Le Elezioni Europee ci hanno consegnato un Parlamento di poco differente rispetto a quello della precedente legislatura continentale. I populisti/sovranisti, i quali avrebbero dovuto sfondare, non sono riusciti a confermare i pronostici, ribadendo ancora una volta l’immane differenza tra percezione e realtà.
In Germania e nel resto dei Paesi nordici, i partiti euroscettici son riusciti a conquistare meno di quanto era previsto, nel Sud Europa il baluardo socialista spagnolo è riuscito a reggere l’urto del populismo, in Italia e in Francia la frenesia sovranista ha avuto la meglio consegnando a Matteo Salvini e a Marine Le Pen l’inerzia della politica nazionale.
Il fuoco di paglia sovranista
Nel primo caso, quello dei Paesi del centro-nord, nonostante una timida avanzata populista, i partiti tradizionali (PPE e PSE) son riusciti a mantenere il loro primato, supportati anche da una netta avanzata dei Verdi e dei liberali (ALDE). Nell’Europa dell’Est, invece, il trionfo dei conservatori è stato totale, nonostante il fuoco di paglia di Viktor Orban, il quale, dopo aver incalzato i sovranisti dell’intera Europa in un’alleanza contro l’ancien régime, si è arreso all’evidenza dei fatti, allineandosi con i conservatori e abbandonando la causa di Salvini e Le Pen, i quali con 58 seggi parlamentari verranno sicuramente isolati da una grande alleanza PPE-PSE-ALDE. Un fuoco di paglia facilmente estinguibile.
Il caso inglese e il fumo della propaganda
Nel controverso Regno Unito, invece, il Brexit Party di Nigel Farage ha raccolto più di quanto è stato seminato in questi controversi due anni. La parabola discendente della Brexit, invocata ma mai pienamente e volutamente realizzata, è l’emblema di quanto le fake news possano provocare disastri a livello politico ed economico. Boris Johnson, uno dei più controversi protagonisti della politica inglese, è stato convocato dalla magistratura a causa delle “balle” rifilate in campagna referendaria (i famosi 350 milioni di sterline versati da Londra a Bruxelles ogni settimana) e dovrà riferire anche di altre notizie false aventi il solo scopo di propagandare una disaffezione europea di cui gli inglesi continuano a negare l’esistenza.
Intanto il primo ministro inglese, Theresa May, si è dimessa dal suo incarico e la successione vede proprio il “ballista” in prima fila. Il destino del Regno Unito è sempre più incerto, tra investitori che in gran fretta stanno abbandonando il Paese e imprese statali che invocano l’aiuto di Westminster e Downing Street, lo spettro di un’uscita senza accordo si fa sempre più pressante. La classe dirigente inglese, rea di non aver previsto le conseguenze delle proprie azioni, è la prima imputata di questo disastro.
Le Elezioni del 26 Maggio se da un lato hanno confermato che una fetta degli elettori britannici nutre ancora un rigurgito nazionalista, dall’altro hanno chiarito che il 60% della popolazione vuole restare in Europa. Questa fetta consistente, però, dovrà fare i conti con una politica incapace di accettare i propri errori e che proseguirà dritta sulla sua strada, una strada che probabilmente porterà allo scontro con Bruxelles (i conservatori non vogliono ottemperare i loro obblighi finanziari del bilancio UE) e ad un “No deal”.
La parabola sovranista europea, dunque, a parte l’emblematico caso inglese, sembrerebbe essere arrivata al suo epilogo. Gran parte del continente parrebbe aver compreso che il “secolare” processo di unificazione europea non deve e non può essere ostacolato dalla violenta ondata populista che da qualche anno a questa parte ha preso possesso delle classi dirigenti europee. L’idea di riconsegnare la sovranità agli stati, togliendola agli organi istituzionali europei, non ha fatto proseliti all’interno degli Stati membri e di conseguenza non ha portato i frutti sperati all’interno del Parlamento, il quale, ancora una volta, sarà nelle mani dei partiti tradizionali che, alleandosi, isoleranno “l’Europa delle Nazioni e della libertà” (il nome del partito di Salvini e Le Pen).
Le Elezioni Europee in Italia e le ricadute sul governo
Come si sa, il 34,4% degli aventi diritto ha partecipato alle Elezioni Europee votando la Lega di Matteo Salvini la quale porta a compimento un processo di crescita incredibile che, nel giro di un anno, gli ha fatto guadagnare una fiducia elettorale totale, e un bacino di quasi dieci milioni di voti, per la maggior parte provenienti proprio dal suo alleato di governo, caduto invece in una terribile crisi di consensi.
Il Movimento Cinque Stelle, ha raccolto, dunque, le briciole lasciate dal Ministro dell’Interno, ottenendo un misero 17,1% che, a onor del vero, non premia gli sforzi compiuti dai grillini al governo. La maggior parte dei provvedimenti porta la firma dei pentastellati ma la pessima opera comunicativa messa in piedi dal partito di Luigi Di Maio, responsabile anche di aver lasciato l’inerzia governativa a Matteo Salvini che lo ha ringraziato soffiandogli gli elettori, ha prodotto l’effetto opposto. Ora, con Di Maio salvato dal voto di Rousseau ma ancora sulla graticola, il partito chiede a gran voce un leader capace di rimettere in carreggiata il derelitto Movimento nella speranza di recuperare voti, soprattutto se all’orizzonte si profila l’ennesima crisi di governo provocata dalla flat tax e dalla Commissione Europea, in procinto di sanzionarci per l’eccessivo debito pubblico.
Il Partito Democratico, invece, sorride anche se non dovrebbe. Sebbene abbia superato i grillini, ottenendo il 22,7%, Zingaretti, il quale ha salutato il voto come un segnale di ripresa importante per la sinistra, ha ben poco da festeggiare. Il PD è ancora immerso in una crisi di uomini e di valori, evidente, osteggiato ancora dagli intramontabili “baroni” che con le loro dichiarazioni inopportune ledono l’immagine del partito, di un partito che nemmeno tre mesi fa salutava l’elezione di Zingaretti come un voto in grado di far riavvicinare gli elettori delusi, soprattutto giovani.
Inoltre, stando ai dati, questo risultato è figlio dell’elevata astensione poiché diminuito il numero dei votanti reali, cresce il risultato in termini percentuali. Il PD, in realtà, ha perso 114mila voti rispetto al 2018 (rispetto al 19% di Renzi).
Le conseguenze del voto sul governo e il dialogo M5S-PD
Le conseguenze del voto europeo sul governo, anche se negate categoricamente dai due alleati, ci sono e ci saranno. Quanto alla Lega convenga agitare lo spettro della crisi per far saltare il banco e ritornare al voto è cosa ancora sconosciuta, anche se i vecchi leghisti non si sentono di escludere la possibilità di un voto anticipato. Emblematico è il caso dell’ultimo Consiglio dei Ministri, dove Conte ha ribadito che la linea da seguire nei confronti della Commissione Europea è quella del dialogo. In particolar modo, il premier ha invitato il leader della Lega e quello dei grillini ad abbassare i toni del dibattito onde evitare un peggioramento della già infelice situazione italiana. Inoltre, il Presidente del Consiglio ha annunciato l’invio di una lettera a Bruxelles per chiedere l’apertura di un confronto per la revisione delle regole.
Il leader leghista, dal canto suo, vorrebbe condurre l’ennesima prova muscolare con la Commissione Europea, al contrario del Premier e degli altri ministri. I Cinque Stelle, indecisi sul da farsi, per colmare le distanze elettorali potrebbero riabbracciare la linea dura sull’Europa, mettendo così in difficoltà il diplomatico tentativo conciliatorio dell’avvocato degli italiani. La costruzione della prossima manovra, comunque, sarà più difficoltosa del previsto. L’Italia ha violato il Patto di stabilità e crescita e il suo debito è troppo elevato per essere ignorato. Inoltre c’è da fare i conti con i 23 miliardi di euro necessari ad evitare l’innesco delle clausole di salvaguardia e quindi di un repentino aumento dell’IVA al 25%.
Trovare le coperture per disinnescare l’aumento delle tasse, varare la flat tax e per promuovere la crescita sarà più difficile del previsto, quasi impossibile poiché i nodi da sciogliere sono tanti. E’ stata proprio la flat tax a suscitare l’ira di Salvini e il conseguente abbandono dell’incontro interlocutorio a Palazzo Chigi. La riforma leghista ha trovato la ferma opposizione del Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il quale dopo essere stato a lungo oggetto di scontro tra i due partiti di maggioranza a causa della sua ambiguità, ha ribadito nel Consiglio che “senza coperture, non si può fare niente!”.
Gli scenari possibili sono molteplici, l’asse Conte-Tria non potrà reggere a lungo, soprattutto se i Cinque Stelle resteranno nell’ombra. Ormai, a causa degli errori macroscopici di Di Maio & Company, l’inerzia del governo pende a favore di Salvini, come pure hanno ammesso alcuni deputati pentastellati. Le prossime settimane saranno cruciali, soprattutto se a fronte della reperibilità di 23 miliardi per l’IVA e altri dieci per il resto (riduzione delle tasse) sarà necessario tagliare i due provvedimenti “bandiera” del governo del cambiamento: quota 100 e Reddito di cittadinanza.
Ciò non toglie che la frattura nata a Palazzo Chigi si possa ricomporre senza conseguenze, d’altronde per i grillini non c’è mai stato un momento in cui si è potuta ipotizzare una rottura. Ma all’interno di Montecitorio, si respira un’aria quasi surreale che porterebbe a non escludere lo scenario peggiore: il voto a settembre. Ciò lascerebbe ai tecnici la responsabilità di predisporre la prossima manovra economica. Anche se sarebbe più ipotizzabile un rottura in autunno inoltrato con conseguente formazione di un esecutivo di circostanza a guida Mario Draghi, il quale terminerà il suo incarico alla BCE il 31 ottobre.
Un altro scenario ipotizzabile sarebbe quello del dialogo tra il partito di maggioranza più in difficoltà, il Movimento Cinque Stelle, e il Partito Democratico. L’alleanza darebbe vita ad una maggioranza parlamentare (ricordiamo che a fronte del risultato Europeo e le batoste elettorali, il M5S godrebbe ancora di 221 seggi), in grado di arginare la deriva populista ed euroscettica dell’Italia.
Con il PD in un’emorragia continua di voti e il M5S risucchiato dalla Lega e passato dalle 11 milioni di preferenze alle appena 4,5 milioni, il dialogo tra i due partiti non appare impossibile. Un dialogo difficile perché gli attuali interpreti, rei di essersi malamente linciati in campagna elettorale, sono inadeguatamente poco propensi alle aperture. Zingaretti ha più volte affermato che durante la sua segreteria non ci sarà mai un accordo con il Movimento, mentre Roberto Speranza spinge per “abbassare la diga”.
Però, l’insofferenza tra i due alleati di governo è cosa ormai scontata. I rapporti tra i due partiti sono pessimi e il richiamo all’ordine di Giuseppe Conte, uscito allo scoperto con un’opera di grande responsabilità che solamente i detrattori hanno sottolineato come “ridicola e inadeguata”, è l’emblema dei cattivi rapporti che intercorrono tra Salvini, ormai consapevole del suo peso elettorale al di fuori del Parlamento e Di Maio, in una situazione del tutto opposta rispetto a quella del suo alleato. In questo frangente ipotizzare un dialogo tra i grillini e i democratici non è per nulla un azzardo.
Le prime prove di dialogo potrebbero essere le recentissime proposte di Luigi Di Maio definite propagandisticamente “leggi anti-casta”. Sono cinque proposte per eliminare i partiti dalla sanità, quella sull’acqua pubblica, il conflitto di interessi, il salario minimo e il taglio dei parlamentari. Nonostante la Lega abbia dato l’assenso su parte di queste riforme, i grillini potrebbero trovare anche l’appoggio del PD poiché alcuni dei punti del programma di Zingaretti (equo compenso, salario minimo e sanità) sono presenti anche nei piani di Di Maio.
Basterà trovare un’intesa a carattere sociale per far partire un dialogo tra le due forze che sono elettoralmente e culturalmente concorrenziali?
L’ira di Bruxelles e il paradosso dell’affidabilità
Il Governo Conte, comunque sia, si trova in una situazione di notevole difficoltà, il vertice di Palazzo Chigi l’ha ribadito, e la lettera di Bruxelles testimonia una mancanza di programmazione che potrebbe risultare fatale per il destino dell’esecutivo. L’ammonimento dell’UE, arrivato come un fulmine a ciel sereno, è stato fatto oggetto di propaganda da parte di Salvini, consapevole di poter sfruttare il malcontento generale, invece di rappresentare un motivo di riflessione sugli errori di una cattiva gestione dell’erario, degli investimenti e soprattutto dei 15 miliardi “spillati” a Bruxelles.
Inoltre, i continui bisticci tra i due partiti di maggioranza (che continuano a rimandare l’inevitabile rottura tra due forze politiche incompatibili), il caso dei minibot (i titoli di stato di piccolo taglio) presentati in una mozione sconosciuta al MEF e allo stesso Premier Conte, minano profondamente l’affidabilità necessaria ad ottenere clemenza da parte degli investitori e dell’Unione Europea. La politica della ragionevolezza, la quale avrebbe dovuto garantire al nostro Paese un periodo di relativa calma all’insegna di un dialogo costruttivo con gli organismi esterni al nostro Paese, ha fallito poiché alle parole non son seguiti i fatti e il voto del 26 maggio ne è la conferma.
Il paradosso dell’affidabilità sta proprio in questo: eletto con il presupposto del dialogo con l’Europa e il mantenimento dell’equilibrio all’interno della scena continentale, il governo italiano, nonostante i continui interventi del paciere Conte, predilige lo scontro prepotente con le istituzioni continentali col fine di trovare un bersaglio contro cui indirizzare l’odio represso di una popolazione stanca.
Quale immagine dell’Italia può trasmettere una politica litigiosa e incoerente all’estero?
Il destino di questo esecutivo e dell’intero Paese che per lo stesso presupposto sta pagando economicamente (e non solo) le proprie illogiche scelte, passa per le mani di una classe dirigente totalmente in balia dei vaneggiamenti di un paroliere, di un bravo ragazzo senza la stoffa del leader e di un partito che saluta una sconfitta come se fosse una vittoria.
Se l’Europa si è salvata in extremis dalla deriva populista, l’Italia ne continuerà a soffrire le scelte e i deliri, fin quando, si spera, le personalità politiche moderate si risveglieranno e proporranno delle soluzioni concrete ed attuabili, miranti non ad un tornaconto personale ma al bene degli italiani, vittime e carnefici della propria sorte.
Donatello D’Andrea