di Francesco Santoro
Fra le tante correnti e movimenti pittorici che si svilupparono nel secolo passato, molti di queste ancora in voga, quella che però più ha saputo resistere è il Surrealismo. Ma non si può intendere il surrealismo senza pensarlo nei moti dell’avanguardia occidentale del tempo in cui nasce. C’è da domandarsi: Come mai il surrealismo, oggi, sembra ancora ben vivo nell’ambito artistico?
L’avanguardia europea, cubista e futurista, che era nata verso il 1910 come atteggiamento di rivolta nei confronti delle poetiche tradizionali fu di fatto riassorbita in gran parte negli anni della prima guerra mondiale dai vari «richiami all’ordine» che orientarono gli artisti verso delle forme semplici ed essenziali, spesso neo-classiche, ritenute per quintessenza dell’arte del passato. Col senno di poi, si potrebbe dire, forse, che la carica negativa dei giovani artisti d’avanguardia della «belle époque» (1910-15), rivolta contro la cultura tradizionale, non era abbastanza radicale per poter fronteggiare la pressione di una vita intellettuale ed artistica, magari logora, ma che intendeva comunque sovrastare con i suoi schemi e le sue posizioni, ritenute valide e sicure, ogni eresia. Ci voleva un incontro dei miti della cultura moderna, quali ad esempio l’equivoca sacralità dell’opera d’arte ed il valore di «messaggio» d’ogni lavoro dell’artista (miti d’origine romantica) per riaprire la rottura. E questo incontro fu la nascita del Dada, da cui doveva poi nascere il surrealismo.
Dada (nella casualità del nome stesso, inventato dal poeta rumeno Tristan Tzara a Zurigo nel 1916, sta già tutto il programma del nuovo orientamento) si presentò negli anni della prima guerra mondiale come un movimento permeato soprattutto d’insofferenza e d’ironia contro tutte le forme di cultura antica e moderna. Dada credeva di poter proteggere la libertà dell’uomo sganciandolo da una storia spirituale di ragionevoli sviluppi progressivi, promossi dai «pensatori dell’arte». L’insolito più banale entra come una provocazione nella trama dei gesti e delle opere dadaiste per distruggere i toni consacrati dell’arte. Esasperato dal valore assoluto assegnato ai motivi delle nature morte di Cézanne, alla rotondità di quelle sue mele, alle curve di quei suoi piatti, il pittore francese Marcel Duchamp già nel 1914 presentava come delle opere d’arte debitamente firmate, una serie Ready Made, cioè un porta-bottiglie, una ruota di bicicletta, quali si trovano nell’uso comune. Ed il suo amico Francis Picabia costruiva delle strane macchine complicatissime che servivano «a rompere i noccioli delle pesche».
È una simile volontà di rompere l’isolamento retorico delle opere d’arte che caratterizza quelle serate al Cabaret Voltaire di Zurigo nella primavera del 1916 che vengono considerate come l’inizio ufficiale del movimento Dada, nel corso delle quali il poeta rumeno Tristan Tzara, lo scultore alsaziano Jean Arp e lo scrittore tedesco Hugo Ball recitavano strani poemi scanditi da gridi e rumori d’ogni sorta. Altri giovani artisti, Giorgio De Chirico in Italia, Max Ernst, Kurt Schwitters in Germania tentavano assieme ad altri, di rompere con i loro esercizi insoliti i programmi della prima avanguardia cubista e futurista. Ma è soprattutto Parigi che a partire dall’inizio del 1920 diventa il centro di questo nuovo indirizzo.
Una rivista d’avanguardia parigina «Letterature» diretta dai poeti Louis Aragon, André Breton e Philippe Soupault sposò la causa di Tzara. Nel primo venerdì di Letterature (pomeriggio di discussioni) il 23 gennaio 1920, al Palazzo delle Feste di Rue Saint Martin a Parigi, vicino ad André Breton, Paul Eluard, Giorgio De Chirico, Louis Aragon e Philippe Soupault appariranno Tristan Tzara e Francis Picabia. Pomeriggio veramente memorabile per le reazioni del pubblico, dapprima silenzioso nel corso della lettura di vari poemi ermetici, ma subito indignato quando Tzara si mise a leggere ad alta voce dal proscenio un articolo banale di giornale punteggiato da rumori.
La valorizzazione sistematica di tutto ciò che è casuale indusse questi artisti a delle strane realizzazioni. Nella sua rivista 391 (del 1920) Picabia pubblicò su tutta una pagina una gran macchia d’inchiostro con sotto questo titolo «La Santa Vergine». Ed i pittori giovani trovavano in questa piena anarchia che valorizzava l’automatismo dei gesti al posto dell’ispirazione, il modo di liberarsi, anche sul piano di un atteggiamento di vita, da ogni vincolo e pressione sociale.
Il 2 marzo 1921, André Breton presenta nelle sale del «Sans Pareil» l’opera del pittore tedesco Max Ernst. Nel catalogo della mostra si parla di «disegni meccanico-plastici, pitto-pitture anaplastiche, anatomiche, aerografe, ecc., ecc. ». In effetti, Ernst presentava dei collages, degli oggetti, dei dipinti ad olio ispirati a De Chirico e dei disegni. Ma è interessante rileggersi la cronaca di un giornalista quel tempo che rievoca la serata dell’inaugurazione: «Questa volta i dadas hanno fatto appello allo spavento. La mostra aveva luogo in una cantina, tutte le luci spente, nell’interno di un magazzino. Da una feritoia salivano dei gemiti. Un buffone nascosto dietro un armadio ingiuriava le personalità presenti. I dadas senza cravatta, ma con i guanti bianchi, passavano e ripassavano continuamente davanti alla gente. André Breton masticava dei fiammiferi. Ribemond-Dessaignes gridava ad ogni momento “Piove sopra un cranio”, Aragon miagolava, Soupault giocava a nascondersi con Tzara, mentre Péret e Chourchoune si stringevano continuamente la mano. Jacques Rigault contava ad alta voce le automobili e le perle delle visitatrici.» Come non accorgersi che sotto le provocazioni dadaiste c’è già l’atmosfera magica e sorprendente di quello che sarà tra qualche anno il surrealismo? E come non avvertire che oggi ancora i criteri dell’ultima esposizione surrealista obbediscono al medesimo spirito?
Ma questi giovani artisti non potevano allora continuare a vivere nella disponibilità vuota di un’ironia anarchica rivolta contro tutto. È dal loro impegno, da quello che i francesi chiamano «lo spirito dei seri» che verrà la fine di Dada. Breton decide nel maggio 1921 di dedicare una serata ad un pubblico processo contro uno degli esponenti della cultura ufficiale francese, Maurice Barrés. È già una manifestazione culturale che si pone fuori dall’ambito Dada che non vuole prendere nulla sul serio. E ne è la prova questo breve dialogo nel corso del processo, tra il presidente del tribunale fittizio, André Breton e l’immaginario testimonio a carico, Tristan Tzara.
Il testimonio Tzara. «Lei converrà con me, signor Presidente, che siamo tutti assieme dei mascalzoni, e che di conseguenza, le piccole differenze, mascalzoni maggiori e mascalzoni minori, non hanno più nessuna importanza.»
Il presidente Breton. «Il testimonio cerca di farsi considerare come un perfetto imbecille oppure vuol farsi internare in un manicomio?» Ma la rottura tra Tzara e Breton diventò irrevocabile nel 1922 quando Breton tentò di organizzare un grande congresso di Parigi per la difesa dei valori culturali. Tzara rifiutò di far parte del comitato organizzatore del congresso e cercò di boicottarne le iniziative. La polemica tra i due poeti divenne così aspra e violenta che il congresso non ebbe mai luogo e che Breton assieme ad alcuni amici andò ad inscenare una gazzarra al Teatro Michel ove si recitava la commedia di Tzara « Il cuore operato a gas » (12 luglio 1923).
Da quel momento ognuno prende la sua strada. Breton, utilizzando alcune idee che gli erano scaturite nel 1916, quando egli era all’ospedale di Nantes dove ebbe l’occasione di conoscere un giovane intellettuale sarcastico ed amaro, Jacques Vaché, morto suicida nel 1919, incomincia a cercare le vie di una liberazione dell’uomo non più nell’ironia, ma nella prevalenza assegnata all’inconscio. Le teorie di Freud gli sono di grande conforto. D’altronde già i dadaisti puntavano sull’automatismo quale emergere dell’inconscio come espressione privilegiata del casuale e dell’occasionale. Mentre Dada si serviva però dell’automatismo, senza dargli valore, solo in polemica contro la cultura ufficiale, Breton gli attribuisce un valore privilegiato e lo considera la strada preferita per entrare in contatto con il profondo.
Il primo manifesto del surrealismo (del 1924) di Breton è la migliore illustrazione di questo nuovo atteggiamento. Già nel dadaismo appariva l’idea che il cedere l’iniziativa al caso poteva permettere di socchiudere le porte del sogno, delle più irrivelate fantasie. Il surrealismo pretende essere appunto un ponte tra la realtà comune e le forme aberranti dell’esistenza che non soggiacciono al controllo della ragione: il sogno, la morte, la follia. Si tratta, per l’artista, di raggiungere quelle regioni dell’essere che stanno al di là del comune dell’esistenza, governato dalla ragione, e di recarle nei nostri segni e nelle nostre immagini.
(Fine della prima parte)