Cosa abbiamo sbagliato in Afghanistan

Cosa abbiamo sbagliato in Afghanistan
In foto i combattenti talebani che hanno preso il controllo del Palazzo Presidenziale (fonte immagine Il Giornale)

Al tipo di quesito proposto nel titolo, a dire la verità e con un pizzico di retorica, esistono due tipi di risposte. Identiche. La prima si potrebbe riassumere semplicemente in una sola, scontatissima, parola: tutto. L’occidente ha sbagliato tutto ciò che si poteva sbagliare in Afghanistan. In circa vent’anni, la grande coalizione guidata dagli Stati Uniti non è riuscita a indebolire i talebani, a dare un governo stabile al Paese e soprattutto a imprimergli un’impronta moderna attraverso la costruzione di infrastrutture. Questa sarebbe la risposta breve. Per i più temerari, cioè per coloro che preferiscono puntare sull’approfondimento, esiste anche una seconda risposta al quesito, più lunga e complessa.

Quella in Afghanistan è stata una sconfitta annunciata. La gestione dell’intervento iniziò nel 2001, dopo il gravissimo attacco alle Torri Gemelle da parte dell’organizzazione terroristica nota come Al Qaeda. Quello fu l’inizio di una catastrofe nota come terrorismo di matrice islamica, il quale aveva dato qualche segnale di mobilitazione anni prima ma che mai ci sarebbe aspettati che avrebbe colpito il centro del mondo occidentale, gli Stati Uniti, rimasta la sola superpotenza dopo la vittoria nella Guerra fredda contro l’altro gigante uscito fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica. L’intervento militare, annunciato da Bush nel suo famoso discorso contro il terrorismo, quello in cui pronunciò queste parole: «Al Qaeda è in 68 Paesi e noi la inseguiremo dovunque. Dobbiamo eliminare il terrorismo dal mondo, lo dobbiamo ai nostri figli, alle generazioni future».

Dopo vent’anni, gli americani e gli europei lasciano il Paese da sconfitti mentre i talebani si riprendono il territorio e fanno conferenze stampa da quello stesso Palazzo presidenziale dove fino a poco tempo fa c’era un governo democratico.  La dipartita pone un grande problema di equilibrio all’interno della regione ma ciò che preoccupa, o dovrebbe preoccupare, gli occidentali è l’inesorabile penetrazione cinese in una delle regioni più ricche di risorse, minerali e terre rare del pianeta. Inoltre, l’Afghanistan è un crocevia fondamentale per il commercio orientale e l’unico avamposto americano in terra cinese. Infine, preoccupa anche la situazione dei diritti umani, con i talebani che, nonostante le flaccide promesse, hanno cominciato ad usare la violenza contro i civili. Di fronte a tutto questo, è possibile considerare la campagna d’Afghanistan come il più grande fallimento occidentale del 21° secolo?

Cosa abbiamo sbagliato?

Una delle domande più comuni sulla tragedia afgana riguarda la totale assenza di una qualsivoglia reazione militare da parte dell’esercito locale, l’Ana (Afghan National Army), e della polizia contro i talebani. Si parla di due forze che, sulla carta, dovrebbero contare circa 330mila uomini. La realtà è ben diversa. La costituzione dell’Ana e della polizia furono gestite male, costellate da una costante disorganizzazione e da elevatissimi tassi di abbandono del personale. Dei 330mila uomini paventati dai comandi locali, se ne contano, in realtà, circa 180mila, divisi in 7 corpi d’armata.

Anche qui c’è bisogno di fare una correzione numerica: i realmente operativi erano circa 30mila uomini, divisi tra commandos e forze speciali. Il resto dei soldati serviva soltanto per fare numero. Per non parlare della polizia afgana, raramente pagata e che si sentiva semplicemente “carne da cannone”.

Non c’è mai stato un comune senso di appartenenza anche per un altro motivo: l’Afghanistan è uno stato la cui popolazione non è soltanto divisa in regioni ma anche in tribù, in clan. Non esiste un comune senso di appartenenza nazionale tale da far superare le divisioni interne.

Gli americani hanno preferito ignorare questo aspetto accorpando soldati provenienti da diverse regioni senza dare loro un motivo valido affinché dovessero stare insieme. Alla luce di queste motivazioni, le defezioni non sono più così sorprendenti: una forza militare e una di polizia poco motivate, mal pagate (se pagate) e non disposte “a morire per Kabul”.

Per questo la maggior parte delle città afghane sono state prese dai talebani senza combattimenti, nonostante l’Ana avesse l’addestramento necessario e le armi per opporre una resistenza più che dignitosa. In molti hanno preferito scappare oppure passare al nemico.

E questo era soltanto l’esercito. Lo stato centrale afghano era molto inefficiente e corrotto. E soprattutto non era sentito dai cittadini. Una volta che gli occidentali hanno lasciato il Paese, il castello di carte non avrebbe mai potuto reggere. Si dice che il ritorno dei talebani non fosse mai stato messo in dubbio, tanto che coloro che non potevano lasciare il Paese preferivano avviare trattative con i taliban.

D’altronde, la democrazia non è mai stata compresa dagli afghani non per loro responsabilità, anzi. Per la nostra inefficienza. Gli americani sembrerebbero aver dimenticato la lezione del Piano Marshall: un Paese (o una regione) si ricostruisce ripartendo dall’economia, dalle infrastrutture e dalla scuola. Un Paese riparte dagli investimenti. Anche in questo caso si sono verificati episodi di defezione, come nel caso dei governatori provinciali – ad esempio quello di Ghazni – passati ai talebani per salvare la carriera.

La decisione americana, formalizzata da Donald Trump e attuata da Joe Biden, che ha portato gli americani a disimpegnarsi così velocemente, nonostante il lavoro di cancellazione del terrorismo estremista non fosse ancora concluso, ha peggiorato il clima di sfiducia generalizzato della popolazione. Gli accordi bilaterali di Doha, sono stati interpretati dai taliban come carta bianca per riprendersi il territorio.

L’Afghanistan, quindi, non è stato conquistato dai talebani ma perso dagli occidentali e gli afghani sono stati abbandonati dagli americani per motivi di politica interna, perché in campagna elettorale i presidenti promettevano di riportare a casa “i nostri ragazzi” senza curarsi delle conseguenze che un ritiro condotto senza cognizione di causa avrebbe prodotto tutto questo. E pazienza per i morti e le mastodontiche cifre spese per vent’anni di nulla.

A beneficiare dell’Afghanistan sono state soprattutto le grandi aziende di armi (quasi mezzo miliardo di dollari, di cui 9 guadagnati dalla “nostra” Leonardo) e le banche (570 miliardi di interessi sui prestiti).

L’uscita, a scanso di equivoci, era inevitabile ma andava sicuramente gestita meglio. Andava garantita, almeno per qualche anno, una vera copertura aerea per le operazioni dell’Ana e un presidio di forze sul campo che potessero logisticamente assistere gli afghani nelle operazioni sul territorio. Al contrario, si è scelto di lasciare il Paese di punto in bianco di abbandonare la popolazione al proprio destino.

Dopo l’Afghanistan sarà davvero difficile ricostruire la reputazione degli occidentali in Asia centrale e probabilmente nel resto del mondo. Un grande regalo ai rivali strategici degli americani, i quali nel criticare il modello esportato dagli Stati Uniti, presenteranno il loro come vincente e onesto.

Le mani della Cina sull’Afghanistan post-americano

I primi ad approfittare della dipartita degli americani sono stati i cinesi. A dire il vero, i contatti con i talebani sono stati avviati da Pechino circa 6 anni fa, nel 2015, e da allora si sono sempre più intensificati. La Cina aveva ben compreso che i taliban non sarebbero stati sconfitti dagli americani nemmeno dopo vent’anni di occupazione e ha deciso di correre ai ripari, prendendo contatti con le forze vincitrici. L’ultimo incontro in ordine temporale, almeno ufficialmente, risale al luglio scorso, a Doha.

Perché la Cina è interessata all’Afghanistan? I motivi sono molteplici. Il primo è geopolitico: i cinesi vedono con favore la diminuzione dell’influenza americana nella zona, soprattutto se può essere sostituita con quella loro. Inoltre la Cina punta a inglobare l’Afghanistan nella Nuova Via della Seta, il grande progetto di espansione geopolitica targato Pechino, dall’Asia all’Europa, passando per l’Africa. Si parla già di un’autostrada che dovrebbe collegare Kabul a Peshawar (Pakistan).

Ma i motivi non sono soltanto logistici o geopolitici. C’è tanto altro. L’Afghanistan è una pedina importantissima nella guerra commerciale e tecnologica in corso tra gli Stati Uniti e la Cina. Il Paese possiede una quantità rilevante di riserve di terre rare, cioè quegli elementi chimici fondamentali per la fabbricazione di apparecchiature tecnologiche, dai forni a microonde ai satelliti, passando per le armi. Questi elementi sono 17 e la Cina controlla circa l’80% delle terre rare mondiali, che si trovano soprattutto nel Sud America (triangolo Argentina, Bolivia e Cile). Assieme alle terre rare, l’Afghanistan possiede riserve notevoli di gas e pietre preziose.

Forse è questo uno dei punti più incomprensibili della strategia americana. Lasciare la Cina libera di penetrare in Asia centrale nella speranza che un giorno si scontri con la Russia è abbastanza grottesco. La Russia, e con lei l’Iran, hanno sempre mantenuto un atteggiamento pragmatico nei confronti dei talebani nonostante in passato abbiano sostenuto i ribelli del Nord.

Entrambi i Paesi non sceglieranno mai lo scontro con Pechino. E questo gli americani lo sanno. I russi hanno grosse difficoltà a contrastare la penetrazione cinese in Asia perché non ha le capacità economiche per farlo. Per gli iraniani vale lo stesso discorso se non in misura più rilevante, dati i problemi migratori legati all’esodo degli afgani, che scelgono Teheran come terra di passaggio.

L’unico Paese in grado di poter penetrare efficacemente nel territorio afghano è soltanto la Cina, la quale potrà assumere anche un ruolo di mediatrice tra le istanze russe e iraniane in Asia centrale, aumentando il suo potere contrattuale.

In qualunque modo la si veda, la strategia occidentale è stata un fallimento. Affidarsi al caos e alla speranza di condurre una guerra per procura, come in Libia, in Siria e Iraq è molto pericoloso al giorno d’oggi, soprattutto se ci sono potenze in grado di trasformare il tuo modo di condurre la politica estera in pubblicità positiva per il loro.

I cinesi non usano le armi, preferiscono il denaro. E con il denaro si costruiscono le infrastrutture, molto più apprezzate dalla popolazione civile rispetto alle bombe. L’Afghanistan è stato un esperimento fallimentare per diversi motivi, alcuni già scritti e altri confermati dalla storia.

Gli USA armarono e addestrarono i “mujaheddin” contro l’invasore sovietico, diffondendo nelle scuole libri sulla jihad, ideologia oggi respinta dagli occidentali ma che all’epoca tornò utile contro l’URSS. La situazione afghana, è inutile negarlo, nasce anche e soprattutto in relazione ai giochi di potere perpetrati dagli americani a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Talebani compresi.

Per vent’anni un Paese è stato occupato militarmente con il fine di eliminare la minaccia terroristica. L’esito è stato disastroso non solo dal punto di vista militare, ma anche sociale. L’Afghanistan è forse il simbolo più fulgido della superficialità occidentale, che favorisce l’economia sulla politica e che, di conseguenza, non riconosce più il valore della democrazia e non sa più farla apprezzare. Non è un caso che ad approfittarne sia proprio la Cina, dove la politica (e di conseguenza la diplomazia) è considerata di gran lunga più importante rispetto all’economia.

Donatello D’Andrea

Lascia un commento