Ciò che vi propone la rubrica Al Nord della Polare, è una serie de pubblicazioni, le quali argomentano inizialmente intorno ai due termini quali sono “Spazio e Tempo”. Questi, nel susseguirsi delle pubblicazioni saranno applicati allo studio dell’arte pittorica, in particolare allo sviluppo artistico del 900, del quale sappiamo protagonisti diversi movimenti artistici. Accenneremo al carattere di molti confrontando le motivazioni, ma in particolare si darà maggior protagonismo all’opera metafisica, e quindi, al più grande Maestro del 900 Italiano. Vi invitiamo a seguire la lettura con dedicata attenzione, in quanto porta con se le premesse per capire l’arte e lo sviluppo di questa nel 900.
(PARTE 9)
Francesco Santoro
Restando fedele solo alla pittura, De Chirico assume in sé quelle contraddizioni inerenti al difficile rapporto tra pittura e realtà, tra la costruzione di uno spazio bidimensionale e la visione di uno spazio tridimensionale. Dal distacco della realtà, ad un eccesso di vicinanza con la realtà, dal recupero storico, all’assenza di una visione unitaria, dalla separazione tra forma e stile come dalla distinzione tra buono e cattivo gusto. Un pittore romantico cercherà di imprimere nello spazio pittorico un impeto emotivo attraverso l’articolazione delle forme, un impressionista coglierà ‘en plein air’ le forme vive delle sue vedute, un espressionista come Van Gogh farà fremere in un impeto i suoi girasoli o i campi di grano.
Questi artisti, al di là dei valori e delle tecniche contenute nelle loro opere, ci mostrano un mondo reale che vive davanti al loro sguardo e che essi trasmutano in immagini d’arte, il loro sguardo però resta sempre, in qualche modo, legato alla superficie dell’oggetto e dello spazio osservato. Mentre la visione metafisica, anche se ci mostra un mondo rappresentato in maniera ancora più reale di quello dato dalle rappresentazioni dei pittori sopracitati, questa, svuota, spoglia tutto lo spazio rappresentativo da ciò che è riconducibile alla dimensione umana. Lo sguardo dell’artista, in questo caso, quello di De Chirico, penetra in quella crosta concettuale che ha sempre relegato lo spazio e le cose a funzioni e finalità che sono proprie dell’uomo.
L’azione che De Chirico compie nella visione metafisica è quella di liberare e svuotare le cose dallo spessore temporale, mettendone in luce la loro vera natura di cose, natura in cui presente, passato e futuro perdono di significato. Svuotato di senso logico, l’oggetto si carica di mistero e, allontanandosi da ogni memoria, sottolinea la sua atemporalità.
Dunque quello metafisico è uno spazio svelante il non senso, assenza totale di senso, e quindi enigma senza possibilità di soluzione. Enigma che De Chirico ci presenta in uno spazio atmosferico in cui la luce non è quella intesa in senso materiale dello spazio, bensì una luce occultante, che illumina e nello stesso tempo oscura l’avvio di quel qualcosa d’indefinito che sentiamo, ma che il nostro sguardo non riesce a localizzare in un punto preciso della superficie.
“ENIGMA DI UN POMERIGGIO D’AUTUNNO”
Firmato e datato in basso a destra: Giorgio De Chirico, 1910.
È il primo quadro autonomo rispetto ai precedenti schemi Böckliniani attraverso questo quadro che De Chirico scopre la pittura Metafìsica.
Nel racconto che De Chirico fa intorno al momento della rivelazione, sottolinea il suo stato depressivo dovuto alla lunga malattia intestinale “…tutto il mondo (scrive De Chirico) che mi circondava finanche il marmo degli edifici delle fontane mi sembravano convalescenti…”.
Continua poi nella descrizione della statua di Dante “…al centro della piazza si erge la statua di Dante vestita da una lunga tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo, coronato d’alloro pensosamente reclinato (…) il sole autunnale caldo e forte rischiarava la statua e la facciata della chiesa, allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente…” continua poi definendo questo momento enigmatico e misterioso. Quello che a noi interessa dell’ampio spazio che presenta piazza S. Croce, è la chiesa di stile gotico e la statua di Dante situata al centro della stessa piazza.
Dunque De Chirico nel 1910 trovandosi in questa piazza in uno stato particolarmente depressivo, osserva lo spazio circostante, ora qualunque sia stata la causa del superamento dello spazio reale che De Chirico psicologicamente attua, resta il fatto che egli arriva a vedere e poi dipingere qualcosa di diverso ma che allo stesso tempo somiglia allo spazio che lo circonda. Molto di questo momento sembrerebbe causato dallo stato psicofisico in cui De Chirico si trova al momento della visione, stato che in qualche modo lo ha allontanato dalla realtà e posto in quella condizione di smemoratezza in cui si perde il filo che conduce alla logica alla razionalità. In questa condizione De Chirico lascia che la realtà oggettiva della cultura classica (rappresentata dalla piazza) si perda nella sua contemplazione. C’è dunque, un risveglio dell’io reale attraverso l’io ideale, cioè De Chirico incontra se stesso e si sovrappone alla cultura classica (ne sono prova le iniziali sullo zoccolo che regge la statua).
Guardando con occhi nuovi cambia la veduta in visione, facendo dello spazio classico, uno spazio ellenico, in altre parole comprime lo spazio reale a un tempio greco e a una statua antica. La statua nella realtà volge le spalle alla chiesa, mentre nel dipinto appare quasi frontale alla chiesa, dico quasi, perché, la lieve inclinazione che troviamo sul dorso fa sembrare questa, cioè la statua, rivolta più verso la linea superiore del muro che unisce la chiesa all’edificio in ombra sulla destra, che non alla chiesa stessa. Non a caso sulla linea superiore del muro s’intravede il mare con un veliero, immagine questa tipicamente Nietzschiana dell’ignoto, dell’enigma, con cui si confronta il pensoso super-uomo.
Tornando propriamente all’iconografia della statua questa rimanda alla figura di Ulisse del famoso quadro di Böcklin, ‘Calipso e Ulisse’, in cui il personaggio avvolto nel peplo osserva e contempla l’infinito, il mare la via del ritorno, personaggio che a sua volta ha come modello il ‘Monaco in riva al mare’ di Friedrich. Lo stesso atteggiamento è riscontrabile in tutti i sensi nella trasformazione che De Chirico fa della statua di Dante, cioè questa nella sua posizione sembra essere più rivolta verso il veliero ed il mare che non verso la chiesa la quale nella facciata subisce una trasformazione molto più profonda della statua stessa e al suo posto compare una architettura stereotipata che rimanda all’architettura della pittura toscana del trecento e in particolare come Calvesi suggerisce ad un affresco di Giotto conservato appunto in S. Croce ‘Le stimmate di S. Francesco’.
L’edificio che De Chirico dipinge sembra essere un incrocio fra queste architetture trecentiste e il prospetto della chiesa stessa, mentre le colonne rimandano direttamente al tempio Greco. Sempre secondo il parere di Calvesi questa proiezione spazio temporale attuata da De Chirico (inconsciamente) nel passato non manca d’influenze esterne, cioè Calvesi sottolinea un articolo apparso il 22 settembre del 1910 sulla rivista ‘La voce’ in cui Ardengo Soffici invitava gli artisti del tempo a considerare la pittura antica dei `primitivi’ ed avvalersi della prospettiva psicologica anziché di quella geometrica. Invito che Calvesi vuole accolto da De Chirico, il quale prima ancora di sedersi a guardare la piazza, avesse visitato e guardato a lungo le pitture di Giotto conservate proprio in S. Croce, dalle quale restandone suggestionato, avrebbe spinto il suo pensiero al secolo di Giotto condizionandone poi la veduta.
Considerazioni probabilmente valide in quanto lo stesso De Chirico più avanti scriverà un suo articolo sul ‘Senso architettonico della pittura antica’ dove apprezzandone il valore dimostra una certa conoscenza in merito, apprezzamento che potrebbe suonare come conferma delle letture fatte nel periodo giovanile. Altri elementi iconografici che possono essere di rimando alla pittura del Trecento sono le due tende che chiudono le entrate della singolare architettura, la possiamo vedere sempre in S. Croce nella rappresentazione del ‘Banchetto di Erode’ affrescato da Giotto, nella `Cappella Peruzzi’ e in quello di Lorenzo Monaco al Louvre. L’atto di rievocare ricordi è un po’ come unire ciò che è separato dal tempo, lo stesso fa De Chirico attraverso un processo mentale, cioè lasciando emergere quella parte istintuale che ignora le esigenze della logica e ponendosi al di fuori del tempo, accosta nella visione spazi e tempi lontani a uno spazio e un tempo presente, accostamenti che danno alla composizione una dimensione diversa, di sogno.