La geopolitica cinese al tempo del coronavirus

La geopolitica cinese al tempo del coronavirus
La strategia geopolitica cinese gioca sulla forza dei propri investimenti e sulla derivante influenza politica. FONTE Foreign Policy

Lo scoppio della pandemia di coronavirus in tutto il mondo, non ha portato solamente alla luce l’elevato livello di interdipendenza a cui ormai la globalizzazione ha sottoposto tutti gli stati ma anche come la stessa possa modificare, anche permanentemente, le relazioni geopolitiche tra i contendenti.

Il virus ha sicuramente inciso negativamente sulle relazioni commerciali con la Cina. Tra gli elementi incriminati c’è soprattutto il deciso negazionismo iniziale, il quale ha inciso fortemente sulla reputazione del colosso asiatico e sulla sua affidabilità. L’etichetta di Paese untore e irresponsabile è stata sicuramente una cattiva pubblicità per la potenza che aspira a mettere le mani sul mondo.

Non è la prima volta che un’epidemia modifica la geopolitica. La situazione è seria e solo l’unità di intenti potrà sconfiggere questo nemico invisibile e sconosciuto. La Cina, a questo proposito, ha da subito provveduto ad inviare centinaia di migliaia di aiuti umanitari destinati ai Paesi in cui il suo soft power è più forte e dove i suoi investimenti miliardari sono a rischio. Dall’Italia al Belgio, passando per la Spagna, per seguire gli interessi cinesi basta contare gli investimenti, soprattutto se ci si trova in Europa e si ha a che fare con la Nuova Via della Seta.

Basteranno gli aiuti a cancellare il recente passato di negazione e incoscienza? Come e quanto inciderà il coronavirus sulle relazioni geopolitiche fra gli stati?

Il soft power cinese e la strategia del win win

È ormai noto a tutti come la Cina accresca la sua influenza nei confronti degli altri stati. Non ha bisogno di cannoni, di carri armati o di bombe nucleari ma di investimenti. D’altronde, la seduzione è sempre più efficace della coercizione. I cinesi hanno recepito a pieno regime questo principio, noto come soft power, per utilizzarlo nelle loro relazioni diplomatiche con gli stati strategicamente più importanti. Uno degli esempi più famosi a questo proposito è la ferrovia africana che collega la Tanzania allo Zambia, la Tazara o Tan-zam, costruita negli anni ’70 con il supporto tecnico ed economico della Cina per un fine preciso: il trasporto del rame e lo sfruttamento delle materie prime. All’epoca questi propositi erano nascosti e l’opera venne vista come “un regalo ai nostri amici africani”. In realtà si trattava di una strategia, tutta cinese, soprannominata “win win cooperation”, in cui entrambi i contendenti ottengono dei benefici.

Quello che non è palesemente visibile ancora oggi, un momento in cui agli occhi più attenti le intenzioni cinesi sono note, è la natura dei finanziamenti cinesi, cioè prestiti a tassi agevolati e a lungo termine vincolati però nell’acquisto del Paese donatore, quindi alle imprese cinesi. Si tratta del concessional loans. Ciò fa sì quindi che questi fondi servano per finanziare per il 70% le aziende cinesi presenti sul territorio e per il 30% le restanti aziende, sino-africane però. In sostanza si può dire che la Cina concede un prestito riprendendoselo con gli interessi. Un po’ come accade con gli occidentali ma con un differenza di fondo: per l’Europa e gli USA l’Africa rappresenta “una ferita nella coscienza”, per la Cina invece rappresenta “un’opportunità per fare business”.

Un’altra differenza sostanziale è che la presenza cinese permette ai governi africani di aggirare le barriere del Fondo Monetario e della Banca Mondiale che giudicano un investimento sulla base della sua redditività, sull’opportunità economica e su altri parametri che portano, nella maggior parte dei casi, a respingere la domanda. Se dovessimo giudicare col senno di poi la ferrovia suddetta, si tratterebbe di un investimento a cui la Banca e il Fondo non avrebbero mai dato il proprio assenso, poiché già verso la fine degli anni ’80 il rame prese la via del mare. Inoltre, l’appoggio cinese permette ai governi africani di avere più ampio spazio di manovra e di ripagare il debito magari permettendo lo sfruttamento delle risorse e non elargendo denaro per tutta la vita.

Un approccio di soft power, di coercizione finanziaria, che sta ripagando la Cina, permettendole di ottenere una miriade di risorse, sfuggendo all’importazione da altri Paesi, magari ostili. Non si tratta solo di rame ma anche di legname, dal Congo, e di petrolio, dal Sudan.

La strategia cinese in Africa, dunque, non si limita al solo sfruttamento delle risorse ma mira ad instaurare un rapporto di fiducia. Un esempio su tutti è proprio il Sudan, una cooperazione che va oltre l’importazione del petrolio, includendo la costruzione di centrali elettriche, il finanziamento della diga di Kajbar e una condotta da 345 milioni di dollari che incanala l’acqua del Nilo a Port Sudan, collegandolo ad un sistema idrico da 325 milioni di dollari. Senza contare il supporto militare nella guerra del Darfur.

L’embargo USA, figlio della politica del Presidente Al-Bashir, il quale ha aperto le porte del Sudan ai terroristi, ha concesso alla Cina la possibilità di spezzare quel mantra geopolitico che vedeva gli USA primeggiare in modo incontrastato.

Se in Africa il soft power fa leva sulla necessità degli stati locali di ricevere liquidità per uscire da una condizione di povertà, in Europa il discorso è molto diverso.

Una delle cause principali che guida l’azione di Pechino al di qua degli Urali, è la possibilità di aprire il mercato più grande del mondo al surplus commerciale cinese. Non è un segreto che l’UE faccia gola a molti, soprattutto quando si parla di mercato. Dagli USA che vorrebbero le chiavi per vendere anche i loro falsi d’autore, come il Parmesan, alla Cina che vorrebbe riversare tonnellate di merce a basso costo.

Se l’Africa possiede risorse naturali e minerarie immense, l’Europa cosa può dare in cambio alla Cina se non la possibilità di uscire dall’influenza statunitense, commerciale e militare, permettendo al dragone di vendere il proprio surplus? Viene da sé che, casomai la Cina dovesse riuscire nel proprio intento, dovremmo dire addio, soprattutto noi Italiani, alle migliaia di piccole e medie aziende, le quali rappresentano i 2/3 del tessuto produttivo italiano, che mai potrebbero competere con le aziende cinesi.

La Nuova Via della Seta

La penetrazione cinese in Europa è stata favorita dalla precisa ideologia continentale della iper-globalizzazione e l’adesione degli stati al grande progetto cinese della Nuova Via della Seta, senza una collettiva analisi costi-benefici, ne è la conferma.

L’obiettivo della Cina è quello di ridurre la dipendenza dagli elementi stranieri, trovare un punto di sbocco per le proprie merci e aumentare la propria influenza nel mondo.

Il progetto da un trilione di dollari, la Belt and Road Initiative, è stato spesso criticato e ridicolizzato, tacciato di essere un progetto sfocato e fallimentare. Ma gli investimenti cinesi nel Mare del Nord, nel Mediterraneo e all’interno dei Paesi interessati dall’iniziativa dimostra che il dragone ci crede. Uno schiaffo alle critiche proviene proprio dalla Grecia: il porto del Pireo era uno dei meno interessati dai traffici, con gli investimenti cinesi è diventato uno dei principali del Mediterraneo Orientale.

I due colossi cinesi, Cosco e China Port Holdings, hanno ridisegnato le trame geopolitiche del commercio mondiale tramite un’aggressiva campagna di acquisizioni a suon di miliardi, mettendo mani sul commercio globale e aumentando l’influenza politica del colosso asiatico. Dall’Oceano Indiano all’Atlantico, passando per i cocci di bottiglia di Malacca di Bab el-Mandeb, e arrivando al Mediterraneo. Ma gli interessi non si fermano qui. La Cina ha grandi progetti anche per i porti del Nord Europa. Infatti, non molto tempo fa Cosco ha finalizzato l’acquisizione del terminal di Zeebrugge, il secondo più grande porto del Belgio.

A questa sono seguite una serie di altri acquisizioni in Spagna, Italia e Grecia. Le imprese statali cinesi, che una volta si tenevano vicino al loro mercato interno, ora controllano circa un decimo di tutta la capacità portuale europea. Ovviamente, l’influenza commerciale si trasformerà molto facilmente in condizionamento politico, come nel caso degli USA.

Le istituzioni europee hanno fatto notare come la penetrazione cinese possa rappresentare un pericolo per l’unità continentale ma gli accordi degli ultimi anni con singole entità statuali sembrano andare oltre le legittime paure della Commissione Europea. Buttando un occhio alle acquisizioni aggressive di know how tecnologico (esempio tedesco di Kuka Robotics) di porti, aeroporti e punti strategici, non sembra importare molto alla Cina del destino del continente europeo se non nelle funzioni sopra descritte.

Gli affari portuali e gli altri progetti infrastrutturali associati alla Nuova Via della Seta nell’Europa minacciano di attaccare il già vacillante spirito europeo di alcuni stati, come l’Italia. Una situazione del genere ha generato più dibattito sulle possibili implicazioni politiche degli investimenti cinesi. La grande differenza ora è che si presume che gli stessi nei porti del Mediterraneo e dell’Europa centrale, influenzeranno la loro posizione nei confronti della Cina.

La Nuova Via della Seta rappresenta un esperimento davvero interessante dal punto di vista culturale, poiché storicamente il corridoio orientale ha rappresentato il punto di contatto tra i due continenti per diversi secoli. I rischi, però, sono evidenti e vanno dalla perdita dell’indipendenza economica all’assoggettamento politico nei confronti di un gigante, contro cui le piccole entità europee non potranno mai competere. Prima di accedervi completamente, sarebbe stato utile, a livello europeo, discutere seriamente sul futuro e sulle opportunità di un’iniziativa del genere.

Il soft power e il coronavirus

In tutto questo discorso si collocano il coronavirus, il danno d’immagine che la Cina ha subito e il tentativo si trasformare gli aiuti umanitari in influenza politica.

L’immagine del dragone ne esce almeno in parte deteriorata: il contagio fra animali ed esseri umani ha prodotto la seconda grande epidemia contemporanea di origine cinese dopo la SARS del 2003. Per un Paese che aspira al dominio tecnologico mondiale, la persistenza di queste forme di arretratezze è una notevole contraddizione interna.

Nemmeno il negazionismo, la gestione opaca e tardiva della crisi nata a Wuhan pare aver aiutato la Cina. Alcuni parlano di effetto Chernobyl, paragonando la pandemia al disastroso incidente nucleare ucraino del 1986, il quale distrusse il mito della competenza in campo scientifico dell’Unione Sovietica. Si tratta di un paragone inappropriato, poiché se ci si può fidare dei numeri cinesi, Pechino è riuscita a controllare la situazione adoperando metodi drastici.

Prima del coronavirus l’economia cinese aveva registrato la crescita più bassa degli ultimi trent’anni, simbolo del fatto che c’era già qualcosa che non andava. Gli effetti della pandemia andranno ad aggiungersi a questa situazione.

Nel caso asiatico, l’effetto contagio aumenterà la diffidenza già molto evidente nei confronti di Pechino, in una fase di tensioni acute con Hong Kong e Taiwan. In Africa, probabilmente la situazione non muterà, poiché gli aiuti economici cinesi sono visti come necessari e non sarà un virus a cancellare il bisogno di liquidità degli instabili stati africani, a cui comunque la Cina sta offrendo il suo supporto medico.

La possibilità di prestare aiuto umanitario ai Paesi in difficoltà risponde proprio alla strategia di Pechino di non voler rinunciare alla posta in gioco. Gli investimenti miliardari non possono andare in fumo e la necessità di scrollarsi di dosso l’immagine di epicentro della pandemia fa capo alla precisa esigenza di rinvigorire il suo soft power.

La Repubblica Popolare ha da poco annunciato di aver raggiunto il picco di contagi e sta gradualmente rimettendo in moto l’economia. Tuttavia, ha bisogno della fiducia straniera per poter rilanciare gli investimenti essenziali per la crescita cinese.

A questo proposito, la Cina ha bisogno di rimettere in sesto i rapporti con i partner più importanti, tra cui ovviamente c’è l’Italia. Questa non è semplicemente l’unico stato del G7 ad aver aderito al progetto geopolitico cinese della Nuova Via della Seta ma è soprattutto parte della sfera di influenza degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, le aziende cinesi Huawei e Zte sono impegnate nello sviluppo della rete 5G sulla nostra penisola.

Ad oggi, la Nuova Via della Seta non ha dato i risultati auspicati dall’Italia. Trieste e Genova non sono ancora snodi cruciali della Maritime Silk Road. Le esportazioni del nostro Paese in Cina sono aumentate solo dell’1% e quest’anno la pandemia potrebbe compromettere anche questo piccolo risultato. Inoltre, gli USA hanno mal reagito al sodalizio italo-cinese e hanno imposto dazi su alcuni prodotti di gran successo del Made in Italy.

Anche la tardiva reazione dell’Unione Europea ha spinto l’Italia tra le braccia della Cina. L’Europa ha reagito, al contrario di quanto si dica, ma lo ha fatto tardi. In effetti, fanno più rumore le mascherine e gli aiuti sanitari che le misure economiche d’intervento, incomprensibili ai più, dettate dalla BCE e dalla Commissione Europea.

Il ritardo decisionale ha però facilitato l’azione del dragone. La Repubblica Popolare sta sfruttando la situazione per accrescere la propria abilità nel campo sanitario e tecnologico, esportando il suo know how all’estero e trasformandolo in influenza politica.

A questo proposito Huawei, Zte, Xiaomi e Alibaba, si sono offerte di sviluppare una rete cloud per connettere le strutture ospedaliere con le unità di crisi in tempo reale, collegando gli ospedali italiani con quelli di Wuhan. Una cosa positiva e che aumenterebbe l’efficienza dei nostri presidi medici ma che nasconde, al contempo, delle insidie in relazione alla gestione dei dati sulla salute dei pazienti.

Dunque, l’aiuto di Pechino va ben oltre la fornitura di personale medico e di materiale sanitario. La gestione degli aiuti è mirata, come nel caso dell’Aquila. Perché Zte ha scelto proprio di donare duemila mascherine al capoluogo abruzzese? Perché presso il Tecnopolo d’Abruzzo l’azienda cinese ha avviato un centro di innovazione sperimentazione del 5G assieme all’università locale.

Le donazioni, comunque, hanno avuto una risonanza assurda. Il merito è sicuramente di Luigi Di Maio, il quale ha da sempre enfatizzato il sodalizio con la Repubblica Popolare.

Le donazioni reciproche simboleggiano che la cooperazione tra i due Paesi è destinata ad intensificarsi. A questo proposito pare evidente la reazione della Russia, la quale, anche per nascondere il recente scandalo legato alla diffusione delle fake news sul coronavirus in Europa, ha inviato in Italia 9 aerei pieni zeppi di materiale medico. Anche Putin non vuole perdere la propria influenza sull’anello debole della catena europea.

Sembra evidente che il coronavirus sia diventato l’ennesimo espediente per instaurare o solidificare le relazioni diplomatiche. La Cina, grazie alla sua rapida reazione, è sicuramente più avanti rispetto agli altri Paesi. Per ora la strategia geopolitica cinese sembrerebbe funzionare, almeno in Italia, dove si grida già allo “scandalo europeo”, enfatizzando gli aiuti altrui. Per il resto, soltanto dopo la fine della pandemia il mondo comprenderà quanto questa abbia realmente rimodulato i rapporti fra gli Stati.

Donatello D’Andrea

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