Partiamo da un punto fondamentale: il PIL italiano viene, per poco meno della metà, dalle PMI; queste occupano circa un terzo della forza lavoro nel settore privato. Non è poco. Poi esistono le grandi industrie, ma per questo mio articolo mi focalizzerò sulle PMI, che sono un settore di vitale importanza per l’Italia.
Le PMI sono aziende che occupano non più di 250 dipendenti e fatturano un massimo di 50 milioni l’anno, e sono di tre tipi: micro, piccola e media.
Una caratteristica delle PMI è la gestione padronale. Certo, questa la si può trovare anche nelle aziende più grandi, ma non è impossibile che per queste, soprattutto se si tratta di multinazionali, la gestione manageriale sia fondamentale per portare avanti l’azienda.
Con la tecnologia che avanza ed evolve a passo veloce e con la trasformazione delle tipologie di lavoro necessarie, è sempre più improbabile che un’azienda abbia vita lunga, a meno che non si ricorra alla sempre più traumatica ristrutturazione. Insomma, il posto fisso ormai non esiste più. Le tutele per il lavoratore, tuttavia, sono a stratificazione differenziata: poche tutele per i lavoratori delle PMI, e molte tutele per i lavoratori delle grandi industrie che, visti gli ingenti capitali investiti, non hanno problemi a sollecitare gli interventi dello Stato (per alcuni gruppi è ormai abitudine) e, a volte, anche dei mass media, di solito molto attenti alle ristrutturazioni delle grandi realtà e totalmente restii a parlare delle PMI.
Per le grandi industrie, a parte l’intervento dello Stato e il peso dei sindacati in eventuali trattative, spesso vengono proposti, dall’azienda stessa, pacchetti di buonuscita che a volte includono il ricollocamento, fornendo al lavoratore, direi giustamente, un cuscinetto che gli consentirà di ridurre l’impatto del trauma. Certo, se il lavoratore non è facilmente ricollocabile il trauma può diventare un dramma per la famiglia. Lo stesso problema, riportato nelle realtà di piccole e medie imprese, è trattato in modo assai diverso: l’intervento dello Stato si limita a scarsi ammortizzatori sociali, il pacchetto di buonuscita è inesistente e il lavoratore, per ottenere il dovuto, assai spesso si deve rivolgere ad avvocati che poi presentano il conto.
Nella storia recente abbiamo visto casi estremi, come lo furono Fiat e Alitalia, dove i lavoratori hanno ottenuto ogni tipo di supporto, ma se ci soffermassimo a pensare all’indotto, che probabilmente non ha ottenuto nulla, si può ben capire che l’ingiustizia sociale non è cosa di poco conto. Oltre l’indotto delle grandi industrie, però, esistono numerose aziende che nascono seguendo una nicchia di mercato fiorente durante qualche anno, che però dopo un po’ appassisce. Queste aziende non sempre hanno la capacità di riconvertirsi e, conseguentemente, portano i libri in tribunale creando ulteriori problemi per il lavoratore che ha serie difficoltà per recuperare stipendi non pagati e amenità del genere.
Attenzione, però, come abbiamo detto in un paragrafo precedente, oggi è improbabile che un’azienda abbia vita lunga per cui la mobilità lavorativa dovrebbe essere una prassi consolidata e dovrebbe essere in qualche modo facilitata dallo Stato, che poi deve essere in grado di sostenerla.
Per far fronte a queste dinamiche, come anche all’ingolfamento di un sistema che non facilitava le assunzioni, nella storia recente furono creati strumenti atti a dare flessibilità, rendendo agile sia la fine del rapporto che l’inizio di un nuovo lavoro. Un esempio sono stati i contratti a progetto, dei quali molte PMI hanno platealmente abusato creando precarietà e non premiando la professionalità, ed era facile trovare direttori vendite o responsabili ufficio acquisti con un contratto a forma di Spada di Damocle sulla testa.
Inoltre, pur sapendo che il lavoratore poteva avere più contratti allo stesso tempo, non era infrequente che il datore di lavoro, non gradendo la condivisione delle “sue” risorse, pretendesse la presenza in ufficio. Il lavoratore, con la sua Spada di Damocle sempre sulla testa, non poteva opporsi. E guai a parlarne. Non solo: quei contratti non davano diritto a TFR, ferie, malattia, maternità eccetera, ed essendo a termine non davano neanche diritto ad eventuali indennità.
L’utilizzo scriteriato di questi strumenti ha creato un livello di precarietà dannoso per il Paese, occorreva porvi rimedio, ed ecco che arriva uno dei provvedimenti più criticati della storia: il “Jobs Act” che, con tutti i suoi difetti, armonizzava, per quanto possibile, gli ammortizzatori sociali e poneva rimedio alla mancanza di diritti (ferie, malattia, scatti di anzianità, inquadramento contrattuale ecc…).
Le critiche furono feroci, ma l’idea era assai semplice: un contratto di assunzione prevede sei mesi di prova, immaginate che questi sei mesi diventino tre anni, con la differenza che in tre anni si acquisisce esperienza e professionalità che, in teoria, rende il lavoratore indispensabile per l’azienda facilitandone la conferma.
Non solo: con il “Jobs Act” veniva ufficializzato il ruolo reale del lavoratore, che fosse quadro o impiegato, facilitando eventuali ricollocamenti anche perché, questo forse sfugge a molti, l’eventuale addetto del CPI, trovava nella sua storia un contratto con il dovuto inquadramento e non un contratto a progetto che non rispecchiava l’effettivo lavoro svolto.
Io non so quanti di voi siate stati licenziati e poi assunti in qualche altra azienda, ma c’è chi ha vissuto sulla propria pelle la differenza tra il prima e il dopo, potendo confrontare le indennità, la vita lavorativa da dipendente, da precario e di nuovo da dipendente, ben sapendo che tra il prima e il dopo c’è una grande differenza.
Insomma, il “jobs act” era una legge imperfetta che, però, andava nella giusta direzione e, per quanto criticata, probabilmente è stato l’unico provvedimento di “sinistra” degli anni recenti in quanto mirava ad un’armonizzazione dei trattamenti e non a creare ulteriore disparità, che comunque continua ad esistere. Inoltre, essendo obbligatoriamente tutto fatto alla luce del sole, non succedeva che un direttore vendite, un amministrativo o personale di segreteria venissero assunti con un contratto a progetto fasullo che, non dimentichiamolo, per sua natura doveva essere legato a un progetto.
Purtroppo in Italia esiste il detto “fatta la legge trovato l’inganno” e un “progetto”, come ad esempio lo sviluppo di un modulo software che implica un inizio e una fine, è diventato qualsiasi altro tipo di lavoro. Conseguentemente, gli imprenditori furbacchioni hanno rovinato uno strumento che non nasceva per lo sfruttamento del lavoratore, ma per dare flessibilità al mondo del lavoro facilitando le sempre più necessarie assunzioni a termine.
Ora parliamo del dente cariato: perché molte PMI non riescono a riconvertirsi? Perché non crescono? Perché non sempre sono competitive? Qui si apre una scatola di Pandora e, pur senza generalizzare, dobbiamo parlare di una certa classe dirigente, impreparata e incolta, che fonda la sua azienda per amicizie, che non è in grado di fare un piano industriale e che, peggio, nel momento in cui ricorre a risorse qualificate, le vede come un ospite scomodo e le mette all’angolo.
Di esempi ne posso riportare molti e hanno un aspetto assai grottesco, e si poteva trovare l’AD che dice ad un nuovo assunto di mezza età e di notevole esperienza “Ma non è che tu che vieni da una multinazionale ci vuoi insegnare a noi il lavoro?”, o il “capo” di turno che, pur avendo bisogno della risorsa, non rinnovava il contratto se non due giorni prima della scadenza, tenendo il lavoratore sulla graticola. Si tratta di fatti reali che ben inquadrano il problema: non sempre le risorse qualificate sono utilizzate per il valore che portano, e se propongono qualcosa che merita considerazione, sono viste come un elemento di disturbo…
Si poteva anche trovare aziende di un certo livello in cui la proprietà dell’azienda scopriva, grazie a un dipendente, che il Ministero dello Sviluppo Economico definisce strategie a lungo termine a livello paese e grazie a queste si possono definire i piani industriali. Certo, se la proprietà non lo sa è abbastanza grave, ma è assai frequente che succeda, e altrettanto frequente la proprietà, nonostante questo contributo, segue a ricorrere alle “amicizie influenti” invece di definire una “strategia”.
Il punto è che per approcciare il mercato serve un metodo di lavoro e, soprattutto, una visione e una strategia a lungo o medio termine, perché il “mercato” non è fatto di “amici influenti”, ma è un mondo in continua evoluzione, non si ferma e non si adegua ai tempi e ai metodi (sbagliati) di una classe imprenditoriale che ancora si ostina a credere che i contratti si firmano invitando il cliente a cena. E non solo a cena.
Lungi da me l’idea di fare di tutta l’erba un fascio ma spesso, troppo spesso, tra il “fatta la legge trovato l’inganno”, la gestione “padronale” e il rifiuto di qualsiasi approccio manageriale, gran parte delle PMI italiane non rappresentano il “fiore all’occhiello” del nostro settore produttivo. Anche per questo, spesso, le ottime idee rimangono in un piccolo recinto, raramente diventano un esempio virtuoso e quasi mai crescono. Certo, lo Stato non aiuta, e come conseguenza uno dei problemi fondamentali delle PMI è una mancanza di “visione”, forse dovuta all’eccesso di energie richieste per la gestione di lacci e lacciuoli, imposti da una PA inefficiente e da leggi contorte che non favoriscono l’iniziativa privata.
Non tutto è così, le idee ci sono, quelle non finiscono mai, il lavoratore italiano non è di quelli che ragionano per compartimenti stagni e molti imprenditori hanno capacità dirigenziali di rilievo per cui, se le aziende sono ben gestite e i lavoratori sono visti come un valore, può venire fuori qualcosa di buono.
Ma oggi cosa sta succedendo? È evidente che stiamo vivendo una radicale trasformazione del mondo del lavoro e che si sta aprendo la porta per molte nuove opportunità. Un esempio è nel piano Next Generation Europe che, tra l’altro, obbliga i paesi membri a ridisegnare le proprie strategie seguendo una traccia comune, cosa assolutamente benefica, e soprattutto l’assegnazione di fondi europei è legata a piani di sviluppo in linea con la strategia del piano e la cui efficacia sia misurabile: ecco che l’adeguamento delle politiche locali a un progetto comunitario diventa indispensabile.
L’Italia ha i titoli per entrare in questo ambizioso progetto, ma è innegabile che dovrà fare i compiti a casa. Tra questi, sicuramente ci sarà una rieducazione del tessuto imprenditoriale che non può e non deve rimanere legato ai vecchi dogmi di “fatta la legge trovato l’inganno” e a lavorare grazie alle “amicizie influenti”. Si tratta di una opportunità senza precedenti che se non viene colta e se ci si ostina a continuare con gli anacronistici e poco edificanti vecchi metodi, si può solo sprofondare nel baratro, cosa che non auguriamo a nessuno.
Claudio Fiorentini