L’uccisione del potentissimo generale iraniano Qassem Soleimani per mano statunitense ha sconvolto i commentatori internazionali, i quali da diverse settimane continuano a spendere parole molto dure nei confronti di Donald Trump, da un lato, e a lodare un gesto così azzardato, dall’altro. La realtà, come sempre, sta nel mezzo. L’attacco nei confronti dell’uomo più potente, popolare e importante del Medio Oriente risponde alla precisa volontà del Tycoon di mostrare i muscoli ad una potenza emergente che, nel corso degli anni, le altre amministrazioni a stelle e strisce credevano di avere sotto controllo.
Trump ha ben capito che per sradicare le ambizioni di potenza dell’Iran era necessario colpire la “mente” dietro alla politica estera del Paese. Il Ministro della Difesa USA ha affermato, in un comunicato, che l’ex capo delle forze Quds, corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, “stava attivamente progettando piani per attaccare i diplomatici americani e altro personale in Iraq e in tutta la regione”. Basta a giustificare un gesto che potrebbe avere ripercussioni internazionali davvero pesanti? Si è trattato davvero di un attacco preventivo?
Chi era Qassem Soleimani
Come anticipato, Qassem Soleimani non era semplicemente un militare. Da almeno 15 anni rappresentava un pezzo pregiato della politica estera iraniana, la quale in un contesto come il Medio Oriente, dove tutte le potenze mondiali detengono forti interessi, condizionava conseguentemente anche i piani statunitensi. In patria Soleimani era considerato come un eroe nazionale, un uomo intoccabile, amico di tutti i politici che contano, a partire dalla guida Ali Khamenei.
A dispetto delle apparenze, che lo vedevano come un uomo sempre sorridente, Soleimani si è reso responsabile di diversi attentati e violenze in giro per il Medio Oriente. Ha organizzato le milizie sciite in Iraq dopo la guerra del 2003 e ha collaborato direttamente con diversi dittatori, come il siriano Assad, nel combattere contro i ribelli. Gli americani non hanno mai potuto digerirlo e il fatale attacco di Trump è stato soltanto l’ultimo di una serie di operazioni contro di lui.
Dotato di forte carisma, una qualità che per gli arabi è fondamentale (il khilib), era da molti indicato come la prossima guida suprema dell’Iran a causa della sua completa dedizione per il sistema autoritario che vige nel Paese. Infatti, si racconta che nel 1999, anno delle proteste studentesche antigovernative, Soleimani fu una delle guardie rivoluzionarie che intimò l’allora presidente riformista Khatami di reprimere in fretta qualsiasi forma di protesta. Da allora, il generale, entrò nelle grazie di Al Khamenei che lo definì come “un martire della rivoluzione”.
Nel 1979, anno della rivoluzione islamica, Soleimani aveva 22 anni: decise di unirsi alle Guardie Rivoluzionarie, una milizia religiosa istituita proprio da Khomeini. Diciotto mesi dopo iniziò la guerra con l’Iraq. Il giovane Soleimani fu mandato al fronte per portare acqua ai soldati, non era ancora pronto per la battaglia. Durante gli otto anni di conflitto, molti giovani, inviati per sminare i campi, non fecero ritorno a casa. Alcune fonti riferiscono che Soleimani, che nel frattempo aveva assunto ruoli di comando, si premurava di abbracciare tutti questi ragazzi che, molto probabilmente una volta partiti, non avrebbero fatto più ritorno nelle loro case.
Insomma, Qassem Soleimani aveva tutte le carte in regola per diventare una guida, nonostante in molti ci tengano a far sapere che non era la religione a guidarlo, bensì l’amore per la patria e soprattutto per la guerra. Il carisma che aveva forgiato nei campi di battaglia, a soli 22 anni, servì a farsi conoscere da un Paese intero come un uomo integerrimo, spinto dal dovere e da un forte nazionalismo. Non sorprende, stando a quanto detto, che il popolo iraniano abbia pianto, e continui a piangere, la sua dipartita.
Fatto sta che per l’intelligence occidentale, e soprattutto statunitense, quest’uomo rappresentava un pericolo. Secondo fonti ministeriali, stava progettando un attacco contro degli obiettivi sensibili americani in Medio Oriente e ciò, se verificato, avrebbe fortemente compromesso la popolarità e soprattutto la posizione del governo americano. Donald Trump ha così deciso, senza informare preventivamente il Congresso, di lanciare all’attacco i suoi droni per stanarlo e mettere fine alla minaccia. La moralità del gesto non è, in questa sede, importante. Ciò che più dovrebbe interessare l’informazione è il vero motivo per cui, dopo che le precedenti amministrazioni (come quella Obama), avevano ammorbidito la posizione americana nei confronti dell’Iran, Donald Trump abbia attaccato, di sorpresa, l’uomo più potente del Medio Oriente.
Cosa vuole Trump dall’Iran
Tralasciando il fatto che, ovviamente, l’uccisione del potente generale avrà delle ripercussioni che sicuramente andranno oltre lo spasmodico lancio di missili in territorio iracheno – e non sarà necessariamente una guerra a viso aperto – ciò che vale la pena sottolineare è che il gesto di Trump rappresenta la mossa più spericolata e irresponsabile compiuta dalla sua amministrazione. Nonostante la “falsa” guerra commerciale con la Cina (perduta), i dazi all’Unione Europea e il ritiro delle forze militari dalla Siria, il Tycoon è stato capace di compiere un gesto che è andato oltre.
E’ stata una mossa folle proprio perché dietro all’uccisione di Soleimani pare non esserci una vera e propria strategia, mirante a riequilibrare una situazione di sostanziale stallo in una zona considerata una polveriera in procinto di esplodere ma che, in realtà, è già esplosa da tempo.
Donald Trump, nel frattempo, ha fatto sapere di non voler iniziare una guerra con l’Iran anche se il suo gesto farebbe credere il contrario. Infatti, nonostante gli USA non intrattengano buoni rapporti con Tehran, formalmente i due Paesi non sono in guerra. Ciò ha spinto l’Iran a ricorrere alla Corte Penale Internazionale, forse anche per prendere tempo. Ed è qui che sta la confusione di Trump il quale, a dire il vero, non ha mai mostrato una spiccata dote per gli ambiti esteri, anzi. Il più delle volte le sue scelte fuori dai confini americani si sono dimostrate più che confuse.
Per risalire, però, a ciò che, molto probabilmente, ha spinto il Tycoon ad intervenire è necessario tornare indietro all’8 maggio 2018, giorno in cui il Presidente degli Stati Uniti annunciò di voler ritirare il suo Paese dall’accordo sul nucleare iraniano. Una decisione del genere, ovviamente, provocò un aumento improvviso della tensione tra i due Paesi e da allora la politica statunitense in Iran è stata una serie di decisioni inspiegabili logicamente, aventi l’unico obiettivo di indebolire il regime ivi presente, distanziandosi fortemente dall’approccio diplomatico adottato, come già anticipato, dal Presidente Obama.
L’accordo, voluto proprio dall’ex inquilino della Casa Bianca, venne da molti considerato storico. L’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di arricchirsi di uranio, mentre gli USA e gli altri firmatari avrebbero rimosso alcune delle sanzioni imposte negli anni precedenti. Un semplice scambio frutto dell’idea di un Iran propenso a collaborare, soprattutto dopo che, nel 1979, una rivoluzione islamica portò al potere un regime totalmente ostile all’Occidente. Era il 2015.
Donald Trump già durante la sua intensa campagna elettorale, l’anno successivo all’accordo, si mostrò critico nei confronti dell’intesa, ritenendola non favorevole agli Stati Uniti poiché la rimozione delle sanzioni avrebbe rafforzato un Paese ostile agli USA, portandolo a costruire nuove bombe che l’Iran, e quindi Soleimani, avrebbe potuto usare contro gli altri stati mediorientali.
Una volta eletto, Donald Trump decise di rompere l’accordo, nonostante l’Iran non avesse compiuto nessuna violazione, reintroducendo unilateralmente le sanzioni tolte. Ciò, ovviamente, fece arrabbiare gli iraniani.
Non è ancora molto chiaro il preciso motivo per cui Trump decise di fare una mossa considerata inusuale nella politica internazionale, dove gli stati tendono a mantenere fede agli impegni presi. Allora, come spesso accade, si cominciarono a formulare delle ipotesi. Alcuni sostennero che il Presidente fosse stato condizionato dai suoi alleati più intransigenti (Israele e Arabia Saudita), altri invece dissero che il governo americano auspicava con questo gesto un “cambio di regime” in Iran.
Successivamente la mossa di Trump cominciò a produrre i primi effetti…sui suoi alleati europei. Infatti, la “distensione” di Obama servì alle aziende europee per investire in Iran. La decisione del suo successore, dunque, agì come un fulmine a ciel sereno poiché le sanzioni riguardavano anche i rapporti che l’Iran intratteneva con tutti gli alleati americani. D’altro canto, però, la mossa servì a “isolare” il Paese mediorientale.
Se sul fronte esterno l’Iran rimase sostanzialmente da solo, all’interno la situazione mutò notevolmente. Coloro che all’epoca risultarono favorevoli all’accordo con gli USA di Obama vennero isolati in favore di una fazione più conservatrice composta dalla guida suprema Ali Khamenei e dalle stesse Guardie Rivoluzionarie, quelle guidate dal generale Soleimani.
In altre parole la decisione di Donald Trump aveva riabilitato le forze conservatrici iraniane, quelle che dal 1979 si mostravano diffidenti verso l’Occidente, ridimensionando fortemente il peso di quelle più moderate. Sviluppi del genere fecero emergere forti dubbi sull’approccio di Trump. Il rafforzamento delle forze conservatrici, di fatto, interruppe ogni tentativo esterno di mediazione e il tanto auspicato “cambio di regime” sembrò allontanarsi per sempre. A partire dall’estate 2019 si cominciò a parlare di “guerra” a causa di alcuni attacchi nel “coccio di bottiglia” di Hormuz, il tratto di mare che divide il Golfo Persico da quello dell’Oman. Le Guardie Rivoluzionarie iniziarono a sequestrare le petroliere straniere, violarono per la prima volta l’accordo sul nucleare e abbatterono un drone statunitense.
Il 20 giugno Trump annunciò di aver annullato all’ultimo secondo un’operazione contro l’Iran come risposta all’abbattimento del drone. La motivazione che spinse Trump a scrivere su twitter una tale notizia fu quella che “l’attacco avrebbe provocato 150 morti, un bilancio insostenibile“. La spiegazione non convinse del tutto, soprattutto perché molti giornali americani affermarono che tale soluzione venne osteggiata da un nutrito numero di suoi collaboratori, praticamente contrari a qualsiasi iniziativa militare a cielo aperto. Da ciò si evince la totale assenza di una strategia in grado di garantire una certa continuità in politica estera, soprattutto nei confronti di un Paese ostile con cui le precedenti amministrazioni avevano cercato di ricucire un rapporto.
Ma quello iraniano non era l’unico fronte verso cui Trump nutriva una profonda incertezza. Anche in Siria, dove il ritiro del contingente americano proprio nel momento in cui Erdogan aveva annunciato la ripresa delle operazioni militari contro i curdi aveva suscitato profonda indignazione, le scelte del Presidente si rivelarono molto ambigue. Dapprima annunciò il ritiro per poi ricredersi e ridimensionarlo, inviandone altri, anche perché una scelta del genere avrebbe rafforzato la già pressante presenza iraniana in loco. Il problema è che Trump, in campagna elettorale, pose come cruciale l’obiettivo di ritirare i soldati americani dai fronti.
Perché uccidere Soleimani proprio ora?
Perché uccidere Soleimani proprio ora?
Se fossimo in un quiz a premi, questa sarebbe la famosa domanda da un milione di dollari. Di interessi gli USA in Medio Oriente ne hanno tanti, a partire dal petrolio ma ciò che preme di più sapere è il motivo per cui il Tycoon abbia deciso di colpire così profondamente l’anima di un Paese.
Il governo ha sostenuto che il generale stesse preparando un attacco contro obiettivi militari statunitensi in Medio Oriente ma non ha fornito alcuna prova a sostegno di questa affermazione. Inoltre, è bene ricordarlo, il Congresso è rimasto all’oscuro di qualsiasi decisione inerente l’attacco a Soleimani. Fonti interne riferiscono che la decisione fosse maturata la settimana prima, quindi verso la fine di dicembre, in seguito all’uccisione di un contractor americano in una base militare irachena durante un bombardamento compiuto da milizie filo-iraniane.
Gli esperti ritengono che l’uccisione del generale sia stata il risultato della progressiva escalation di tensione avvenuta negli ultimi anni tra Iran e USA, e delle azioni sempre più aggressive delle milizie compiute in Iraq. Quello che non è chiaro è se gli USA siano in grado di tenere sotto controllo eventuali reazioni iraniane senza arrivare ad un conflitto, il quale sarebbe molto più che violento e che coinvolgerebbe tutte le nazioni aventi interessi in Medio Oriente.
Appare evidente che Donald Trump abbia fortemente sottovalutato l’impatto mediatico e popolare che l’uccisione di Soleimani avrebbe potuto provocare. Già il fatto che si tratti di un “atto di guerra” identifica la portata di tale ed evidente errore di calcolo. Se l’Iran avesse colpito il capo delle operazioni americane in Medio Oriente e Nordafrica, come avrebbe reagito Trump? Lo avrebbe sicuramente considerato un atto di guerra, proprio come l’Iran.
Il punto è che non è chiaro quanto e come la morte di Soleimani possa contribuire a cambiare le carte in tavola in quella polveriera. In Iran la situazione ormai è chiara: la morte di un eroe nazionale ha commosso tutte le fazioni e la ha unite contro gli assassini. In Iraq il Parlamento ha chiesto a tutte le forze militari straniere di lasciare le basi sul proprio territorio. Un dialogo con l’Iran appare impossibile, sia da parte USA che da parte di qualsiasi altra forza in campo.
Negli ultimi giorni sembrerebbe che le parti si siano “distese” anche se i toni continuano comunque a restare molto aggressivi. Trump continua a punzecchiare l’Iran, questa volta descrivendo minuziosamente gli ultimi attimi di vita del generale prima della morte. L’Iran, attraverso la sua guida suprema continua a covare vendetta. L’Unione Europea, coinvolta dai suoi affari in Medio Oriente e soprattutto dalla NATO, tace.
E l’Italia?
Non è un segreto che dalla fine della Prima Repubblica la politica estera non rientri più fra le priorità dei governi italiani. La strategia seguita dal nostro Paese in questo ambito pare essere sempre la stessa: restare fermi, silenziosi, mediare quando è troppo tardi. E’ lo stesso approccio che ha portato l’Italia a perdere importanti posizioni in Libia, da dove proviene gran parte del nostro approvvigionamento energetico, è lo stesso che si sta seguendo per l’uccisione di Soleimani.
L’Iran intrattiene buoni rapporti con Tehran. Infatti lo stesso governo locale ha chiesto al nostro Paese di prendere una posizione proprio in virtù della cordialità esistente tra i due stati. L’insensata scelta di Trump ha messo, ancora una volta, in evidenza l’inadeguatezza dell’Italia di prendere una posizione decisa e non ambigua.
Però, addossare tutte le colpe del nostro immobilismo all’attuale Ministro, corrisponderebbe a disinformazione. L’Italia, come anticipato, non ha più una politica estera dalla caduta del Muro di Berlino, dalla fine del comunismo sovietico e soprattutto dalla fine del neo-atlantismo. In questo caso, però, non saranno solo i buoni uffici di Roma a Tehran a risultare inefficienti ma anche quelli dell’UE che, come sempre, è chiamata ad intervenire in blocco e non singolarmente.
Le ambigue dichiarazioni dei Ministri degli Esteri continentali, i quali sono espressioni di governi che a parole vorrebbero prendere le distanze dagli USA ma che a fatti non ci riescono, non fanno altro che confermare che politicamente l’Unione Europea conta davvero poco. Soltanto quando i singoli governi si convinceranno della necessità di una politica estera comune, senza esitazioni o egoismi di parte, per poter contrattare con colossi come Russia, Cina e USA, allora si potrà parlare veramente di Unione, di superpotenza politica ed economica. Fino ad allora, con esecutivi intenti a smontare i progressi del processo di integrazione, gli europei saranno vittime dei loro stessi inutili giochi di potere.
Urge una decisa presa di posizione e un intervento concreto da parte dell’Unione Europea. Nonostante l’escalation violenta tardi ad arrivare, la tensione resta alta. Ci sono migliaia di militari italiani in Medio Oriente che attendono direttive e che, soprattutto, aspettano di tornare a casa, poiché si troverebbero a combattere e a subire ritorsioni per una guerra che non gli appartiene. Come tutte le guerre di cui non si conosce il senso.
Donatello D’Andrea