Il gusto e la moda passano attraverso le avanguardie

Picasso: Les demoiselles d'Avignon.
Picasso: Les demoiselles d’Avignon.

di Francesco Santoro

Non è semplice storicizzare eventi che non sono ancora del tutto chiari nel processo delle opinioni degli storici vanno elaborando, in quanto troppo vicini al nostro tempo, nonostante tutto sia passato un secolo ci colloca ancora come testimoni delle circostanze in cui questi si sono svolti. Ed ancora più difficile si rende il tentativo quando si deve tener conto della freschezza espressa intessa come ingenuità degli autori di questi eventi, che si caricavano di una esuberante novità: liberare la pittura e la scultura da ogni “imitazione”.

Di fatti, nell’arco di un tempo relativo alla giovinezza di tre o quattro generazioni, iniziando dagli anarchici degli anni 10 e 20 ai “ribelli del richiamo all’ordine” fino al 32, gli artisti del grande mercato internazionale, anni 50-60, se vogliamo includerli arrivare fino all’esaurimento della transavanguardia (anni 70) passa la vita delle avanguardie e del gusto europeo così come era venuto formandosi dagli inizi del secolo; con le sue mode superate e caratterizzate da un motivo costante, il ritardo, il riflusso, l’accademismo con le sottile ipocrisie di chi cercava nel mondo degli artisti soltanto l’anticonformismo dei sensi, per esempio: l’erotismo, che appariva come la traccia (il segno) di una libertà del vivere, mentre nascondeva travagli più profondi.

Un excursus è necessario per capire come hanno vissuto la loro giovinezza gli artisti del primo 900. E quale è stata la giovinezza degli altri, i pittori e scultori delle generazione di mezzo? Cresciuti nei momenti più complicato delle politiche europee, e come vissero quelli degli anni 30, nell’epoca della valutazione appunti fissata dal boom internazionale del quadro per arrivare a quelli che produssero un arte di consumo di massa. Qualcuno può semplicemente rispondere che sono tutte cose passate, la Bohème, i maudist, le avventure vissute sul filo della legalità, di fatti la bohème muore a Parigi, là dove nacque agli inizi del 900, spenti i ruggiti dei fauves, dimenticata la miseria del Betau Lavoir e della Roche, i rifugio dei pittori sulla colina di Montmartre o dei vecchi padiglione dei vini (Artisti che lavoravano tutto il giorno per la loro arte, per la loro ricerca, ponendolo al di sopra di ogni interesse). Si, tutte cose del passato di cui però resta ancora viva una immagine letteraria della quale ancora il nostro pubblico si lascia condizionare e per la quale noi motiviamo il presente invitando ad una riflessione sul susseguirsi dei cambiamenti dei gusti e delle mode.

Il pubblico ama le storie di Van Gogh, che soffriva per la sua arte, e continuava a produrre nonostante la sua apparente mancanza di successo sul mercato, così come apprezza le storie della povertà eccentrica del periodo blu di Picasso. Sono state le loro opere a far crollare il muro della indifferenza che circondava l’ambiente del tempo. Ed è giusto che le cose siano andate così, perché contrariamente alla lezione di estetica enunciata da Heagel nel 1820, sono state loro a porre le base poetiche di tutto il dipingere di oggi, la loro affermazione fu lenta e faticosa, altri artisti morirono nelle più squallida miseria. I futuristi, i fauvisti, i surrealisti, i cubisti, ecc. hanno sempre nutrito entusiasmo, speranza, progettuale nella ricerca, non certo come professione, bensì come passione, la sola forma possibile di esistere dove le sole utopie ammissibili sono quelle che evocano i “viaggi di Gulliver” dizionario del uomo disingannato, quinta essenza di visione chimerica.

Chi pensava che questi avessero fallito o che sarebbero stati sconfitti, non avevano considerato una cosa fondamentale, che nella vita come nell’arte, non si può giocare un ruolo di protagonisti ed essere contemporaneamente vincenti. I vincenti, socialmente parlando, sono gli adattati, coloro che hanno rinunciato alla ricerca intellettuale, a cercare di capire o di formulare prima degli altri nuovi modi inediti di comunicazione. Le loro ricerche cambiarono il ruolo e la pratica operativa, altri rinunciarono piuttosto che ripetere il risultato delle prime ricerche. Quelli successivi dichiareranno il ritorno all’ordine, pochi non vollero più produrre “opere d’arte” trasformando le loro ricerche estetiche in contestazione sistematica.

Burri.

Nei nostri giorni, le grandi città ospitano migliaia di gallerie a diversi livelli, e al contrario di quanto abbiamo citato, sono legate da una rete d’interessi che le collega dalla Europa, all’Asia, all’America, ecc. Oggi i pittori più attenti sono stipendiati dal mercato. Fanno i professori o i disegnatori industriali. Ieri il ritratto, il nudo, poi le aeropitture, per passare ai sacchi e ai buchi di Burri, e alle intuizioni dello spazialismo, i tagli di Lucio Fontana (1952), è attraverso questi che passa la storia della moda diversa nel tempo, quando si nutriva la mitologia romantica dei salotti e si celebravano gli anni del potere inserendosi disincantata, e vorrei dire funzionale nel mercato.

Chi ieri rideva dei futuristi, dei dadaisti, hanno poi comprato le loro opere: hanno sempre amato e deriso un mondo pittoresco, eccentrico, spregiudicato, che solleticava la volontà, l’erotismo; i pittore alla moda sono stati i giullari, ironici e consapevole, o compiaciuti di quella vanità. Gli altri artisti che hanno preferito la miseria e la battaglia artistica, non hanno mai accettato di essere l’ornamento futile dei salotti dell’ozio.

“Non mi stupisce se lei trova difficoltà a vendere” scriveva Boccioni a un collega amico del 1910; “è sempre stato così per me, e lo sarà ancora per molto” Boccioni ricavo in una sua esposizione personale a Venezia con 42 opere una miseria, equivalente a 200 lire. Mentre Gino Rossi nel 1914 fu uno degli artisti “rifiutati” dalla biennale veneziana; e Carrà polemizzava “contro le grottesche fiere biennali così dette esposizione internazionale”.

Da notare come cambia dunque la visione, anche se non sarebbe giusto dire che allora tutto era grigio, compatto, e che nessuna luce entrava nei saloni delle mostre ufficiale. Pensiamo alla biennale del 1910 che presentavano 19 opere di Coubert, 22 di Klimt, 37 di Renoir. Ma il gusto e la moda erano in ritardo: nel 1907 dopo alcuni messi di lavoro e di vita difficile, Picasso aveva portato al termine le Demoiselle d’Avignon, partirà, ma molti anni dopo per il Museo d’arte Moderna di New York. L’avanguardia è, dunque, polemica, rottura ed è soltanto un momento nella vita di queste giovani generazioni, ma non la preistoria di una vicenda individuale, bensì la punta penetrante con cui una nuova generazione si è fatta spazio.

Nel primo dopo guerra, fra il 28 e il 32, gli artisti si trovavano di fronte ad una vasta azione d’inquadramento “il richiamo all’ordine”. Ma dopo pochi anni, con la catastrofe stravolgente della guerra, i giovani reagiranno in modo diverso. Passata la rivolta anarcoide, iniziarono a partire per Parigi o in Bretagna, gettandosi nella mischia come aveva fatto Boccioni nel 16. La ribellione nasceva all’interno delle stesse manifestazione ufficiale, rompendo il “richiamo all’ordine”. Il primo tentativo di assorbire le avanguardie e dare una sistemazione ufficiale al secolo sotto l’etichetta “del 900” avveniva in quegli anni e non importa se l’operazione trascinava con se neoclassici, puristi e futuristi. Le voci di rottura erano i manifesti firmati dai movimenti, i quali affermavano l’identità di arte e storia e la necessità che la pittura e la scultura fossero strumenti di libera esplorazione del mondo.

L’ultima generazione non ha conosciuto conflitti, guerre e quant’altro, non hanno firmato manifesti ne pubblicato riviste d’interesse e di battaglie artistiche. Hanno conosciuto solo il gioco delle aste, il punteggio internazionale delle opere attraverso le riviste d’arte, imparano che il quadro o la scultura sono legate a un prezzo che deve salire e che le quotazioni sono determinate dalla partecipazione alla grande mostre, ai premi, alle monografie, all’intelligenza del mercato. Contrariamente a questo il mercato delle prime generazione lottava per tenere l’arte al di sopra del grosso commercialissimo e si pensava all’arte come le sacra incarnazione delle nostre aspirazioni culturali.

Ma questo concetto del mondo artistico come santuario che ha orrore del commercio, cessa la sua ragione di essere. Siamo dunque negli anni del gusto americano (50-60), “consumo di massa”, della pittura di azione, del segno e del gesto, dell’ultima maniera filtrata attraverso la cultura francese, l’informale, il boom ha assorbito le avanguardie. Diviene anacronistica così l’immagine dell’artista poco interessato al denaro. Diventa un essere sociale che sta portando a conclusione un’opera che si ravviva ed è sostenuto dalle istituzioni; quali i centri d’arte, gallerie, accademie, musei, e mezzi di comunicazioni, attraverso tutto ciò entra in contatto con tutto ciò che la società vive, soprattutto per quelli che vivono nelle grande metropoli. Dunque una vita che non è paragonabile alla vita grama dei molti che lavorano in provincia.

Non tutti sanno difendersi, entrare “nel giro”, ma chi ha capito il gioco si è affrettato ad assecondarlo. I giovani di oggi che vogliono andare contro corrente e impedire che la loro “avanguardia” venga confusa e stravolta, devono fare i conti con un nuovo grande affare. Un pittore senza mercante rischia non solo la povertà contingente, quella della giovinezza, ma di più, rischia di restare fuori del giro per tutta la vita.

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