Analisi di alcune opere metafisiche di De Chirico (XII)

Ciò che vi propone la rubrica Al Nord della Polare, è una serie de pubblicazioni, le quali argomentano inizialmente intorno ai due termini quali sono “Spazio e Tempo”. Questi, nel susseguirsi delle pubblicazioni saranno applicati allo studio dell’arte pittorica, in particolare allo sviluppo artistico del 900, del quale sappiamo protagonisti diversi movimenti artistici. Accenneremo al carattere di molti confrontando le motivazioni, ma in particolare si darà maggior protagonismo all’opera metafisica, e quindi, al più grande Maestro del 900 Italiano. Vi invitiamo a seguire la lettura con dedicata attenzione, in quanto porta con se le premesse per capire l’arte e lo sviluppo di questa nel 900.

ANALISI DI ALCUNE OPERE METAFISICHE DI DE CHIRICO

“IL FILOSOFO E IL POETA” – “ETTORE E ANDROMACA”

“MUSE INQUIETANTI” – “LE DUO-MANICHINI CON TORRE ROSSA”

Francesco Santoro

Pavimenti inclinati marciapiedi obliqui, luci forti che scivolano sulle facciate, lo spazio disorienta, città che pongono domande a cui non è possibile rispondere, città abbandonate dall’aspetto cavernoso, prigioni svuotate dai prigionieri, luoghi in cui è vietato parlare. Lo sguardo si posa sull’assenza del vuoto che proietta la sua ombra sulle strade, tutto sembra familiare ma con una netta sensazione di estraneità la nostra stessa presenza diviene estranea a noi stessi.

Città che possono essere una in particolare o tutte allo stesso tempo di un determinato tempo o di tutti i tempi. L’uomo è scomparso dal pianeta terra, della sua natura è visibile solo lo scheletro. Solitudini gravi e sospese come un incubo sulle cose morte, i pesci incrostati di rame dormono sui fondali di marmo. Gli unici esseri rimasti, lo sono perché il loro sguardo ha incontrato quello della Gorgone che li ha resi immobili e pietrificati in atteggiamenti statici sulle piazze.

Architetture, castelli, orizzonti murati, fanno da sfondo a scene paurose nella loro immanenza, sul pianeta terra non rimangono che i prodotti dell’uomo i quali senza la presenza del loro creatore appaiono come mai visti. Le figure ora inanimate appaiono in atteggiamenti a loro consueti mentre studiano una lavagna nera, in cui linee e segni sembrano predire ciò che vediamo sulla superficie pittorica. Fissi nel silenzio contemplano le loro tavole in eterno come nel quadro ‘II filosofo e il Poeta’.

 

 

Ecco apparire i primi accenni al manichino una figura scura girata di spalle, come quella dei primi due quadri del 1910, affiancata ad una figura di gesso al filosofo, studiano strani segni su una lavagna che sembra essere quella di un astrologo. La scena in questo caso si svolge all’interno mentre una finestra apre lo sguardo al di là, fuori dalla stanza. La linea architettonica e geometrica è molto sentita da De Chirico, essa rimanda ai maestri lombardi e toscani. In De Chirico infatti, le scene sono spesso delineate dai rettangoli di una porta o dal quadrato di una finestra, e ancora dall’arco di una volta o dalle rette di un architrave.

Attraverso queste la rappresentazione assume una stabilità sorprendente, si solidifica, e ogni forma in essa contenuta assume un aspetto profondamente metafisico.

È dunque lo spazio artificiale a determinare in De Chirico l’aspetto metafisico. Questo nuovo soggetto che abbiamo detto essere il manichino, singolo o in coppia appare in moltissime tele destinate a moltiplicarsi nelle repliche degli anni ‘30.

Uomini statua-oggetto, dalla testa ovoidale attraversata da segni cabalistici, dalle proporzioni volontariamente sproporzionate rappresentano spesso il ‘filosofo’ o il ‘poeta’.

Personaggi che a Ferrara diventano ‘Ettore e Andromaca’, ma potrebbero essere gli ‘Argonauti’, o i ‘Dioscuri’, come li vediamo apparire nel quadro dei ‘Manichini con torre rossa’ in cui appare anche un curioso vaso fra la realtà e l’invenzione.

 

 

Qui lo spazio sfuggente del tavolato, sottolinea De Chirico, non è teatro, ma piuttosto tolda di nave, dunque i `Dioscuri’ come fa supporre il titolo di una replica neo-metafìsica mentre per ciò che riguarda il significato dei manichini eccone una spiegazione data da De Chirico in un articolo sul ‘Teatro spettacolo”.

“…Il manichino è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo ma senza il lato movimento e vita; il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ci respinge e lo rende odioso. Il suo aspetto umano è, nel tempo stesso, mostruoso, ci fa paura, irrita. Quando un uomo guarda il manichino egli dovrebbe essere preso da un desiderio frenetico di compiere grandi azioni, di provare agli altri ed a sé stesso di cosa è capace e di dimostrare chiaramente una volta per sempre che il manichino è una calunnia dell’uomo e che noi dopo tutto non siamo una cosa tanto insignificante che un oggetto qualunque possa assomigliarci (…) il manichino non è una finzione, è una realtà anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta. Il manichino non è un giocattolo fragile o effimero che una mano di bambino può spezzare non è destinato a divertire gli uomini ma costruendolo gli uomini lo hanno destinato a determinate funzioni: per i pittori per i sarti, vetrine, negozi di abiti. Non è la finzione della morte, della non esistenza che noi cerchiamo sulla scena. Se gli uomini chiedessero al teatro tale funzione il manichino sarebbe forse stato una consolazione, ma noi chiediamo invece al teatro la finzione della vita, una vita irreale, senza principio né fine…”.

Come abbiamo visto in precedenza il manichino, l’automa, domina la cultura del tempo come doppio, come traslato dell’uomo che nell’elaborazione di un nuovo ordine plastico diventa il punto più delicato della rappresentazione. In De Chirico anch’esso come l’oggetto perde i suoi attributi fissi, anch’esso è affrontato da De Chirico come un nuovo oggetto che si rivela sotto aspetti imprevisti.

Agli inizi è quasi un fantoccio, si sviluppa poi articolando elementi geometrici, righe, squadre, semicerchi, inchiodati fra loro arriveranno a costruire il grande metafisico. Anche se nasce da questa, non è più la figura fornita dalla statuaria classica, con la sua apparizione nel mondo dell’arte, indica una rottura, esce da quel rapporto che in passato rifletteva un canone di bellezza conforme all’immagine di Dio, entra nello spazio pittorico come frammento intessuto della stessa materia delle cose “…vedere ogni cosa anche l’uomo, nella sua qualità di cosa”.

Figure cieche, mute, vuote, vivono nello spazio bloccato ai lati da pareti prospettiche in cui la luce e l’ombra nella loro coesistenza ne accompagnano la direzione. Appaiono nel centro delle piazze dove la linea dell’orizzonte vale più per la loro figura che non per il paesaggio, protagonisti decaduti, l’io d’occidente, ragione geometrica e coscienza apollinea hanno perduto voce, sguardo e carne.

La figura dell’uomo con essi assume sembianze larvali, diventa fantasma, guscio, forma svuotata di senso, non lascia che il perimetro dell’io svuotato e una labile traccia dell’uomo come denuncia della sua disumanità e di assenza umana nell’uomo. Il loro volto che non c’è può apparire ‘macchina’ o esseri soprannaturali, possono essere eroi antichi e futuri Telemaco, Orfeo, l’indovino, il trovatore.

 

 

Infatti i manichini in De Chirico oltre a sottolineare una denuncia dell’assenza umana spesso si fanno carico di rappresentare una umanità arcaica e originaria, veggente, eroica, abitatrice di tempi lontani e misteriosi lo vediamo nelle opere del 1917-18 ‘Ettore e Andromaca’ o nelle ‘Muse inquietanti’. Figure remote della storia, fantocci di un mito appunto ormai senza volto che, collocandosi su una pedana la cui prospettiva contrasta con le linee declinati del castello, punta verso il cielo e s’affaccia su una veduta di Ferrara; sospesa anche essa fra un tempo medioevale e quello presente, tempo a cui ora si sovrappone quello della memoria recuperato dalla presenza di queste figure mitiche, come lo sono le muse inquiete figlie di Mnemosine (memoria).

Figure che ora per ciò che rappresentano acquistano un’anima triste e malinconica molto vicina a quella di De Chirico.

Nel loro ruolo esse ricordano il dramma della partenza e degli addii per la guerra, drammi vissuti in prima persona dal caporale Giorgio De Chirico, e non solo in occasione della guerra.

La partenza è uno dei miti che segna l’adolescenza di De Chirico questa si ripete con insistenza in tutta la sua vita sottolineando i numerosi spostamenti fatti a volte per costrizioni a volte per scelta ogni partenza rappresenta una morte ogni arrivo una rinascita sempre più libera e profonda.

 

 

Ma tornando al grande scenario delle ‘Muse inquietanti’ lo vediamo dominato sullo sfondo della massa rossastra del “Castello Estense” di Ferrara che con i suoi limiti merlati rimanda al Medioevo. La piazza è coperta in tutta la sua estensione da una tolda di naviglio che sembra sospesa a metà altezza delle arcate le quali si profilano a sinistra e la cui ombra lascia indovinare la statua di una donna avvolta in un drappo, sopra un basamento. Il primo piano del quadro illuminato dal sole del tramonto, è occupato dalle muse, l’una seduta davanti a noi che guardiamo, obesa con le braccia incrociate non ha per testa che una trottola nera di legno verniciato mentre la sua vera testa rossa uovo di Pasqua stretto da un nastro, giace ai suoi piedi. L’altra che si vede di spalle, sembra in parte una statua di pietra in un drappeggio rettilineo, ma dal collo di legno nero spunta una testa enorme simile a un pallone di cuoio.

In mezzo a loro sono posati in terra un bastone cilindrico retto circondato da una spirale e una scatole decorata di triangoli policromi gli stessi che vedremo articolarsi in tutta la superficie pittorica degli interni metafisici.

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