L’artista: istrumenti e tecniche per la pittura

Lorenzetti: La presentazione (dettaglio)
Ambrogio Lorenzetti. Particolare della « Presen­tazione al Tempio »


Francesco Santoro

Avete mai pensato che dipingere sia una cosa strana e fuori del naturale? Guar­diamo il pittore: un essere, come tanti, creato dalla pol­vere, prende polveri di vario colore e con queste crea qualche cosa di distinto da se stesso e che, cosa ancor più strana, non sem­bra avere utilità pratica. Da tempi immemo­rabili l’uomo si è affannato a ricercare quelle particelle colorate — le crete colorate, l’ocra, la terra di Siena — che gli danno i colori di cui sono fatti i dipinti, sostanze che chiamiamo pigmenti.

Gli artisti di tutti i paesi hanno sem­pre tentato di ampliare questa gamma piuttosto limitata di pigmenti naturali: il lapislazzulo, una pietra semipreziosa macinata, ha dato al pittore l’oltremare che significa, letteralmente: «il colore che deve essere portato da oltre mare»; un particolare frutto di mare ha dato la preziosa porpora con cui i romani tingevano le vesti degli imperatori e che al tempo dei cristiani è diventato il colore aulico dei car­dinali della Chiesa; si ricercavano anche le ossa delle mummie egiziane per trarne un al­tro pigmento, un nero caldo chiamato «mum­mia».

Fu impiegato l’ossido verde del bronzo ed il suo nome indica che originalmente signi­ficava «verde della Grecia» ; gli artisti me­dioevali hanno dipinto pomposamente con quel­lo che onestamente credevano essere sangue di drago, un pigmento tratto in realtà dalla radice di un arbusto dell’India.

I pigmenti sintetici sono, in certo senso, dei nuovi venuti, dato che non sono comparsi pri­ma del XVIII secolo. Hanno arricchito la ta­volozza dell’artista, ma in molti casi, data la loro instabilità, sono diventati un regalo da prendere con riserva: e i pittori moderni riman­gono ancora legati, in gran parte, agli stessi pigmenti che adoperavano gli antichi maestri; e qui sarebbe interessante parlare di come i moderni, affidatosi all’esperienza tradizionale, abbiano potuto occuparsi dei rimandi culturali e non della materia in se.

Naturalmente non bastano i pigmenti per fare un dipinto: è necessaria una superficie adeguata, che può andare da quella preferita dai primitivi, la parete di una caverna, alla tavola di legno, alla tela, ai pannelli etc.

Per applicare i pigmenti alla superficie, il pittore deve amalgamarli con del liquido (il cosiddetto «medium» o «veicolo») che fa ade­rire il pigmento alla superficie il più possibile. Come per i pig­menti, anche la maggior parte dei medium che si sono sempre usati, sono di scena ancora oggi. In linea di massima troveremo che l’artista sceglie o un mezzo acquoso, che deposita sulla superficie il pigmento come un colore chiaro, nitido e secco; oppure un mezzo oleoso che darà alla superficie dipinta un aspet­to ricco, trasparente, lucente e umido.

L’arti­sta, inoltre, ha bisogno di uno strumento per dipingere: come la mano stessa, una paletta, il pennello o altro utile a trasferire il colore sul supporto. L’artista, però, ha soprattutto bisogno di una visione interna, di un’idea che guidi la mano che adopera pig­menti, medium, superfici e strumenti.

Senza i mezzi materiali, tuttavia, e senza la capacità di adoperarli, l’artista sarebbe perso, come un musicista privo di strumenti musicali e della tecnica necessaria per adoperarli. Fa­mosi capolavori sembrano talvolta così «facili da farsi» che se ne prova quasi un trauma quando ci si rende conto che sono potuti venire alla luce soltanto con un faticoso, laborioso, maneggiare i pigmenti e i medium.

Tanto i geni, quanto i pittori minori e persino «l’artista della domenica» sanno fin troppo bene con quanta fatica, talvolta perfino con quanta malizia, la materia prima della pittura resista alle loro migliori intenzioni. Quando ci rendiamo conto di ciò, di­venta chiaro che qualsiasi dipinto (qualsiasi opera d’arte, per essere esatti) è in realtà il risultato di una sorta di lotta fra la volontà creativa dell’artista e i limiti della materia.

In certo senso noi stessi diventiamo degli arti­sti quando studiamo con cura un dipinto; il piacere che ne traiamo è, perlomeno in parte, un atto di ricreazione artistica. Quanto meglio possiamo comprendere ciò che l’artista voleva dire, se conosciamo i mezzi con cui l’ha detto!

In alcuni grandi artisti, le idee complesse sono espresse con tecnica altrettanto comples­sa. Eppure, grandi idee artistiche possono ugual­mente manifestarsi con tecnica semplice e perfino istintiva. Un dipinto ci lascia freddi, nonostante il suo virtuosismo tecnico, quando questo virtuosismo si presenta fine a se stesso — se, cioè, ci rendiamo conto che l’artista è diventato schiavo dei trucchi tecnici.

Sandro Botticelli, «Nascita di Ve­nere» 1485. Un esempio della tecnica asciutta, lineare e brillante della tempera a olio preferita dagli artisti del Rinascimento.

La grande tela di Sandro Botticelli «La na­scita di Venere» è un meraviglioso esempio di maestria tecnica secca, armoniosamente combinata. Rappresenta Venere, la dea pagana, come por­tatrice di nuova speranza per l’umanità: sorta dal suo elemento, il mare, è sospinta verso le sponde della sua isola. Dei e spiriti che esisto­no solo nella fantasia dell’uomo sono qui fatti «reali», attraverso il potere persuasivo di li­nee e di forme precise. Soltanto la tecnica sec­ca, brillante della tempera poteva rendere con tanta perfezione l’idea di Botticelli.

La tempera, come era adoperata ai tempi del­l’autore, era essenzialmente un colore ad acqua. I pigmenti venivano amalgamati con un medium di acqua e bianco d’uovo che fungeva da medium e asciugandosi, for­mava una pellicola sottile e resistente. Questa, a differenza dell’olio, non ingiallisce con il tem­po. Sempre a quell’epoca — al secolo quindi­cesimo, — i dipinti venivano eseguiti di solito su pannelli di legno: «La nascita di Venere» per contro, è su tela, il che fa supporre che sia stata eseguita per uno scopo occasionale, come le feste all’aperto che venivano date nei giardini dei ricchi fiorentini. I dipinti su tela, infatti, servivano soprattutto, a quell’epoca, per avvenimenti splendidi ma di breve durata, co­me grandi feste, parate, processioni.

 

Jan van Eyck: « Ritratto di uomo in turbante rosso », 1933, Londra, National Gallery. La tecnica tempera-a-olio è ricca, complessa, e richiede tempo e fatica come lo sviluppo stesso della personalità. Dipinto su legno coperto da un fondo di gesso.

 

Particolare del precedente ritratto di Van Eyck

Guardiamo adesso un dipinto fiammingo dello stesso secolo, ma più vecchio di un paio di ge­nerazioni: il bellissimo, inquietante volto del «Ritratto di uomo in turbante rosso» di Jan van Eyck. Qui ci troviamo di fronte ad un uomo che può avere quarantacinque anni: uomo maturo, sicuro di sé, un osservatore penetran­te del mondo che lo circonda.

Quella sua bar­ba di due giorni è nitida e irsuta oggi come lo era quando il dipinto fu creato. Eppure, men­tre la realtà dell’individuo ci viene imposta in modo così tangibile, prendiamo allo stesso tempo coscienza di qualità assai più profonde di quelle accidentali dell’apparenza esteriore. In contrapposizione alla linearità, alla precisione e alla freddezza di Botticelli, la tecnica di Jan van Eyck è ricca e complessa, lenta e labo­riosa come il costituirsi stesso della personalità. I suoi contemporanei credevano che Jan van Eyck fosse l’inventore della pittura ad olio: e fu infatti autore eccellente in questa tecni­ca, che anche il più dotato dei suoi successori, per quanto si industriasse, non riuscì ad egua­gliarne la luminosità e la profondità miracolosa.

Non conosciamo tutti i dettagli della tecnica di van Eyck, ma le caratteristiche principali possono così identificarsi: l’artista sceglie un pannello di legno, preferibilmente di quercia, ben stagionato per evitare che si deformi. Pri­ma di stendere i colori, il pannello va coperto con un fondo bianco costituito sostanzialmente da gesso morto amalgamato con acqua e colla elastica. Una volta asciutto il fondo di gesso viene grattato e lucidato fino a renderlo liscio come l’avorio. In seguito si svilupperanno preparazione diverse secondo il fine che l’artista si proponeva.

A questo punto incomincia l’opera di pittura vera e propria. In primo luogo l’artista traccia il disegno con cura meticolosa su un foglio di carta o pergamena: la composizione esaurien­temente elaborata (nel caso del nostro pannel­lo, il disegno preciso del viso, del turbante, delle spalle ecc.) viene quindi trasferita sul preparato di gesso. L’artista incomincia quindi a coprire tutte le zone d’ombra con dei grigi chiari.

Il risultato di questa «prima mano» è visibile specialmente intorno al naso, bocca e guance. Senza dubbio qui van Eyck si è servito di un qualche tipo di tempera, perché nessun altro medium permette una tale precisione. Il di­pinto, tuttavia, ha anche una trasparenza, una luminosità interna che può paragonarsi soltan­to alle vetrate dipinte. E questo risultato non può ottenersi con la sola tempera.

Il viso che emerge dall’oscurità ambientale dello sfondo, rivolto verso la luce, deve essere stato lavo­rato con un qualche medium oleoso. A differen­za dell’acqua, gli olii vegetali (olio di lino, di noce o di papavero) impiegati in pit­tura non evaporano: si solidificano in una so­stanza gommosa che, anche quando completamente asciutta, rimane lucida e trasparente. Nelle zone chiare del nostro dipinto il bian­core dello sfondo di gesso traluce attraverso gli strati sottili di olio che vi sono stati so­vrapposti.

Se osservate un dipinto fiammingo di questo periodo a luce radente scorgerete subito delle zone in rilievo (come i vestiti, le maniche e l’acconciatura) in contrasto con i colori dell’in­carnato e dello sfondo. Ne ricaviamo che questi rilievi sono stati «costruiti» con la sovrappo­sizione di numerosi strati di olio. Lo strato di biacca, (ossido di zinco o di titanio simile al bianco di Spagna che veniva usato come preparazione sul legno e successivamente anche sulla tela), dunque, non co­stituiva soltanto una comoda superficie su cui stendere i colori, ma aveva anche un’utilità estetica.

Dobbiamo immaginare la magnifica tela di Botticelli esposta alla luce sfolgorante del sud; ed a questa contrapporre l’ambiente naturale delle opere di Jan van Eyck coperto dal cielo brumoso dell’Europa settentrionale. Qui un dipinto non poteva mai essere esposto en plein air ma andava piuttosto guardato al lume caldo e ondeggiante delle candele. Men­tre le opere dei maestri del Rinascimento pote­vano essere esposte di fronte ad una moltitudine di spettatori, dobbiamo supporre che il ritratto di Jan van Eyck si rivolgesse ad un ammiratore singolo, appassionato che poteva maneggiarlo e spostarlo sicché la luce ne penetrasse gli strati di colore fino allo sfondo bianco del gesso, traendone ogni più riposta lumi­nosità.

Il metodo graduale e accurato di Jan van Eyck, che contemplava un primo stadio per la composizione, un altro per la modellatura, altri; successivi per la stesura del colore, per la rifinitura dei particolari (come i capelli, i riflessi, i gioielli) ed una verniciatura uniforme come (presumibilmente) ultimo stadio, è l’estremo j prodotto di una tradizione tecnica raffinata che risale a tempi molto più antichi.

Se guardiamo per esempio il vecchio San Simone con il Cristo bambino in braccio, nella «Presentazione al Tempio» di Ambrogio Lorenzetti di circa un secolo antecedente a Jan van Eyck, individuiamo la tecnica semplice e razionale dalle tempere ad olio tipica del tardo medioevo italiano. Le zone di diverso colore venivano delimitate con linee precise. Volti, abiti, bordure, acconciature, barbe, altari e colonne venivano prima dipinte a strati sottili di olio, ogni oggetto con il proprio colore.

Le ombre venivano accentuate con un amalgama più pe­sante degli stessi pigmenti adoperati per il re­sto dell’oggetto. Successivamente il pittore passava ai suoi sottili pennelli da tempera, lavorando con tocchi delicati, tuttora individua­bili, sparsi come preziosa filigrana sull’intera superficie del dipinto. Osservate l’intricata rete di linee che sul fondo scuro costituiscono i fili bianchi della barba di Simeone, le rughe del volto, le palpebre e le ciglia, le labbra ecc.

 

Lorenzetti: La presentazione (dettaglio)
Ambrogio Lorenzetti, italiano. Particolare della « Presen­tazione al Tempio », 1342 . Pannello del tardo medioevo in cui è evidente l’uso della tempera su un fondo a olio.

A quell’epoca la tradizione aveva molto pe­so: secondo un’antica pratica, l’incarnato era prima dipinto con uno strato di verde oliva pesante su cui si stendevano poi i rosa e i bianchi opachi della tempera, che tentavano di rendere i colori naturali dell’incarnato uma­no. Anche in alcuni dipinti italiani di periodi molto posteriori potrete scorgere facilmente il sottofondo verde, specialmente nelle zone d’ombra delle guance e della mascella.

Jan van Eyck non fu dunque il primo a ser­virsi dell’olio: ne si può attribuire a lui solo il meticoloso procedimento di composizione del dipinto. Ma è facile costatare che con lui il medium dell’olio svolge una funzione nuova e di gran lunga più rilevante. Non è più un semplice ausilio alla tecnica tradizionale della tempera. Di lì a non molto avrebbe sostituito completamente la tempera.

L’emancipazione della pittura ad olio iniziò in Italia nel secolo sedicesimo, specie per ma­no dei grandi maestri veneziani, il Tiziano, il Veronese, il Tintoretto. Da tempo i pittori cer­cavano un medium che permettesse di espri­mere con maggior libertà e immediatezza le lo­ro creazioni.

Nell’interessantissimo dettaglio trat­to dallo sfondo dell’incompiuta «Adorazione dei Magi» di Leonardo da Vinci, dove si scor­ge la prima mano di tempera stesa in leggeri toni monocromi sulla biacca, vediamo il pen­nello adoperato con piena libertà. La pennel­lata di Leonardo scivola, qui, con rapido gioco lineare sulla superficie; là si cristallizza in con­torni nettissimi; qui ancora si espande a co­prire delle zone d’ombra (come dietro lo schizzo del cavallo all’estrema sinistra, o sui gradini o nelle arcate e nei pilastri dell’edifi­cio retrostante le figure); o può concentrarsi su un solo punto come nell’accurato modellato della testa del cavallo in primo piano, dove, combinata con gli effetti di luce bianchi, rag­giunge risultati plastici elaboratissimi.

Qui, dunque, in uno stadio compositivo dell’opera che doveva essere semplicemente la struttura del dipinto vero e proprio, Leonardo è ov­viamente più avanti del suo tempo. Sembra che si compiaccia di una libertà di espressione che l’esecuzione finale del dipinto gli avrebbe ne­gata. Forse Leonardo ha perso interesse al­l’opera nel momento più felice!

 

Leonardo da Vinci. « L’adorazione dei Magi »,  1483. Particolare dell’opera incompiuta che presenta la prima stesura in leggera tempera mo­nocroma su fondo di gesso: esempio di un uso libe­rissimo del pennello.

Ma dobbiamo costatare che la tempera, sot­tile e asciutta, non può competere con la quasi infinita flessibilità della pittura a olio. Quello che affascina nel dipinto incompiuto di Leo­nardo è la lotta fra lo spirito liberamente crea­tore e la disciplina che gli impone il medium tradizionale. Nei periodi seguenti sia la liber­tà sia il rispetto della tradizione trovarono ap­passionati difensori. Ma osserveremo che, in complesso, nella seconda metà del secolo sedi­cesimo, il giustificato orgoglio dell’artista di considerare la pittura come una nobile arte da tramandare di maestro in discepolo; cede gradatamente il passo all’orgoglio dell’artista di considerare la pittura come un dono raro che il cielo concede soltanto ai geni.

 

Peter Paul Rubens, fiammingo. “Prometeo” Schizzo di getto con strati leggeri a olio su fondo di gesso uniformemente trattato con ocra giallastra.

Un pittore più recente, come Peter Paul Ru­bens adopera sottili strati a olio su uno sfondo di biacca uniformemente trattato con ocra giallastra. Il dipinto di cui parliamo è stato fatto «alla prima» vale a dire in un sol tempo. Quello che in Leonardo era uno stadio preliminare della composizione qui diventa opera compiuta. Rubens lasciava alle mani dei suoi ben addestrati aiutanti il compito di dipingere enormi tele sulla base dei suoi bril­lanti schizzi.

L’artista si considera adesso li­bero di impiegare colori di grana fine e di ra­pida presa in enorme varietà di toni, impa­standoli mentre sono ancora molli e di pas­sare rapidamente e imprevedibilmente dalle lar­ghe pennellate a linee da punta secca. Qui la superficie è come sottilmente ruvida il cosiddetto «impasto» reso famoso dai grandi maestri veneziani e, dopo di loro, da Rubens e Rembrandt. Qui un maestro sicuro e capace proietta la sua visione con una immediatezza che ci dà la sensazione di vederlo all’opera.

Il fatto che questi schizzi preparatori siano stati conservati in gran numero dimostra che erano tenuti in gran conto anche all’epoca in cui furo­no eseguiti. Era giunto il tempo in cui gli ama­tori d’arte preferivano i dipinti dove si vede la «scrittura», del maestro.

In Italia, grazie alla gran luce dell’ambiente naturale, chiese e palazzi hanno finestre meno numerose e più piccole di quante ne abbiano di solito nelle altre regioni d’Europa, e presen­tano quindi più vaste superfici murate. L’affre­sco è la tecnica più frequente e più bella che sia stata impiegata per decorare i muri. Anzi­ché avere un pannello o una tela tesa sull’ap­posita struttura, l’artista si trova di fronte a superfici enormi.

Il materiale di fondo è l’in­tonaco fresco sul quale deve stendere colori ad acqua prima che asciughi. La tavolozza dell’affrescatore è rigorosamente limitata perché i pigmenti concessi devono essere tutte terre salvo eccezioni di pochi colori. Una ulteriore difficoltà è data dal fatto che i colori, quando sono freschi, si presentano assai diver­si da come saranno ad intonaco asciutto.

 

Michelangelo. Particolare della vergine nel «Giudizio Universale», 1510 ca.. Cappella Sistina in Vaticano. Esempio di affresco, ossia di pittura ad acqua su un fondo di intonaco fresco. Si distinguono chiaramente le pennellate brevi e possenti del modellato.

 

Sir Joshua Reynolds, inglese. «Madonna con bambino», seconda metà del XVIII secolo, USA Worcester Art Museum. Dipinto a olio su tela. Sia nelle parti finite sia in quelle schizzate è chiaro un adattamento della tecnica rinascimentale.

 

Michelangelo si è servito dell’affresco per i famosi dipinti sulle pareti e sul soffitto della Cappella Sistina a Roma. Il particolare che ri­produciamo, tratto dal Giudizio Universale mo­stra la Vergine che guarda pietosamente l’uma­nità ai piedi. A sinistra, sopra la spalla della Vergine, è visibile una linea che di pri­mo acchito, può sembrare una crepa della pa­rete: in realtà è il segno dell’intonaco fresco contro quello secco del giorno precedente. Si distinguono ancora oggi le rapide pennellate con cui Michelangelo ha modellato le figure. Anziché la sottile rete di linee che abbiamo visto nel dipinto di Lorenzetti, Michelangelo si serve di tocchi brevi e possenti, come colpi di scalpello, che hanno il solo scopo di deter­minare la profondità dei piani.

La meraviglia di questi affreschi, eseguiti a zone successive, unendo intonaco a intonaco, è che si fondono in una composizione unica, stupendamente ricca e armoniosa, quando sia­no guardati dal previsto punto di osservazione, cioè da terra. Si dice che Michelangelo si sia rifiutato di «finire» i suoi affreschi aggiungendo sulla superficie asciutta le rifiniture a tempera, perché andava fiero dell’immediatezza i suo istinto artistico.

Nei secoli diciassettesimo e diciottesimo la tecnica pittorica offre poco di nuovo. Possiamo parlare di decadenza e di affidamento, e spesso (naturalmente da un punto di vista strettamente tecnico) troviamo l’una e l’altro insieme. Sir Joshua Reynolds (1723-1792) presidente del Royal Academy, era un personaggio enorme ai suoi tempi. Egli rimaneva profondamente radicato nella tradizione, come possiamo vedere esaminando la sua Madonna con bambino in olio su tela: ci rendiamo conto immediatamente che si tratta di tecnica rinascimentale adattata a gusti nuovi.

 

Jan Vermeer, olandese. « Fanciulla che legge una let­tera », 1656. Stilizzazione degli ele­menti naturali, come nelle zone di luce; i pigmenti non sono amalgamati ma sovrapposti in strati sottili.

Mentre in quest’opera Reynolds presenta tutta una raccolta di abili reminiscenze dei grandi maestri del passato, Jan Vermeer da Delft, vissuto un centinaio di anni prima, presenta il caso opposto. Questo è forse il migliore esempio di «pittore di pittura». La tecnica di Vermeer è cosa assolutamente personale. Il particolare «Fanciulla che legge una lettera» può, a prima vista, sembrare un ritratto fotografico molto studiato.

Ma per quanto attentamente Vermeer possa aver studiato il suo modello reale, il dipinto è tutto fuorché una copia anonima del naturale. Le luci, per esempio, sono rese con piccole «isole» di impasto che potete notare nelle pieghe delle maniche all’attacco i spalla e del polso, sulle nocche, e nell’elaborata acconciatura dei capelli, dove si riducono a gocce di luce che hanno la preziosità dello zecchino. Vermeer lavora con successivi strati (velature) di colore attentamente studiati, stendendo il blu sopra il giallo per ottenere il verde, il giallo sotto il rosso per renderlo luminoso, il bruno sul blu per ottenere il nero e così via.

 

Paul Cézanne, francese. « Ritratto di uomo in blu », 1887-88, USA, Buffalo, Collezione della signora Theodore G. Kenefìck. Gli oggetti sono ridotti alla loro forma geometrica più semplice.

Da Vermeer a Cézanne, che morì nel 1906, vi è un lasso di tempo enorme, eppure in Cézanne possiamo vedere l’evoluzione ultima di una tendenza rilevata in Vermeer. Nel suo «Ritratto di uomo in blu » il modello ha ancora le caratteristiche che permettono di riconoscervi la figura di un uomo: tuttavia è essenzialmente una lezione di semplicità. Troviamo in Cézanne una dignità ed una serenità degna di Vermeer. Ma mentre questi ha tradotto mondo visibile in forme di preziosa bellezza, Cézanne ha creato la bellezza riducendo gli oggetti alla loro forma geometrica più semplice: egli ha portato nella pittura la fine dell’illusione. Cézanne sta sulla soglia di un nuovo mondo in cui il culto della tecnica legata alla tradizione perde di considerazione.

 

Arthur G. Dove, statunitense. «Nonna». 1925, USA, New York, Museo d’Arte Moderna. Esempio di « colla­ge », fatto di foglie di legno, fiori secchi, « petit-point ».

Dal punto di vista dei mezzi e della tecnica l’arte contemporanea presenta un quadro estre­mamente vario e che va dagli esperimenti auda­ci all’assoluto sperimentalismo della tecnica. Questo fenomeno può considerarsi come espressione di un mondo in cui la fede nel «duraturo» è stata scossa da totali rovesciamenti tanto nel mondo fisico quanto in quello spirituale.

Il collage di Arthur Dove è un impasto di oggetti di diversa origine e consistenza, insieme con pezzi di carta stampata. Anziché rivolgersi agli antichi maestri, Dove ha trovato la sua ispirazione nelle raccolte di fotografie incollate che erano di moda negli album delle signore o degli innamorati. L’opera d’arte di Dove, consciamente o inconsciamente, è un’aperta rivolta sia contro le tecniche sia contro i concetti tra­dizionali della pittura. La cosa è implicita per­fino nel titolo del suo collage, «Nonna»: gli oggetti di cui si è servito per comporlo sono scelti con cura infinita e incollati tutti intorno ad un pezzo di petit-point.

Quello che a prima vista può apparire un’opera negativa, nata co­me protesta contro dei mezzi e delle tecniche che sembrano aver perso il loro significato e il loro scopo, può diventare il punto di partenza di una nuova tradizione e di una nuova discipli­na formale. Possiamo consolarci con le parole di Cézanne: «Tutto deve avere un principio: anche la tradizione.»

Oggi appena entrati nel terzo millennio, dobbiamo dunque pensare che se tutto ha un principio, tutto ha una fine, e dire che se la tradizione si chiuse con Cezanne, la modernità è spenta nelle ricerche affannose delle avanguardie, dalle quale non si sviluppa alcun principio!

Allora domandiamoci: Quale ruolo assume la pittura nei nostri giorni confusi? Serve ancora dipingere dopo aver accettato una banana attaccata al muro? Mia madre non era una artista, e attaccava al muro molte cose, tipo salami e utensili vari, è stata dunque una precursora del tempo di oggi? Un argomento che lascio per una prossima pubblicazione.

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