Diritti, economia, sovranità, con queste tre parole possiamo riassumere i temi della poco edificante campagna elettorale, spostandoci da sinistra a destra. Vi sono anche i temi trasversali come ecologia, lavoro e sviluppo, ma sono declinati in modo assai discutibile, sia da una parte che dall’altra. La realtà è che per governare un Paese occorre qualcosa che vada oltre le parole, occorre un programma realistico e realizzabile, occorre una visione del futuro insieme a una visione di Paese, e occorre gente capace che si dia da fare non per i voti, ma per il bene comune.
Già, il bene comune, questo sconosciuto. Ormai da tempo, il programma elettorale è un canovaccio che contiene parole belle e seducenti, assai raramente è accompagnato da piani di sviluppo e di crescita, ovvero da piani sostenibili nel vero senso della parola. Questo svilisce la capacità di ragionamento che, credo, ancora esiste e resiste in gran parte dell’elettorato, e popola un nuovo partito, quello dell’astensionismo.
Forse dai tempi dell’Ulivo di Prodi non si vede un programma chiaro e ben dettagliato, degno di essere letto dai cittadini prima di andare al voto. Ma cosa è successo nel frattempo? Si è svilita la politica diventando vittima dello slogan gridato che preferisce parlare male dell’avversario piuttosto che esporre un ragionamento e che pubblicizza quattro parole a prescindere dall’idea che dovrebbero rappresentare.
Questa deriva la dobbiamo in gran parte a Berlusconi che, attraverso il suo magistrale dominio dei media e la sua proverbiale eloquenza, ci ha insegnato a vivere di slogan presentandosi come il salvatore della patria contro il dominio dei comunisti. Dopo di lui abbiamo avuto altri strilloni: Grillo, Renzi, Salvini e, ora, Meloni.
Intendiamoci, non parlo della capacità di questi leader, ma di un certo comportamento che aizza il popolo e che trasforma il leader in una sorta di tribuno. È chiaro che molti elettori si muovono in massa verso lo strillone di turno – non verso un programma politico credibile – e sposano uno slogan ripetuto ossessivamente rinunciando al ragionamento complesso.
Non dubito che esistano fonti di informazione valide che riescono a evidenziare la coerenza o l’infondatezza di alcune affermazioni, e quindi la serietà o la cialtroneria di chi le sostiene, ma l’elettorato non si rivolgerà all’analista, allo studioso o al ricercatore, semmai si accontenterà di quello che gli viene proposto dal leader/tribuno perché non è un invito a pensare, ma un rifugio identitario che unisce le masse.
In tempi assai recenti questo comportamento è stato evidenziato dalle dinamiche delle reti sociali, quando in molti hanno dato del cretino a scienziati e ricercatori, aggrappandosi a titoli (o a fake news) costruiti ad hoc, dove un banale “post” su Facebook riusciva ad essere più credibile che qualche centinaio di ricerche e pubblicazioni “peer reviewed”.
Avremmo dovuto capire che, ormai da tempo, una certa classe politica esercita la propria leadership proprio sfruttando questa dinamica. Facebook è stato l’ente delatore e noi, invece di capire l’inganno, siamo riusciti a diventare ancora meno obiettivi lasciando la capacità di critica nel cassetto.
Qualcuno ricorda la profetica scena di Ginger e Fred, uno splendido film di Fellini, con Mastroianni che, prima di andare in scena, dice che finalmente potrà dire al pubblico, diventato vittima della TV, “pe-co-ro-ni”, ebbene, a parte il senso della scena che solo un genio come Fellini poteva concepire, dobbiamo dire che all’epoca non esistevano le reti sociali, quelle che consentono all’utente di avere un proprio palcoscenico, quindi di sentirsi Mastroianni per dare del “pe-co-ro-ne” a chi la pensa diversamente (nel caso della storia recente allo studioso, al ricercatore, all’analista… perché la scienza “ufficiale” è una macchinazione del potere e Facebook ti consente di dire la tua verità).
Lo stesso vale per le argomentazioni ben fondate che richiedono impegno e studio e che per lo sloganista di turno sono prese per i fondelli in quanto il suo idolo ispiratore, di solito quello che strilla più forte, ha capito come funziona il mondo. Insomma: un leader è tale se fa credere a un popolo di “pecoroni” che i “pecoroni” sono gli altri.
Quindi diritti, economia, sovranismo, passando per ecologia, sviluppo e lavoro, diventano parole seducenti, mentre i programmi sono nebulosi e confusi perché, non ci sono santi né madonne, il ragionamento vale sempre meno di uno slogan. Insomma, siamo ridotti a un elettorato un po’ idolatra che vota la persona, dimentica che esistono le idee e non sa che persona è una parola latina, forse di origine etrusca, che significa “maschera”.
Claudio Fiorentini