Cosa sta succedendo in Libia e perché l’Italia rischia di soccombere

Un carro armato delle milizie di Al Serraj a Tripoli. Immagine d'archivio
Un carro armato delle milizie di Al Serraj a Tripoli. Immagine d'archivio. FOTO ANSA

La guerra in Libia, un conflitto che preso storicamente rimanderebbe allo scontro tra il Regno d’Italia e l’Impero Ottomano del 1912 ma che, in realtà, è qualcosa di più duraturo e molto più complesso. Siamo coinvolti, come sempre, e come tutte le faccende che riguardano il Mediterraneo. Rischiamo di soccombere a favore di altre nazioni, più giovani e agguerrite, in procinto di soffiarci quella posizione diplomatica che dalla Prima Repubblica ci appartiene di diritto.

L’Italia ha un problema con la politica estera e lo ha confermato in queste difficili settimane. I tentativi diplomatici di Giuseppe Conte di far incontrare Haftar e Al Serraj nel vano tentativo di interrompere un escalation di violenza che dura ormai dal 2014 e che si aggrava sempre di più, si sono rivelati goffi e fallimentari.

Da qualche mese la guerra sta attraversando la sua fase più violenta. I due schieramenti, quello del generale e quello del Presidente riconosciuto dall’ONU, hanno iniziato a fare ricorso alla manovalanza mercenaria, in particolare turca e russa, vista l’incapacità dell’Europa e degli Stati Uniti di trovare una soluzione internazionale. Nelle ultime settimane diversi governi stranieri si sono preoccupati delle condizioni dei combattimenti di Tripoli ma finora nessuno è riuscito a porre in essere una soluzione, nemmeno l’Italia che vantava dei buoni uffici nella sua ex colonia. Più e più volte è stato intimato il cessate il fuoco, l’ultimo proprio qualche giorno fa ma la situazione resta comunque instabile, con molteplici violazioni della tregua.

In questo frangente si collocano i tentavi dell’Italia di farsi garante della pace nella sua ex colonia. Attraverso l’inconcludente Conferenza di Berlino il governo ha cercato di porre sul tavolo la tragica situazione africana nel vano tentativo di trovare un appoggio diplomatico unitario che andasse oltre i classici e iniqui fiumi di parole. Inoltre, la presenza di Russia e Turchia, i quali nutrono interessi del tutto opposti rispetto a quelli prospettati a Berlino, rappresenta un’ulteriore fonte di preoccupazione per la diplomazia internazionale.

Cosa sta succedendo in Libia

Dal 4 aprile scorso è in atto una nuova offensiva in Libia che ha provocato più di duemila morti e oltre trecentomila sfollati. L’esercito guidato dal generale Khalifa Haftar ha più volte cercato di attaccare Tripoli, la capitale della Libia, dove ha sede il fragile governo riconosciuto dall’ONU e dall’Italia di Fayez Al Serraj. Più e più volte i governanti internazionali hanno cercato di intavolare delle trattative per giungere alla pace, senza successo. L’ultimo tentativo fu compiuto nel Novembre 2018, alla conferenza sulla Libia, da parte di Giuseppe Conte. Celebre, a questo proposito, la stretta di mano tra i due contendenti, la quale ricorda molto quella fra Bush e Putin ai tempi di Berlusconi. Tutta scena. Dal 4 Aprile 2019 la guerra è ricominciata e con sé porta distruzione e instabilità, condizioni che si riflettono sul Mediterraneo e l’Europa intera.

Dal mese di dicembre, con l’appoggio militare di Erdogan alle milizie di Al Serraj, la situazione geopolitica sembrerebbe essersi ancor di più radicalizzata. La politica di potenza perpetrata dalla Turchia, volta a consolidare una posizione che vada ben oltre all’esercitare una flebile influenza nel Mediterraneo Orientale, andando ad occupare anche le aree lasciate scoperte da Italia e Francia, potrebbe complicare la situazione internazionale con l’ingombrante presenza di un altro contendente malintenzionato.

Il conflitto civile si internazionalizza in modo definitivo: i Paesi dell’UE sono divisi, gli USA sonnecchiano e la Comunità Internazionale si limita ad emendare “cessate il fuoco” dallo scarso valore pratico. Nel frattempo Russia e Turchia si spartiscono la torta, fatta di gas naturale e petrolio, lasciando gli altri a bocca asciutta.

Un’Europa senza voce e martoriata dai “franchi tiratori”

La situazione è chiara: sul piano geopolitico internazionale, Bruxelles semplicemente ha smesso di esistere. Arriva sempre dopo, mai prima. E il fallimento delle missioni estere nei giorni in cui Erdogan “spediva” duemila mercenari siriani in Libia ne è la dimostrazione.

L’ambiguità statunitense e le rivalità intestine alle singole entità europee, come la Francia che appoggia indirettamente Haftar, stanno dando alla crisi libica la sua terza, preoccupante incarnazione: dopo la rivoluzione contro Gheddafi e lo spettro dell’ISIS, la guerra civile sta prendendo sempre più le fattezze di un conflitto stile “Siria”, dove diverse potenze si scontrano per mano di milizie mercenarie. E’ il caso del famigerato Wagner Group, organizzazione paramilitare russa già impegnata in Siria, Venezuela e Ucraina.

Il fallimento europeo sta nel permettere che due potenze ostili si scontrino sulla soglia di casa, e non solo. La legittimità continentale è stata disconosciuta dalle stesse forze in campo: Al Serraj ha rispedito al mittente la richiesta europea di intavolare delle trattative, per poi cedere nell’intraprendere degli inconcludenti incontri bilaterali e trilaterali, cercando di sfuggire a qualsiasi tipo di contatto con il suo rivale. Il disconoscimento di una missione diplomatica è un disconoscimento del tentativo europeo di mettere una pezza ad una situazione che sembrerebbe essere sfuggita di mano, prendendo una direzione del tutto diversa rispetto a quella tracciata a Bruxelles.

In Germania i ministri europei hanno ottenuto solamente parziali successi, vanificati dalla ripresa delle ostilità da parte delle milizie filo-turche. Inoltre, seppur sia stato consigliato di non vendere più armi ai contendenti, quindi un embargo, questo si dimostrò una pagliacciata già a partire dal 2011. Le armi rappresentano una grossa fonte di entrate, senza prevedere adeguate sanzioni questa misura si rivelerà sempre fallimentare. La Conferenza di Berlino e l’intervento dell’ONU potranno risolvere ben poco fin quando tutti gli Stati che vi hanno partecipato continueranno ad intrattenere interessi egoistici e controversi. Senza una politica estera comune, l’UE può fare ben poco. A nulla serve la figura dell’Alto Rappresentante se poi alla fine ogni singolo stato persegue un obiettivo diverso. Lo ha ammesso lo stesso Presidente di Commissione Ursula Von der Leyen: “E’ il Consiglio a doversi occupare della Libia, tramite i singoli stati membri”. Fin quando non verranno superate le divisioni inter-statali, l’Unione Europea continuerà ad essere un crogiolo di singole entità senza una voce comune.

In Libia c’è la Francia, che di europeo ha solo la sua posizione geografica. La solidarietà transalpina sta nel voler avere un piede in due scarpe: da un lato condanna le azioni violente di Haftar, irritandosi per il supporto turco alla causa dell’altro contendente, dall’altro invia consiglieri militari e agenti segreti per sostenere logisticamente lo stesso generale. C’è anche la Total, che coltiva i suoi interessi petroliferi, ma c’è anche la volontà di fermare il flusso di armi e finanziamenti verso gruppi ribelli in Niger, Ciad e Mali, dove i francesi sono presenti con missioni etichettate come “anti-terroristiche” ma in realtà attive per monitorare l’estrazione di diamanti e di altri metalli preziosi.

Il ruolo della Turchia e la geopolitica di Erdogan

In Libia, però, è arrivata anche la Turchia grazie al trattato concluso il 27 novembre scorso fra il Presidente turco Erdogan e quello libico Al Serraj. Questo ha permesso oggi alla Turchia di inviare truppe, regolari o meno, in Libia per il solo sostegno del Governo di accordo nazionale riconosciuto dall’ONU.

L’obiettivo dichiarato è quello di difendere la capitale Tripoli dalla minaccia di Khalifa Haftar. Una finalità strategica al quale la Turchia ha aderito a seguito dell’invito del Presidente Al Serraj.

Il piano geopolitico turco è quello di dare una diversa configurazione al Mediterraneo, uscendo dal guscio di quello orientale per affacciarsi a quello centrale, grazie alla dipartita estera dell’Italia, da sempre presente in Libia come garante degli interessi della regione africana ma recentemente spodestata dall’insensata e ingiustificata guerra del 2011.

Ovviamente, Putin ed Erdogan non hanno nessun interesse nel mettere fine alle guerra in corso, anzi. La destabilizzazione regionale risponde ad una sorta di “instabilità programmata”. La variabile è escludere ogni ingerenza europea dal Magreb.

E mentre la Russia si prepara ad investire nel bacino dell’oasi di Ghadames una cifra di 15 miliardi per l’estrazione di idrocarburi, la Turchia ha preparato per Al Serraj una serie di accordi per lo sfruttamento delle coste libiche, piene di petrolio.

Una politica estera chiara e decisa. Muoversi nel Mediterraneo Orientale, difendendo i suoi interessi particolari contro la Grecia e Cipro, e soffiare le nuove opportunità petrolifere nel Mare Nostrum all’addormentata Italia. La presenza in Libia, dunque, significa l’esclusione dell’Italia dal gioco libico con conseguente “tenaglia migratoria” su un altro fronte, quello nordafricano, dopo quello balcanico. L’Europa, e l’Italia, saranno oggetto continuo di minacce da parte di Istanbul.

Nel frattempo, si consuma la totale distruzione di una rete di relazioni internazionali tessute durante la Prima Repubblica e che la politica estera italiana degli ultimi vent’anni ha volutamente accantonato in favore di un totale asservimento agli USA. Mentre Erdogan tesse la sua tela geopolitica fra le coste cipriote e quelle libiche, anche con la forza, i Paesi occidentali concentrano la loro attenzione altrove.

Assieme a Tripoli, anche Tunisi è finita nell’orbita geopolitica di Istanbul e ciò fa pensare che il ruolo del Mar Mediterraneo sia tornato alla ribalta come scenario geo-strategico importante per una definizione di nuovi obiettivi economici che tagliano fuori i vecchi interpreti occidentali in favore di nuovi attori orientali.

L’Italia e un lento declino

Il principale problema è che, mentre il Mediterraneo rappresentava l’assoluta priorità durante la Guerra Fredda, per la Nato e per l’Europa ora, con la fine dello scontro bilaterale, è diventato un’area secondaria, dove operare con destabilizzazioni a lungo termine o lasciando campo ai nuovi operatori internazionali orientali. Gli europei, quindi, non sono stati esclusi dal gioco libico, si sono auto-esclusi a causa della loro supponenza, impreparazione e soprattutto ignoranza strategica.

Le carte geopolitiche sono state redistribuite. Nuovi attori internazionali si affacciano sul Mediterraneo, in sostituzione di un’Italia che almeno dalla fine degli anni ’80 non ha più una politica estera. Il simbolo del declino italiano è la figuraccia che il governo Conte ha rimediato col goffo tentativo di far incontrare Al Serraj e Haftar.

L’8 gennaio scorso, il Premier aveva incontrato a sorpresa Haftar a Palazzo Chigi in una visita durata tre ore. Durante l’incontro diverse fonti avevano fatto sapere che in serata Conte avrebbe visto anche Al Serraj, in arrivo da Bruxelles.

Sarebbe stato un segnale certamente positivo: dopo l’offensiva di primavera per il controllo di Tripoli, i due si sono giudicati più distanti che mai e ogni tentativo di mediazione era fallito. Nello stesso pomeriggio, però, il Presidente Al Serraj ha annullato l’incontro con Conte e da Bruxelles è tornato direttamente a Tripoli. Nella stessa sera cominciarono a circolare notizie ipotizzanti il rapimento di Al Serraj per coprire il suo smacco a Roma e cercare di giustificarlo. La verità, però, è un’altra: l’Italia ha assunto un ruolo marginale nella vicenda libica. Il nostro ruolo è stato rilevato dalla Russia.

Il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha ritenuto saggio non prendere parte ad un documento commerciale pro-Haftar proprio perché di parte, ma poco dopo è stato proprio Al Serraj a far fare una figuraccia all’Italia. Le motivazioni per cui il Presidente si sia indispettito, fanno sapere alcune fonti, sono legate a ragioni protocollari: l’Italia ha ricevuto prima Haftar, che non è un Capo di Stato, invece del legittimo Presidente.

L’Italia detiene numerosi interessi in Libia, a partire dal petrolio. L’ENI, che a causa dell’insolvenza della politica estera italiana ha deciso di fare da sé, è la più grande compagnia operante sul territorio. Per comprendere però anche la centralità dell’esportazione petrolifera per la Libia, basti pensare che il 70% del PIL nazionale e il 95% dell’export libico si basa sugli idrocarburi. Inoltre, la rendita che deriva da questo settore rappresenta circa il 90% delle entrate statali. L’importanza dell’Italia è legata proprio alla presenza della compagnia petrolifera. Per quanto riguarda l’esportazione, una parte consistente degli idrocarburi raggiunge il nostro Paese. L’esempio più significativo del legame tra Italia e Libia è quello del gas di Wafa e Bahr Essalam che viene trasportato attraverso il gasdotto Greenstream fino a Gela, in Sicilia. Inoltre, la Libia ha assunto una particolare importanza per quanto riguarda i flussi migratori. Negli ultimi anni il nostro Paese ha preso la strana decisione di collaborare con il governo libico per ridurre gli sbarchi firmando un memorandum fortemente contestato a causa della totale assenza della tutela dei diritti dei migranti.

E’ facile intuire che un rafforzamento di Haftar rappresenterebbe il principale rischio per l’Italia, poiché un ulteriore innalzamento del conflitto significherebbe una maggior interferenza di forze esterne nel Paese. Se le milizie del generale entrassero a Tripoli, ciò vorrebbe dire che i ministeri, le banche e la stessa Compagnia Nazionale Libica non potrebbero più operare per la mancanza delle condizioni minime di sicurezza. Ciò metterebbe in crisi il sistema di distribuzione delle rendite petrolifere.

Senza contare le conseguenze sociali causate dalla guerra in una città di un milione e mezzo di abitanti. Una situazione molto simile a quella siriana dove russi e turchi si scontrano causando 800mila profughi in fuga dalle macerie. In Libia, una situazione del genere determinerebbe la fine della gestione dei flussi migratori a causa della mancanza di fondi e istituzioni in grado di porre un freno alle partenze. Infine, alcuni gruppi armati che gestiscono i campi di detenzione potrebbero decidere di unirsi ad Haftar, liberando i detenuti e spedendoli in Italia. In sintesi il nostro governo si troverebbe a gestire una grave crisi umanitaria senza nessuna possibilità di limitare le partenze dal territorio libico.

Dal punto di vista economico, l’aumento del livello di violenza del conflitto determinerebbe un calo della produzione di idrocarburi e la cessazione dell’attività estrattiva in diversi impianti. Se Haftar dovesse vincere la guerra sarebbe davvero la fine per la presenza italiana in Libia, la quale verrebbe fortemente ridimensionata a favore delle aziende di stati “amici”.

In attesa della prossima mossa dei contendenti internazionali, la scioglimento della matassa libica appare ancora lontana. Con Haftar e Al Serraj protetti da attori anti-europei e senza scrupoli, la soluzione diplomatica appare totalmente improbabile. Rendere effettivo l’embargo delle armi attraverso l’istituzione di una forza navale ben armata e che presidi le coste libiche potrebbe essere una prima soluzione. Ma ciò non basterebbe, poiché i confini terrestri sono nelle mani del generale. La creazione di un contingente interforze guidato dall’Italia porrebbe Haftar davanti ad una scelta: accordarsi o rinunciare ad ogni credibilità internazionale. Ciò che conta, però, è che l’Europa (e l’Italia) torni finalmente a farsi sentire attraverso un’unica voce, mettendo da parte le singole rivalità individuali e agendo prima che sia troppo tardi.

Donatello D’Andrea