Siete mai stati in Eritrea, in Somalia, in Mauritania, in Mali, in Senegal, in Kenya, nella Repubblica Democratica del Congo, in Etiopia, in Algeria, in Tunisia o in altri paesi africani? Non dico in vacanza a Sharm o a Malindi, protetti da un cordone militare e coccolati da servitù dai tratti, per voi, esotici. Siete mai stati nelle città, nei sobborghi, nelle zone rurali? Avete mai fatto un viaggio rischiando la vostra vita? Avete mai viaggiato per lavoro, per necessità o anche per fare volontariato? Siete mai stati circondati da bambini che chiedono spiccioli o caramelle, o da guerriglieri armati di machete o di Kalashnikov? Avete mai visto in che condizioni vive la gente del posto? No? Bene, allora non sapete cosa significa avere paura.
Ma andiamo per parti.
Tutti sappiamo che il problema dei migranti non è facile da gestire, e chi dice che per fermare il flusso migratorio occorre fermare i trafficanti, per quanto abbia parzialmente ragione, non risolve il problema. Prima di parlare dei trafficanti, che sono senza dubbio parte di organizzazioni criminali da combattere, occorrerebbe chiedere perché esistono questi traffici.
Dei miei numerosi viaggi, racconto di quando, nel 1992, mi trovai in Eritrea, paese che usciva da trent’anni di guerra. Senza entrare nei dettagli di questo mio viaggio, in cui avevo come obiettivo fare corsi di formazione ai tecnici dell’allora nascente operatore telefonico, ricordo le mie passeggiate nella capitale in cui incrociavo storpi, guerriglieri armati, bambini giocherelloni, gente generosa di sorrisi, consapevole di avere appena riconquistato la dignità della vita, e a volte scheletri umani con sopra i corvi in cerca di ristoro.
In una delle mie incurabili escursioni, dovetti fermarmi perché il ponte era stato bombardato. Certo, il fiume era in secca, ma io, che avevo noleggiato l’unica vettura disponibile nel posto, non sapevo come fare per andare avanti. A destra c’era un vecchio camion in panne, carico di gente; a sinistra i campi che iniziavano ad inverdirsi, del resto era primavera.
La lingua era il tigrigno, io non lo parlo, e anche chiedere come fare per uscire da lì era difficile. A un certo punto ho visto avvicinarsi, dai campi, un uomo vestito di bianco. Ci mise un po’ per arrivare, ma veniva proprio da me, perché aveva capito che non sapevo cosa fare. Si è presentato tendendomi la mano e, parlando un ottimo italiano, ha cominciato a raccontarmi la sua vita: aveva due figli in Italia, i campi erano difficili da lavorare e durante la guerra, lì, ci avevano buttato anche il Napalm, ma adesso si stava riprendendo ed era felice.
Aveva occhi azzurri meravigliosi e uno sguardo sereno. Poi mi disse che poco più in là c’era il guado, e da lì avrei potuto ritrovare la strada. Chiedeva anche che accompagnassi una signora che andava in quella direzione. Sono arrivato in Etiopia due ore dopo e ho avuto l’immensa fortuna di visitare Axum, città che anche il Re Salomone volle visitare per rendere omaggio alla regina di Saba.
Per farla breve, in mezzo al deserto del Tigrai, ho incontrato un uomo che parlava la mia lingua e che con una gentilezza che contrastava con l’aridità del posto, prima di indicarmi la strada, mi ha trasmesso la serenità di chi aveva appena riconquistato la pace.
Veniamo ora al punto: era felice perché i suoi figli erano in Italia e stavano bene. La domanda che porrei è: da che situazione sono fuggiti? Lì ci hanno buttato anche il Napalm, aveva detto il vecchio, e allora, in che condizioni era quella terra?
Mettiamocelo bene in testa: i migranti non fanno turismo e non intendono invadere o conquistare. Probabilmente fenomeni come desertificazione, guerre, sfruttamento spietato, depredazione e altre menate, di cui non siamo liberi da responsabilità, sono alla base delle migrazioni che noi definiamo epocali. Eppure l’Homo Sapiens, a differenza del Neanderthal, è sempre stato migrante. Non erano forse dettate dalle necessità le migrazioni che hanno fatto crescere e prosperare la nostra umanità?
Ecco la parola: necessità. Aggiungerei disperazione, fame e… paura!
Per descrivere questi fenomeni in termini accessibili a tutti, tentiamo di immedesimarci nell’individuo che ha due polli, tre capre e un orto affaticato, a un certo punto arriva una multinazionale e gli dice “spostati perché qui c’è petrolio” o il Coltan, o i diamanti… mettiamo anche che alcune organizzazioni poco raccomandabili finanziano dei mercenari che hanno trasformato la sua terra in territorio di guerra perché, comunque, quel Coltan, quel petrolio e quei diamanti servono a noi.
Ora supponiamo che quell’individuo chieda aiuto e che la comunità internazionale non sappia come intervenire o, peggio, come fanno alcuni che se ne lavano le mani, ti dicono “sono problemi vostri, la libertà te la devi conquistare come abbiamo fatto noi”…
Quell’individuo, secondo voi, cosa può fare? Da povero che vivacchiava si troverà ad essere un disperato che non sa dove andare e, dopo aver detto addio all’orto, alle galline e alle capre, avrà solo fame e disperazione e forse scapperà da qualche guerra di cui non sappiamo nulla, o dai colpi di machete del mercenario di turno. E se ancora non gli è successo, scapperà per paura che gli succeda.
Il vecchio diceva “qui ci buttavano il Napalm, ma ora stiamo bene”, per aggiungere che i suoi figli li aveva messi in salvo, rimanendo lui lì, a sperare che la guerra finisse.
Ora pensiamo ai flussi migratori che ci portano ad avere reazioni grottesche, come quel leghista che dice “diamo Lampedusa all’Africa”.
Ecco, inviterei tutti i politici a fare un viaggio senza scorta, senza comodità, senza armi, in un territorio da cui la gente scappa. Poi gli chiederei di fare un esame di coscienza. Insomma, se vogliamo parlare di migrazione andiamo prima a vedere in che condizioni vive la gente che migra, e chiediamoci perché le loro terre sono ridotte così male.
Alla fonte delle migrazioni c’è sempre qualche disastro, andare alla fonte significa tentare di risolverlo. Purtroppo, però, in molti casi il disastro inizia con l’avidità dei depredatori, che poi sono quelli che ci consentono di usare i nostri gingilli elettronici, di riscaldare le nostre case, di usare le nostre automobili o di metterci l’anello col diamante modaiolo.
Risolvere il problema della migrazione con i blocchi navali o con la caccia (per quanto giusta) ai trafficanti serve a poco: la migrazione nasce per necessità, non per svago, e solo limitando il danno che si fa in quei territori si riduce il fenomeno.
In conclusione, per vedere il male assoluto non andate solo ad Aushwitz, dove potete farvi i selfie e passeggiare in sicurezza, andate anche in qualche periferia del mondo dove il male si consuma adesso, proprio mentre leggete queste parole, immergetevi nel dolore di gente che non ha altro che la propria vita da difendere.
Quando tornerete, se riuscite a tornare, invece di parlare dello schifo che avete visto, sono sicuro che parlerete della lotta per la sopravvivenza che spinge quella gente ad affrontare il deserto, a sopportare torture e violenze, ad attraversare il Mediterraneo su una barca marcia, a misurarsi con la disperazione in un centro di smistamento e a provare, comunque e senza arrendersi, a vivere.
Claudio Fiorentini