La nascita della Pittura Evocativa (I)

de Chirico- Le muse inquietanti - 1916
De Chirico- Le muse inquietanti - 1916


di Francesco Santoro

Sul termine di «pittura metafisica» Carlo Carrà raccolse addirittura in un volume nel 1919, mettendo insieme articoli sparsi di polemica o di esortazione pubblicati in quegli anni sul finire della prima guerra mondiale.
Nè mi pare il caso di insistere adesso in una spiegazione della parola, che forse spetta di più al parlare filosofico che non a quello della creazione pittorica. Tanto più che, col passare degli anni e lo scontrarsi delle opinioni, il termine «metafisico» in pittura prese un significato visivo assai preciso, appunto con la pittura di De Chirico, di Carrà e di Morandi, compiuta tra il 1916 e il 1921.

De Chirico – Meditazione Mattinale 1912

Anche se non corrisponde precisamente al significato della parola, il riferimento che desta la parola metafisica è senz’altro esplicito, e balzano agli occhi i manichini, i pesci di latta, i rocchetti, i biscotti, gli archi, le torri solitarie, le banderuole al vento della sera, le statue sui sarcofaghi arcaici, cioè tutta la carpenteria magica di quei dipinti, che hanno caratterizzato una lunga stagione dell’arte italiana, e i suoi riflessi sulla pittura europea, quella che dopo il 1924 venne raccolta sotto la bandiera del primo «manifesto surrealista» dettato da André Breton sui consigli della dottrina freudiana, tra inconscio e sublimazione, tra realtà e sogno, tra simbolo e, allusione fantastica.

 

De Chirico – Il Trovatore, 1917

E altra ragione per non insistere troppo sul termine e puntare inve­ce sulle opere, è il fatto che per ciascuno di quei tre pittori «metafisici» la parola ebbe un senso diverso, come vedremo, e quindi anche le opere finirebbero per essere tra­visate dal loro reale significato.

La storia ci dice che la pittura metafisica nacque nel 1916 a Ferrara, con l’incontro di De Chirico e Carlo Carrà all’ospedale militare di Ferrara. L’incontro difatti avven­ne e Carrà, che nella primavera del 1915 era ancora un pittore del gruppo futurista, in quella estate del 1916 era già su posizioni diverse, coltivando un gusto per il primitivismo grottesco e satirico, che con il dinamismo plastico non aveva più nulla a che fare. Un artista non può essere costretto nelle ma­glie di una coerenza a parole e nessuno gli può impedire di effettuare esperienze le più disparate, purché esse rispondano a un sin­cero impulso della sua personalità, al va­riare inevitabile delle sue cognizioni intellettuali e artistiche.

E difatti Carrà in una pagina del suo li­bro, non esita a dire che tra le proprietà che presiedono alla pittura, c’è questa: «rag­giunto il primo stadio della forma, trovare l’equilibrio dei volumi, cioè a dire “l’ordine” sintetico e definitivo del quadro. Non dimentichiamo che l’arte non può essere unicamente il riflesso immediato di una sen­sazione e nemmeno queste forme devono rimanere grezze espressioni esteriori della realtà circonfluente, o limitate a fermare le ombre di un certo moto vibratore». Nelle quali parole, oltre che a correzioni dirette all’estetica futurista, che cooperò a fon­dare, Carrà fa risentire un suo lontano e costante distacco dalle idee della pittura im­pressionista e dalle sue regole della mobi­lità della luce e delle vibrazioni atmosferi­che, che tanto avevano aiutato invece Sisley, Pissarro, e in particolare Monet. Carrà cioè chiariva man mano le sue idee sulla naturale staticità, densità e potenza della visione pittorica italiana, costruita per pieni volumi, per solidità di prospettive e concre­tezza di spazi e di percezioni cromatiche.

Una pittura ideale, quindi, di contro a una pittura naturalistica. Certe convenzioni scientifiche dei Divisionisti, che pure erano applicate a fenomeni così preci­si della natura come la rifrazione della luce e dei colori, stabilivano già una precettisti­ca che nel suo nucleo negava l’essenza e l’immediatezza del realismo. Lo prova il fatto che sulla base della pittura divisionistica sorse il simbolismo di Van Gogh, di Gauguin, di Toulouse-Lautrec: e sempre con un procedimento analitico che deriva dal divisionismo si distaccano da un lato i pit­tori Fauves con le loro teorie dei colori puri e separati per virgole e punti, e dall’altro lato i pittori Cubisti con le loro teorie dei volumi sezionati analiticamente con opera­zione mentale e ormai lontana dall’imita­zione della natura.

Quindi un primo punto fermo della pin­tura Metafisica è in questo suo dichiarato e attuato antirealismo, anche se userà come elementi della composizione oggetti, figure, particolari di natura, miste a sensi e a idea­lità di altra specie, come vedremo.

In una risposta a Giovanni Papini ancora Carrà diceva: «Per carità, non tirar fuori la decrepita questione dell’arte verosimile. Potrei ricordarti le parole di Raffaello: Io mi servo di certa idea che mi viene alla mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte, io non so; ben m’affatico d’averla. E se tu, caro Papini, mi dicessi, che questo è platonismo fuori modernità, ti potrei ricor­dare le parole di Baudelaire, nel quale an­che tu credi, e convincerti che questo modo di intendere la funzione dell’arte è buono in tutte le epoche. Ecco le parole del grande poeta romantico: In effetti, tutti i vignettisti buoni e veri attingono dall’immagine scritta nel loro cervello, non dalla natura».

Carlo Carrà – L’ovale delle apparizioni – 1919

Quel che avvenne a Ferrara nel 1916, tra De Chirico e Carrà. non fu l’atto di fondazione della pittura metafisica; ma lo svol­gimento di uno dei suoi capitoli. L’inizio in effetti era avvenuto qualche anno prima verso il 1911, per opera appunto di Giorgio De Chirico.

Figlio di genitori italiani, De Chirico nac­que in una città greca, a Volo, nel 1888; e quando si trattò di compiere gli studi supe­riori, negli anni immediatamente prossimi al 1910, il giovane si trasferì in Germania, a Monaco di Baviera. Ora badiamo a quegli anni e a quel che stava accadendo in giro per l’Europa: si muoveva cioè il grosso schieramento anti-realista e anti-impressionista.

Abitando nella capitale bavarese in quegli anni, De Chirico venne a trovarsi in mezzo a questa polemica, e ai primordi violenti della riforma artistica. Tuttavia non ebbe dimestichezza con il vasto dibattito e con le violente scomposizioni dei suoi colleghi.

La sua soluzione l’avrebbe trovata per altre vie non intellettuali e speculative, ma piuttosto simboliche, con richiamo di evocazioni letterarie o fantastiche. Per attuare la loro aspirazione di modernità i riformatori di Monaco ricorrevano a motivi e a figure della vita moderna, del progresso meccanico.

Carlo Carrà –Idolo Ermafrodita- 1917

In chiave diversa, De Chirico ricorreva in­vece a motivi e a figure della vita passata, ai miti e alle figure della mitologia classica.

E persino facile immaginare il giovane De Chirico in quegli anni monacensi, in visita al museo di arte greca, con i pezzi originali che provenivano direttamente dalla Grecia e tenevano in questa terra nordica il mito della solarità e classicità mediterranea. Ag­girandosi tra quelle statue, tra quei frammenti di marmo che avevano decorato fron­toni di templi, De Chirico finiva per ritro­varsi ancora in mezzo alle figure della sua infanzia greca. E molti palazzi e scorci della città bavarese, a partire dalla copia rifatta davanti alla mole biancastra e rococò della chiesa dei Tolentini della fiorentina Loggia dei Lanzi, gli ripetevano sotto gli occhi le forme e gli schemi della classicità ritrovata dall’umanesimo italiano per merito degli artisti toscani del Quattrocento.

Su questi elementi fondamentali di cultu­ra, giocava inoltre le sue suggestioni un par­ticolare accento di nostalgia per una terra sulla quale non era fisicamente nato, ma alla quale si sentiva legato e dalla quale veniva attratto anche per tanti richiami fa­miliari. Il carattere culturale di quella pre­parazione giovanile veniva quindi a me­scolarsi con una inclinazione psicologica di­rei addirittura ancestrale. Né si deve ta­cere quel l’altra suggestione esercitata sul giovane pittore dalla pittura romantica di Delacroix; e in effetti esistono lontani di­pinti di quegli anni dove compaiono lotte di tigri avvinghiate, uno dei temi preferiti appunto dal pittore romantico francese; e il passaggio a un altro tipo di romanticismo più complicato e allusivo, denso di simbologie letterarie, di compiacimenti misteriosi, di risonanze profonda, un po’ scenografico e archeologico, sognante, quale era attuato appunto a Monaco, a Basilea e sui colli fiorentini da Arnold Boeklin. Basterà ricordare, di questo pittore tedesco di fine Ottocento, il famoso e teatrale dipinto L’isola dei morti, che sorge spettrale con gli strapiombi di roccia e i vertici neri dei cipressi sopra uno specchio di acque livide, su cui fluttuano veli di nebbie grigiastre; oppure quelli più tardi delle Ninfe addormentate fra gli alberi di un bosco, grevi di silenzi misteriosi e serali, o di Odisseo fermo sulle rocce a scrutare il mare deserto, verso una immensità di sogno. Basterà, ripeto, ricordare queste opere famose quanto fradice di letteratura, per indicare l’ambiente culturale entro il quale iniziava le sua attività il giovane De Chirico.

Carlo Carrà – L’amante dell’ingegnere

Indubbiamente ne fu attratto, anche per il fascino esercitato da quel modo di di­pingere ricchissimo di artifici e di squisi­tezze di tavolozza e di pennello. Ecco in­fatti tutta una serie di opere dechirichiane che rivelano la diretta derivazione da Boeklin: L’enigma di una mezzanotte d’autunno del 1910, L’enigma dell’oracolo ancora del 1910, poi la Conversazione mattinale del 1912 con le figure greche ammantellate su una piazza deserta dove dorme un’antica statua in cospetto del mare, e infine L’enigma dell’ora pure del 1912, con lo spaurito personaggio in toga davanti al portico vuoto di una terma o di una stazione.

Ritroviamo lo stesso ambiente e i perso­naggi di quei quadri boekliniani. Ma il clima psicologico è diverso; lo dicono anche i titoli, con quell’insistenza sul termine «enigma» quasi a denunciare una mistificazione, un trompe-l’oeil della memoria, che sposta tutto il senso di quella evocazione mitologica da una scena eroica a una scena di finzione teatrale, di magia, di balletto capriccioso e imprevisto. Si avverte cioè una vena di iro­nia che però si agghiaccia dei suoi stessi fantasmi evocati e desta brividi di inquietu­dine. Ne deriva un senso ambiguo, una du­plicità, un enigma appunto che non riesce a definirsi in farsa o in tragedia. E intanto il pittore si sorprende delle sue stesse rappresentazioni tra il fantomatico e l’evocazio­ne malinconica.

Bisogna ammettere che proprio in virtù di questi diversi sensi, di questo artificioso ma in un certo senso drammatico e iro­nico alludere, nasce una dimensione poetica nuova, irrazionale e magica, dove la cultura fa specchio e rifrange immagini deformate dal sogno, dal capriccio, dalla mistificazione.

Una mistificazione che su è mescolata a tal punto con la realtà, da non saper più discernere il vero del falso, l’ora concreta quo­tidiana e il tempo della favola allucinata. Un gioco irrazionale e pur lucidissimo, su cui avrebbe giocato con altrettanta perspi­cacia tragica e umoristica insieme il Piran­dello delle prime «favole» teatrali. E difatti non si riesce a discostare troppo i manichini dechirichiani delle opere più mature, quel­le dopo il 1915, cioè del tempo di Ferrara, dai «personaggi in cerca d’autore» o dai magici improvvisi trasformismi delle «recite a soggetto» pirandelliane.

È anzi questo nuovo senso che salva la pittura dechirichiana di quegli anni dal perdersi nella letteraria scenografia romanticheggiante di Boeklin. Sta di fatto che già nei dipinti del 1910 e del 1912 sono maturi i segni di un’agile memoria che muoveva fi­gure ambigue, avvolte di pepli mediterranei nell’ombra mattutina di alcune case prese a prestito dagli affreschi toscani o ferraresi, e ridestava un senso di stupore, una spazia­lità estatica più celeste che terrena, al di là di uno stretto limite fisico, dilatata in una dimensione immaginaria soffocante di allu­sioni e eli rivelazioni magiche.

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