurre che da veicolo pubblicitario, degno compagno degli “influencer”, diventa generatore di propaganda. Non a caso sopra ho scritto “emanazione” del Big Data.

Di questo si è, comunque, già parlato in abbondanza. Ciò di cui si parla poco, e qui entro nel mio campo, è di come questa “memecrazia” stia determinando l’evoluzione delle arti, questo non in termini di linguaggio o tecnica, che pure evolvono di continuo, ma in termini di contenuti, cioè, di idee.

L’arte (qualsiasi arte), come ho già scritto in altri articoli, convive con dubbi e genera idee che ancora non hanno forma. Le idee, poi, generano pensiero. Per arrivare a un risultato degno di nota, l’artista fa uno scandaglio nella sua mente (o nell’anima) esplorando l’inesplorato, pur vivendo nel mondo contemporaneo. L’arte sfida il sistema che domina l’esistenza. Questo, però, è un lavoro assai faticoso, specie se il sistema diventa “memecratico”. Allora, può il “meme” diventare arte a sua volta? Forse, ma se non è portatore di idee c’è ben poco da dibattere. È ormai assodato che la poesia, la musica e tante altre arti (quelle proposte dai media, quelle “memizzabili” o “memizzate”), oggi, non sono più forme di espressione portatrici di contenuti profondi, ma striminziti esercizi di stile (a volte molto discutibili) utili a dinamiche consumistiche, modaiole e, ancora peggio, propagandistiche e quasi dittatoriali. 

Però catturano l’attenzione e il favore del pubblico.

Questo fenomeno ha portato molti artisti (poeti, narratori, cantanti eccetera) a rin-correre il sistema, adeguandosi alle dinamiche della comunicazione che offrono istanti di protagonismo in cui si dice “ci sono anch’io”. Basta vedere come vengono manipolati i giovani aspiranti al successo nei programmi TV (i vari “talent”) si lasciano modellare da registi e produttori affinché la loro sia un’immagine di successo. Immagine, non più arte. E l’immagine è portatrice di messaggi pubblicitari, vuoi per il vestito, per il trucco o per qualsiasi altro orpello che trasforma l’aspirante “artista” in “meme” di se stesso. L’esempio che scaturisce dai “talent” è calzante anche nelle altre arti, anche se si nota meno. 

L’arte deve pre-correre, cioè, deve piantare il seme dell’idea, non deve rin-correre. E poi rin-correre cosa? Beh, il successo.

Pavese diceva “l’arte è lavoro e noia”, e quanta ragione aveva. 

Nella mia attività di “critico” (si fa per dire) ho letto e valutato ben oltre 1.800 opere di narrativa contemporanea e intorno alle 1.000 di poesia, e nella mia attività di gallerista ho esposto oltre mille opere di pittori contemporanei. Tutti artisti emergenti. Non avete idea di quante di queste opere “imitino” l’esistente. Spesso, nelle presentazioni di romanzi (o presunti tali), mi è capitato di sentire, dal pubblico, “questo libro può diventare un film”. Non è un complimento. Infatti, in gran parte dei casi, questi libri sono influenzati dalla droga televisiva dove gli stereotipi viaggiano silenziosi verso la nostra mente, si piazzano lì, e ci danno una visione del mondo falsata e divisiva. Nelle presentazioni di libri di poesia, invece del film, il pubblico parla delle “emozioni”, anche qui entriamo negli stereotipi perché l’emozione è quanto di più effimero e superficiale si possa sentire, ed è fuorviante, allontana dallo scandaglio nel non detto (cosa che invece dovrebbe essere la poesia). Questi stereotipi oggi potrebbero definirsi “meme”, con la differenza che il “meme” è assai efficace e non richiede ragionamenti o descrizioni: è un contenitore preconfezionato in cui non risiede alcun moto di ribellione. Condividi un “meme” e dici: ecco, l’ho fatto, ho detto la mia. Tutto qua. A che serve, allora, l’arte?

L’arte si fa e si vive, evolve, si sviluppa in una dinamica tutta sua che ben poco ha a che vedere con i modelli dominanti nel regno effimero dei falsi miti. Gli artisti contemporanei, intendo quelli che possono veramente definirsi tali, sono dei disubbidienti, sono i “carbonari” del pensiero, sono uniti dalla ricerca del senso profondo della vita. Tutti, a prescindere da che parte del mondo si trovino, cercano il senso del sé, dialogano con l’abisso che si esplora nel silenzio e tramano per un mondo migliore. Ah, questi sognatori incorreggibili, che grande sfida hanno davanti. Ma ne vale la pena? Meglio la società “memecratica”, è più elementare e offre soluzioni. 

L’artista, se vuole esserlo veramente, deve “de-sistemizzarsi”, deve attuare una continua autocritica, deve smetterla di prendere sul serio tutto quello che fa: deve evitare di cadere nel tranello dell’ego o del fascino dell’applauso. Vabbè, ma essere altro dal “sistema” implica che si rischi l’emarginazione, il fallimento, la critica feroce. E chi se ne frega. Senza rischio non c’è arte! 

In conclusione: l’artista deve essere un “carbonaro” dell’idea non perché trami qualcosa, ma perché esiste, nel profondo di ciascuno di noi, l’abisso inesplorato e, se l’artista lo intuisce, deve entrarci. E deve uscirne, altrimenti si perde nella follia. Quindi l’arte non è un “meme”, semmai è uno scavo interiore e, che ci crediate o no, dentro, nel profondo, nel silenzio del nostro silenzio, abbiamo tutti qualcosa che ci accomuna. 

Insomma, l’artista deve cercare l’Archetipo, e farcelo intuire.

Claudio Fiorentini

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