Monsieur Paul Gauguin, agente di borsa. Un grosso reddito: fino a 40.000 franchi in un anno (e franchi del 1880, cioè molti milioni di oggi). Una giovane moglie, Mette Sophie Gad, danese, e cinque figli. A far gustare fino in fondo questo ottimo successo borghese c’è persino il ricordo degli anni giovanili. La luce diversa ed esaltante del Perù, dove la sua famiglia era emigrata da Parigi nel 1851 (e le incerte notizie affascinanti sugli antenati di sua madre, vice re in quella nazione centinaia di anni prima). E poi i viaggi in marina, e tutti i paesi stranieri conosciuti, dal Brasile alla Scandinavia. Dall’avventura all’agio di una sistemazione tranquilla.
Un quadro perfetto, se aggiungete l’atmosfera sontuosa di una Parigi verso la fine del secolo, dove, malgrado tutti i sussulti della storia, una borghesia tra le più ricche del mondo sembrava celebrare sicura i suoi opulenti trionfi. Ma Monsieur Gauguin pensa anche ad altro. C’è ancora qualcosa nella sua vita. Qualcosa di cui non può certo parlare con i colleghi d’ufficio, e tanto meno in casa, con la moglie graziosa e pacifica. Pensa alla pittura. Monsieur Paul Gauguin è un “pittore della domenica”. Potrebbe essere un episodio minore della sua vita.
Un esercizio utile per distendere i nervi, o per dimostrare una certa superiorità di interessi culturali. Una faccenda persino un po’ ridicola… Lui, che la domenica smette i suoi decorosi vestiti da ricco bancario, indossa abiti più comodi e magari un po’ all’artista, ed esce presto la mattina, con la cassetta dei colori sottobraccio per incontrarsi con un amico e andare insieme in campagna a dipingere coscienziosamente qualche paesaggio, appunto, “pittoresco”. Quasi un racconto di Maupassant, tra ironico e amaro. Ma non è cosi. Gauguin sta maturando la sua autentica vocazione. Sta scoprendo il proprio destino. A poco a poco capisce che non potrà continuare a vivere se non dipingendo. E, quando ne è sicuro, si decide, bruscamente. Ha paura che ogni compromesso lo privi della parte migliore di se stesso. Nel gennaio del 1883 dà le dimissioni dalla banca. D’ora in poi farà soltanto il pittore. Probabilmente i colleghi d’ufficio ne avranno parlato a lungo, tra una pratica e l’altra. Avranno sorriso. Gli avranno dato del matto. “Con una posizione come la sua… E alla sua età!…”. Ma il peggio è in famiglia. Per Mette è una catastrofe. La vita così piacevolmente organizzata che aveva vissuto per anni va in pezzi, di colpo. La rispettabilità, la tranquillità, i grossi assegni alla fine del mese, tutto finito. Si sente ingannata, truffata. E subito, da buona moglie, cerca di aiutare il marito a dimenticare quella “pazzia”. Tra i suoi lamentosi rimproveri, e la sdegnosa decisione del marito, la convivenza non può durare. Mette torna dalla madre, con i figli. Gauguin la accompagna, ma dopo poco lascia la Danimarca e ritorna a Parigi. È solo, con la sua pittura.
Sono anni terribili. Fame e miseria. Per tirare avanti arriva a far l’attacchino, a tre franchi e cinquanta al giorno. Ma il suo lavoro di pittore continua, accanito. Si sente preso da una specie di intolleranza per la città. Non solo per il paesaggio urbano, che gli sembra privo di luce e di vera animazione, ma per un modo di vivere. Si può dire che in tutte le successive peregrinazioni Gauguin non cercherà soltanto una natura più aperta, ma anche una più vera libertà morale. Nel 1896 passa parecchi mesi a Pont-Aven, in Bretagna. Nell’anno successivo, parte per Panama e la Martinica, assieme al pittore Laval. Gli antichi ricordi di viaggio si mescolano alla sua nuova ansiosa ricerca di un mondo più intenso e più violentemente umano.
È costretto a tornare a Parigi da una lunga malattia. Ma non si ferma. Nel 1888 e a Pont-Aven, in Bretagna. La sua pittura è maturata, il suo stile si fa preciso e personale. La luce vibrante, il panico piacere che alimentano la pittura impressionista non fanno per lui.
Gauguin punta a qualcos’altro. Ad una oggettività delle strutture e delle immagini che rappresenti in modo immediato il peso e il valore della sua visione. Ad una effusione egli vuole opporre una concentrazione. Ad una dinamica lirica una dinamica narrativa. Questo è il senso più essenziale della sua pittura. Una ostinata preoccupazione di “raccontare”, di rappresentare in una inequivocabile sintesi delle forme e del colore una situazione umana bloccata dalla sua invenzione. La sua reazione al naturalismo impressionistico non è certo una rinuncia al reale. E tanto meno si può parlare di una aspirazione verso una semplicistica meccanica di simboli.
Quello che gli sta a cuore è proprio il racconto appassionato di una realtà umana potentemente “isolata” nelle sue immagini perché più liberamente si possa dispiegarne la libertà incorrotta e originaria. Dopo i giorni di Pont-Aven, arrivano quelli di Arles. Nell’aria e nella luce limpide e dure della Provenza egli cerca ancora una volta l’immagine naturale più naturalmente in accordo con la sua visione. E qui avviene il burrascoso incontro con Van Gogh. Entrambi sono bruciati dalla stessa passione. Ma è come se i loro temperamenti fossero troppo violenti per resistere assieme. La notte di Natale del 1888 hanno un litigio. Il giorno dopo Van Gogh si avvicina a Gauguin con un rasoio in mano. Sta per avventarglisi contro ma poi, bruscamente, si volta e fugge. Rientra in casa e si taglia un orecchio. Lo avvolge in un pezzo di carta e lo manda ad una prostituta. Gauguin, sconvolto, torna a Parigi. La sua fama di pittore è ormai sicura.
Già a Pont-Aven era circondato da un gruppo di pittori che lo ammiravano e lo riconoscevano come maestro. Ora, a Parigi, il suo lavoro è seguito con estremo interesse da artisti come Bonnard, Vuillard, Rédon, Denis. Mallarmé parla di lui in modo estremamente lusinghiero. Potrebbe essere il punto d’arrivo. E non più in una sistemazione borghese, piena di compromessi. Potrebbe veramente dedicarsi alla sua pittura, coltivare il successo, lavorare con tranquillità in un ambiente che lo capisce e lo stima. Ma la sua drammatica moralità gli suscita dentro una insofferenza cui non può resistere, Nel 1891 una sua mostra all’Hôtel Drouot riporta un ottimo successo di vendite. Con il denaro ricavato Gauguin parte per Tahiti.
Inizia cosi l’ultimo periodo della vita di Gauguin. Anni di lavoro intenso, quasi febbrile, trascorsi quasi tutti nelle isole del Pacifico, salvo una breve pausa a Parigi. E, ancora una volta, Gauguin deve lottare contro tutte le avversità di una vita difficile, contro l’ostilità di gente che non lo capisce. È guardato con sospetto dai bianchi che non riescono a capire il suo amore per gli indigeni. Arrivano a processarlo. E la mancanza di soldi lo costringe alle stesse privazioni che aveva sopportato agli inizi della sua carriera di pittore. Eppure è proprio in quegli anni e in quelle condizioni che Gauguin dipinge i suoi capolavori. Malgrado tutte le avversità, qui egli vive in un mondo che sente di possedere fino in fondo, in un mondo che gli apre davanti i suoi tesori, la sua semplicità, la sua libertà naturale.
Una vita, come egli stesso scrive “libera, aperta e nello stesso tempo intima; con le donne che si parlano sottovoce nell’immensa casa della natura in mezzo all’infinita ricchezza di Tahiti: e da ogni parte i colori favolosi, e questa aria di fuoco, pura e immobile nel silenzio”. In un mondo come questo, sognato e cercato per tutta la sua vita e in tutta la sua pittura, Gauguin muore l’8 maggio 1903.
Non si può capire l’opera di Paul Gauguin se si tenta di decifrarla con un arido sistema di calcoli formalistici. Alla base di tutta la sua arte c’è il disaccordo prepotente, naturale, insormontabile con una società ed un mondo inariditi e corrotti. L’unica soluzione, per lui, è quella di cercare altrove le immagini di una vitalità più vera, dove i valori originari dell’umanità possano affermarsi ed espandersi in una naturalezza senza compromessi. Il viaggio a Tahiti è per lui la ricerca disperata di una realtà che dia corpo a tutte le sue immaginazioni. Aveva bisogno di riconoscere concretamente la forma dei suoi sogni. Non era una impresa facile. Le sue lettere dalle isole sono piene di amarezza, di preoccupazioni, di pentimenti, anche. “Che assurda, triste e brutta avventura il mio viaggio a Tahiti!”, scrive nel settembre del 1897. La solitudine gli pesa, le preoccupazioni lo distraggono dal lavoro. Eppure insiste, fino alla fine. Come se il ritornare definitivamente a Parigi volesse dire arrendersi, riconoscere l’irrealtà di tutta la sua ostinata fiducia.
È pericoloso credere di risolvere tutta la pittura di Gauguin in un gusto per il primitivismo. O meglio, bisogna chiarire questo termine. Gauguin non è l’artista che rappresenta una società estenuata nella propria raffinatezza, costretta a cercare altrove e lontano nuove sollecitazioni per la sua sensibilità ormai ottusa, fino ad abbandonarsi a un barbarismo eccitante proprio perché completamente contrastante, Gauguin vede nelle immagini di un mondo primitivo la verità più spontanea della condizione umana. Il suo ostinato rifiuto per un naturalismo compiaciuto ed edonistico è il segno della sua ansia per una vitalità che possa esistere in una fusione intima e originaria con la natura. E la prepotenza delle luci e dei colori nelle isole del sud formava per lui lo scenario più adatto per questa completa fusione. In quel ambiente, la sensualità vitale dei suoi personaggi si configurava e gli appariva come l’immagine più concreta e immediata della libertà di vivere. “Quando gli uomini capiranno il senso della parola libertà? “, doveva scrivere un anno prima di morire.
Il culto per il primitivo non era dunque nel suo caso la resa alle facili suggestioni di un esotismo fantasioso e pittoresco. In un mondo primitivo e nella sua rappresentazione appassionata Gauguin cercava la forza e la limpidità dell’innocenza. E per meglio capire che cosa significasse il concetto di primitivo per lui è utile ricordare quanto egli scrisse su un quadro di Giotto: “Davanti a questa tela mi vedo in lui, l’uomo moderno, a ragionare delle emozioni o della natura, lo vedo sorridere pieno di pace, soddisfatto… Ci vedo una bontà e un amore divini. Vorrei passare una vita intera in mezzo a cose tanto pure…”
Dal cubismo in poi la più autentica corrente della pittura contemporanea doveva, è vero, ispirarsi ad altri esempi diretti. E primo fra tutti all’impegn0 di Cézanne, con il suo ‘accanito lavoro per una nuova strutturazione dell’immagine: che ne costituisse un nuovo, complesso significato. Ma l’opera di Gauguin non poté non dare alle nuove generazioni la suggestione profonda della sua intensità emozionale, del suo rifiuto per ogni verismo superficiale e soddisfatto. Elementi che avrebbero poi avuto il loro sviluppo nel fauvismo e nell’espressionismo, che sostanzialmente ripropongono proprio una accesa celebrazione della vitalità dei sensi e una decisa protesta contro un modo di vita fondato sulla negazione della libertà.
Francesco Santoro