Analisi di alcune opere metafisiche di De Chirico (XIII)

Ciò che vi propone la rubrica Al Nord della Polare, è una serie de pubblicazioni, le quali argomentano inizialmente intorno ai due termini quali sono “Spazio e Tempo”. Questi, nel susseguirsi delle pubblicazioni saranno applicati allo studio dell’arte pittorica, in particolare allo sviluppo artistico del 900, del quale sappiamo protagonisti diversi movimenti artistici. Accenneremo al carattere di molti confrontando le motivazioni, ma in particolare si darà maggior protagonismo all’opera metafisica, e quindi, al più grande Maestro del 900 Italiano. Vi invitiamo a seguire la lettura con dedicata attenzione, in quanto porta con se le premesse per capire l’arte e lo sviluppo di questa nel 900.


Francesco Santoro

“LA STATUA SILENZIOSA”

Alla fine del 1912 ecco apparire sulla superficie pittorica delle prime opere metafisiche, la statua di Arianna, che Nietzsche nei ‘Ditirambi di Dionisio’ rappresenta tormentata e disperata dall’abbandono di Teseo.

Per De Chirico, Arianna è l’incarnazione della parola di Nietzsche, e allo stesso tempo incarnazione di ragione ed immaginazione, di bellezza e d’istinto.

Già il solo titolo del quadro in questione, cioè ‘La statua silenziosa’ ci suggerisce un’atmosfera fatta di malinconici silenzi che avvolgono la figura di Arianna. Questa per la sua collocazione in primo piano ci appare una figura gigantesca che taglia diagonalmente con il profilo del corpo lo spazio pittorico, ed è proprio questo taglio diagonale che accresce quel senso di tensione già presente nel tema dell’attesa.

Per quanto riguarda l’iconografia oltre ai numerosi rimandi alla statuaria greca e ai repertori del tempo, come per esempio quello di Reinach, il modo di sbozzare la figura di Arianna sembra che De Chirico, come Calvesi suggerisce, si avvale di una stilizzazione larga massiccia che può trovare un precedente in immagini ‘gauguiniane’ ad esempio il ‘Bambino brettone nudo’ del Wolirof Richartz Museum di Colonia: benché qui intervenga a rinforzo quella che per Calvesi sembra essere un’inequivocabile suggestione picassiana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco dunque come un elemento iconografico quale è la statua di Arianna che con la sua presenza rimanda a un tempo e uno spazio passato, lontano, mitico, viene a rivivere in una rielaborazione se pur involontaria di una tecnica che chiama in causa un tempo presente. Infatti De Chirico in piena libertà e in virtù della sua formazione muove la sua ricerca recuperando e sommando tempi e spazi, opposti lontani fra loro. Modernità e classicità. Classicità che come abbiamo visto, riemerge durante il suo apprendistato giovanile nella città di Monaco risvegliando in lui il tempo della memoria dell’infanzia vissuta proprio nel regno della classicità, che ora si accavalla ad un modernismo unendo il mito all’attualità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accostamenti che possono muoverci nelle diverse direzioni come ad esempio succede nelle monumentali torri, le quali possono essere lette sia nel passato e precisamente nell’opera pittorica di Giotto e del Trecento in generale, sia nel tempo presente, e cioè come un potenziale eco alla Torre Eiffel, o come simbolo di elevazione spirituale, o come proiezione nel passato, giustappunto come vediamo nel quadro in questione, in cui questa, cioè la torre è posta su una pedana che proiettata verso il mare rievoca il lontano ricordo delle torri d’avvistamento o i fari che popolavano le coste dell’antica Grecia. Mentre nello sfondo il mare sottolinea il tema del viaggio che è strettamente legato e sovrappone per molti aspetti l’immagine di De Chirico a quella di Arianna. Primo fra tutti appunto il tema del viaggio poi il tema della malinconia che dirige lo sguardo di entrambi sulla linea dell’orizzonte a frugare, cercare l’uno un segno risolutore per l’enigma dell’esistenza, l’altra nella malinconica persistenza il sorgere di una vela di una nave con a bordo il suo amato eroe Teseo. Inoltre questo attendere si risolverà per entrambi nell’ebbrezza Dionisiaca. Infatti Arianna rappresenta il tramite enigmatico tra un primo momento di ricerca della conoscenza e un secondo di ebbrezza Dionisiaca.

È questa dunque, quasi un doppio di De Chirico essa appare un ritratto fondamentale per capire le opere di questi primi anni.

Arianna con la sua mitica storia rimanda al labirinto in quale diventa una chiave di lettura per la struttura pittorica e naturalmente per la ricerca iconografica del periodo. La scelta di questa figura non è casuale ma iconologicamente intenzionata. Arianna abbandonata al centro delle piazze vuote diventa oltre che chiave risolutrice, per l’enigma del labirinto un simbolo di solitudine.

Quello della solitudine, è un tema culturale tipico del tardo romantico, che esalta il modello nietzschiano del grande solitario.

Tema questo congeniale alla psicologia di De Chirico che fa corpo con la sua lettura del mondo come ‘museo di stranezze’ egli s’affaccia subito nella sua pittura con l’immagine di sculture solitarie che campeggiano nelle piazze deserte “…ogni opera d’arte profonda (scrive De Chirico) contiene due solitudini una che si potrebbe chiamare: solitudine plastica e che è quella della beatitudine contemplativa che ci da la geniale costruzione e combinazione delle forme (materie o elementi morti-vivi o vivi-morti) la seconda vita nelle nature-morte, natura morta presa nel senso non di oggetto pittorico ma di aspetto spettrale che potrebbe essere anche quello di una figura supposta vivente). La seconda solitudine sarebbe quella dei segni; solitudine eminentemente metafisica per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica di educazione visiva o psichica…”.

Ora la statua non è solo l’incarnazione di quell’aspetto spettrale ‘morto vivo’ (la realtà della statua in quanto figura di sogno è la persona vivente del “dio” scriveva Nietzsche) questa negli anni dell’avvio metafisico di De Chirico è spesso l’immagine di una derelitta simbolo dell’abbandono e della solitudine che congiunge all’infinito.

L’infinito è solo perché nulla l’uguaglia e l’accompagna salvo il sentimento dell’infinita solitudine e del destino. “Vorrei ad ogni costo essere sola disse la statua con lo sguardo colmo di eternità”.

I motivi della solitudine, della luce (mentale) come condanna all’isolamento del rapporto Dionisio-Arianna, come patetica aspirazione della luce al ristoro dell’ombra risposta a un ditirambo come questo dell’isolamento solare nella luce, sarebbe Arianna (…) “Chi all’infuori di me, sa che cosa è Arianna?(scrive Nietzsche) Mai finora qualcuno ha conosciuto la soluzione di tutti questi enigmi e dubito che qualcuno abbia mai anche solo visto degli enigmi in tutte queste cose.”.

È quasi certo che De Chirico da queste annotazioni trae ispirazione per le sue Arianne, o meglio derivazioni, suggestioni che deviano verso una poetica personale del mistero, dell’ignoto della solitudine universale, rimescolando i temi nietzschiani in una sintesi crea quella terribile lucidità finisce per contrapporre uno stato d’animo dell’indefinito, leggendo Nietzsche vale a dire attraverso le lenti del simbolismo.

 

 “LA STANCHEZZA DELL’INFINITO”

 Nell’elaborazione della superficie pittorica, De Chirico crea una continua tensione fra l’oggetto e lo spazio, fra il vuoto e il pieno, affidando al secondo, cioè al pieno un’azione frenante rispetto allo spazio vuoto, che agisce invece in senso opposto con un moto risucchiante che trascina in direzione della linea d’orizzonte.

Questo modo di organizzare lo spazio è visibile quasi in tutte le opere metafisiche, ma lo è in particolare a mio avviso nel quadro di cui proponiamo qui l’analisi, e cioè ‘La stanchezza dell’infinito’. Accentuazione che con molta probabilità è data dal particolare formato del quadro, lungo e stretto, cioè il formato stesso rimanda alla linea d’orizzonte. Come abbiamo modo divedere nel quadro, la linea dell’orizzonte è posta a tre quarti sopra la metà del supporto, cioè lo spazio del cielo è minimo rispetto allo spazio del piano ribaltato che invece si estende quasi per tutta la superficie pittorica, riducendo a una sottilissima striscia lo spazio del cielo che resta stretto fra la linea dell’orizzonte il prolungamento delle arcate e la parte terminale del supporto. Il piano di appoggio estendendosi come abbiamo detto per quasi tutta la superficie pittorica, si sviluppa in repentine prospettive in cui lo spazio infinito e sottolineato dalle minuscole figure che ne accrescono la vastità.

Osservando un tale spazio le linee proiettive ci inducono a percorrere (anche se solo con lo sguardo) la profondità contenuta e provando attraverso l’immaginazione a leggere questa immensa distesa come lunghezza percorribile vedremo come questa profondità esprima non solo l’idea dello spazio, ma anche quella del tempo ovvero la temporizzazione dello spazio.

Notiamo inoltre come lo spazio delle architetture poste ai lati svolgono una funzione che è quasi da quinta teatrale da schermo, da tenda, con assieme un duplice compito di mascheramento e di difesa. Mentre nelle avanguardie, come il cubismo, o nel futurismo tutto si svolge sul primo piano, nella pittura metafisica, la cosa decisiva l’evento, viene relegato spazialmente fuori campo e temporalmente nell’indeterminatezza del passato, o del futuro, adombrati negli opposti stati d’animo della nostalgia e del presagio. Anche la sorgente luminosa sta fuori campo, questa invade la scena con una esatta spartizione di luce e di ombra, si ha l’impressione che l’unica cosa abitata sia la profondità spaziale.

Tutto ciò che percorre la tensione dello spazio è orientato verso un al di là, dandoci l’impressione di un’azione di ‘scavalcamento’ senza che ciò si compia realmente.

Lo spazio nasce dal contrapporsi dei volumi costruiti nei contrasti chiaro scurali (pieno e vuoto) le masse semplificate (comunque cariche di energia) dai contorni netti si animano di drammaticità. Tutto contribuisce a creare una composizione statica, vibrante di intima tensione. Sono questi gli anni di Parigi nel quale si determina uno sviluppo di elementi tipicamente temporali, legati alla modernità che entra immediatamente in rapporto con gli elementi ricollegabili a uno spazio e un tempo che è della classicità. Appaiono infatti nel quadro elementi della modernità, in lontananza oltre le arcate e i portici vediamo l’intera scena attraversata da quel mezzo meccanico che è il treno, il quale con il suo fascino moderno (che non sfugge a De Chirico) rimanda al tempo presente. Mentre le torri svettanti e sempre imbandierate appaiono come un quinto punto cardinale per chi teme di smarrirsi nei labirintici spazi dechirichiani.

Anche in questo dipinto come negli altri, gli elementi iconografici come la statua o l’architettura rimandano al repertorio classico che abbonda nell’iconografia dechirichiana. Archi finti come quinte di teatro, dovendosene avvertire l’irrealtà, ma soprattutto deformati da uno sviluppo abnorme in lunghezza o in altezza di quel tanto che basta ad allineare le proporzioni.

Venendo in Italia De Chirico aveva conosciuto un altro volto del classicismo nella luce meridiana e nel rigore prospettico della pittura e dell’architettura umanistica. Nascono le ‘Piazze d’Italia’ ispirate paradossalmente ai principi stilistici della prospettiva (con funzioni rovesciate) quattrocentesca la quale imponendo il punto di vista unico e centrale, cioè immobile, scolla dal tempo lo spazio bloccandolo in una forma assoluta. De Chirico sospende deforma, e dissocia con accorgimenti sottili l’unità prospettica colorando di assurdo la trascendente elevazione dei modelli rinascimentali.

Sottratto a questa unità e a questo significato, lo spazio fisso e atemporale di De Chirico è scenario del nulla, costruzione del vuoto aberrante, uno spazio che non è più una realtà, ma una possibilità una dimensione dell’immaginario; sicché nell’arte la prospettiva non è più un mezzo per raffigurare lo spazio ma per inventare lo spazio come appunto vediamo nell’analisi prospettica che ora faremo del quadro in questione.

La qualità sognante e misteriosa che vive nella composizione la quale a prima vista appare strettamente realistica, è ottenuta mediante una deviazione delle regole prospettiche consuete. La composizione nel suo insieme è disegnata in prospettive centrale, mentre la statua giace sopra un cubo tracciato secondo il sistema isometrico.

È in seguito al conflitto dei due sistemi spaziali tra di loro incompatibili che la statua sembra una apparizione proiettata sul terreno piuttosto che appoggiata materialmente su di esso.

Al tempo stesso il piedistallo della statua con la sua struttura più semplice e più coercitiva tende a far apparire le linee convergenti come effettive distorsioni piuttosto che come proiezioni di parallele retrocedenti.

La composizione non ha molta forza per poter resistere a un simile ‘attacco’ perché è carica di contraddizioni interne: i lati del quadrato s’incontrano molto al di sopra dell’orizzonte in A; in tal modo si danno due possibilità: o il mondo cessa all’improvviso e ha inizio un universo vuoto al di là della piccola ferrovia e della torre poste nel fondo oppure, se si accetta il fondo del dipinto come orizzonte, il quadrato che dovrebbe convergere in quel punto appare come incredibilmente stirato da un lato: estensione magica, creata dove nessuno potrebbe venirsi a trovare e perciò tanto più deserta. Di conseguenza le due colonnate sembrano essere state separate da un piatto abisso. Oppure se l’occhio accetta la forma del quadro, i colonnati che vengono a convergere in punti che si trovano al margine superiore del dipinto, o poco al di sopra di esso (B, C) si accorciano in maniera paradossale, mentre sembrano del tutto normali se osservati isolatamente dal resto della composizione, ad eccezione dell’arco posto frontalmente all’estrema sinistra che, stranamente si adatta alla fuga della facciata retrocedente. Infine l’ombra del colonnato di destra determina altri due punti di fuga (D, E), incompatibili con gli altri; in questo modo numerose incoerenze inerenti al dipinto valgono a creare un mondo che sembra tangibile ma irreale al tempo stesso, che muta di forma a seconda di dove lo guardiamo e di quale elemento accettiamo come base del nostro giudizio complessivo.