Verso il referendum: perché sì, perché no

Verso il referendum: perché sì, perché no
Il referendum costituzionale è al centro di una fitta ma silenziosa campagna elettorale promossa da tutti i partiti - FOTO Linkiesta

Tra un paio di settimane gli italiani si recheranno alle urne non solo per scegliere i propri amministratori regionali o comunali ma anche, e soprattutto, per confermare o respingere una riforma che potrebbe considerarsi storica e concernente la riduzione del numero dei parlamentari.

Precisamente domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani potranno prendere parte al quarto referendum costituzionale della storia Repubblicana, dopo quello del 2001 sulla riforma del Titolo V, quello del 2006 sulla Parte II e l’ultimo, sulla riforma Renzi-Boschi.

Come di consueto, nelle prossime settimane la campagna elettorale referendaria si intensificherà a dismisura, impedendo a chiunque di informarsi senza cadere in condizionamenti di partito.

Dunque, prima di abbracciare una qualsivoglia posizione in merito, è utile scrutare il più a fondo possibile le motivazioni sbandierate dalla politica circa il sì e il no.

Verso il referendum: perché sì

Nel corso degli anni sono stati proposti, da parte di taluni parlamentari, alcuni tagli poiché per loro il numero di rappresentanti risultava essere molto alto. La prima proposta risale al 1983, la commissione proponente la riforma era presediuta da Aldo Bozzi. Anche il centrodestra di Berlusconi e il centrosinistra di Matteo Renzi inserirono al primo punto delle loro ambiziose riforme della Costituzione la riduzione del numero dei parlamentari, anche e soprattutto nella speranza di riscuotere quel favore popolare che spingesse gli elettori a dire di sì a tutto il resto. Ma gli italiani non diedero loro ascolto, bocciando ogni disegno di legge costituzionale al riguardo.

Questa volta, però, è diverso. A dirlo non sono solo i promotori ma anche i numeri. Sono solo tre gli articoli della Costituzione interessati dalla riforma. Il 56, il 57 e il 59, tutti sullo stesso argomento. Una buona ragione, questa, secondo alcuni commentatori per sentirsi liberi di votare sì senza temere sostanziali stravolgimenti della Carta.

A proposito di numeri, gli analisti ritengono che il sì vada sostenuto per una serie di motivi che fanno capo a quattro contrassegni numerici che presi singolarmente, questo è ovvio, non significano nulla ma se inseriti in un “contesto” potrebbero rivelarsi chiarificatori.

553. Questo numero si riferisce al plebiscito con cui, dopo la formazione del Conte bis, l’8 ottobre scorso la Camera dei deputati ha approvato definitivamente la riduzione, a fronte di appena 14 contrari, del numero dei parlamentari. Una maggioranza che, forte della presenza del PD che nelle tre precedenti votazioni in merito aveva dato parere contrario, ha visto schierarsi per il sì anche parte del centrodestra. Per fare un esempio molto pratico con altre “riforme popolari”, lo scorso luglio la proposta sull’assegno unico ai figli è passata con 452 sì, circa 100 in meno rispetto al taglio.

1 ogni 100.666. Una delle tesi più sostenute dai rappresentanti del sì è che il numero dei rappresentanti eletti è troppo alto rispetto agli altri Paesi. In Germania ce ne sono 709, in Spagna 558, in Francia 577 e nel Regno Unito 650. Si tratta, comunque, di numeri parziali e che non tengono conto del fatto che quello italiano è un sistema totalmente diverso rispetto a quello dei Paesi sopra citati. Il Belpaese è l’unico, assieme alla Romania, ad avere due camere del tutto speculari nelle funzioni legislative tanto da essere definito “bicameralismo perfetto“. Si tratta di un fattore che altera il confronto. Al di là dei vari tentativi andati a vuoto di riformare il vero nodo cruciale (e problematico) di tutto il sistema parlamentare italiano, e cioè, appunto, il bicameralismo perfetto e i relativi regolamenti parlamentari. La realtà dei numeri, assoluti, però dice che l’Italia ha il numero più alto di parlamentari eletti direttamente, cioè 945. La Germania, con 23 milioni di abitanti in più, ne ha 709. Stando alle cifre riportate, ad oggi c’è un parlamentare ogni 63 mila abitanti. Dopo la riforma ce ne sarà 1 ogni 100.666, in linea con gli altri Paesi europei.

7. Sono stati ben 7 i tentativi di riduzione del numero dei parlamentari, a partire dalla già citata commissione di Aldo Bozzi del 1983 e fino alla riforma di Matteo Renzi. Peraltro il numero dei parlamentari è stato fissato con la legge costituzionale 2/1963, dunque ben prima che i Consigli Regionali e il Parlamento Europeo introducessero ulteriori forme di rappresentanza. Secondo alcuni costituzionalisti, favorevoli alla riforma, con 600 parlamentari avremmo un numero uguale a quello pensato dalla commissione De Mita-Iotti nei primi anni ’90. Non si tratterebbe, dunque, di una riforma antidemocratica.

1178. Il ddl costituzionale 1178/2008 non è stato presentato dai Cinque Stelle, dalla Lega o da Fratelli d’Italia, favorevoli fin da subito alla riduzione del numero dei parlamentari, bensì dal Partito Democratico. Dodici anni fa, una riforma del genere era vista come un tentativo di innovazione della linea politica del polo progressista italiano della Seconda Repubblica. Si trattava di dare un’accelerata alla produttività delle Camere, poiché alcuni indagini interne portarono alla luce che il 40% dei deputati aveva disertato più di un terzo delle votazioni, con punte del 66% senza missioni.

Le ragioni del sì sono numerose, alcune delle quali vanno ben oltre la profondità dei numeri. Si tratta di osservazioni tecniche relative al futuro della democrazia. Ciò di cui si sta parlando è della democrazia rappresenativa. Essa si basa sul Parlamento, che in Italia non sta messo molto bene. Per colpa di alcuni esecutivi è diventato invisibile. A lungo scavalcato dall’abuso dei decreti legge, con la scusante della “necessità e urgenza” si è determinata una situazione poco allegra, allarmante per il futuro del potere legislativo in Italia. Al contempo, risulta essere vero che il declino della rappresentanza politica in Italia è dovuto soprattutto all’incapacità degli eletti di farsi portavoce degli interessi dei propri elettori, complice una cronica ignoranza istituzionale, politica ed economica degli stessi. Ma questo non è dovuto ad alcuna riforma, o presunta tale. Si tratta di un problema culturale. D’altronde “noi siamo ciò che eleggiamo“.

Così facendo, il Parlamento è diventato, più che una cassa di risonanza delle istanze italiane, un palcoscenico dove si esibisce il peggio della società italiana. La Camera e il Senato ce li ricordiamo non per una particolare, costruttiva e accesa discussione attorno ad una legge bensì per gli spettacoli osceni di alcuni parlamentari. Più quell’aula sarà sorda e grigia e meno democrazia avremo.

Ovviamente, non si sa quanto cambierà con il taglio dei parlamentari, poiché la questione circa il declino del “fare politica” non ha nulla a che vedere con la rappresentanza. Ridurla, però, secondo alcuni “aiuterebbe”. Si potrebbe discutere a lungo sui regolamenti, sulla legge elettorale e sulle commissioni che vedrebbero diminuito il numero degli eletti partecipanti.

In conclusione, nel caso in cui vincesse il sì, i partiti di maggioranza sarebbero costretti ad aprire un lungo e profondo periodo di riforme, da portare a termine entro la fine della legislatura. Molto andrebbe e andrà fatto e, tenendo conto dell’incertezza su cui poggia il Conte II, non è scontato.

In molti, però, obietterebbero: “Se una cosa è giusta non smette di esserlo perché ce ne sarebbero altre dieci da fare“.

Verso il referendum: perché no

Gran parte dei costituzionalisti sottolinea come questo referendum costituzionale non consenta di premiarle per il semplice motivo che il taglio proposto è lineare, a sé stante e non è incluso in una riforma che consenta di sfruttare la riduzione per rendere le Camere più efficienti e rappresentative. Sono molte e significative le lacune create da questo taglio privo di una cornice di riforma e che, appunto, interessa “solo” tre articoli e rimanda qualsiasi altro artifizio parlamentare in ottica regolamentare ed elettorale al futuro prossimo.

Ridurre i parlamentari, infatti, senza rivedere le funzioni del Parlamento – numero e ruolo delle commissioni per cominciare – significa dar seguito a numerose difficoltà dagli esiti imprevedibili. In seconda istanza, e questa è una delle motivazioni più interessanti per il “no”, creare collegi più grandi significa ridurre la rappresentanza delle minoranze, mentre nelle campagne elettorali significa chiudere la strada a chi non ha la disponibilità economica per sostenere una candidatura. Ciò significa che il rapporto eletti/elettori si indebolirà fino al punto che nelle regioni più piccole (Basilicata, Molise) si creerà una situazione maggioritaria.

Questi sono solo gli aspetti tecnici, poi vengono quelli più politici, in senso stretto. Da anni le cronache suggeriscono agli italiani che non è la quantità degli eletti il problema, bensì la qualità. Il Parlamento è diventato uno squallido palcoscenico perché il livello culturale della società, che contribuisce a popolare quelle sedie o a votare chi deve riempirle, è drasticamente calato. Si dice spesso che la politica è lo specchio della società. Dunque, se dei lestofanti siedono nelle Camere vuol dire che coloro i quali hanno deciso di conferire loro un mandato quinquennale per rappresentarli sono come loro. Il vulnus, dunque, non è nella quantità dei deputati o dei senatori, ma nella qualità, nella loro selezione. Inoltre, chi garantisce che una volta eliminati 345 parlamentari, i lestofanti sparirebbero una volta per tutte? Anzi, il loro voto conterebbe di più rispetto a prima.

E ancora. Un elettore potrebbe commentare questa domanda adducendo delle ragioni circa i 500 milioni di euro che lo Stato risparmierebbe ogni legislatura. In realtà un calcolo dell‘Osservatorio dei conti pubblici italiani ha stabilito che il risparmio netto ammonta a poco meno della metà, cioè 285 milioni pari ad appena lo 0,007% della spesa pubblica italiana.

Nel giro di un paio d’anni, la maggioranza dovrebbe dar seguito a tutti quei progetti per compensare la riduzione del numero, il mal di pancia degli interni del PD e il “dovere morale” del Movimento Cinque Stelle. Uno di questi sarebbe l’allineamento a 18 anni dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato. Poi c’è la modifica dell’art. 57 della Costituzione, riguardante l’elezione dei senatori su base circoscrizionale e non più regionale (una riforma enorme), con l’obiettivo di scongiurare una penalizzazione eccessiva dei partiti minori nelle regioni più piccole. Inoltre, c’è anche la modifica dell’art. 83, cioè quello legato all’elezione del Capo dello Stato. Attualmente al voto in seduta comune partecipano tre delegati per regione, per un totale di 60 delegati. La maggioranza vuole abbassarne il numero a due, in modo tale che il peso rispetto al “nuovo” Parlamento sia bilanciato. Infine c’è la legge elettorale, sulla quale la maggioranza è totalmente divisa, dato che la soglia di sbarramento al 5% è osteggiata ferocemente da Italia Viva.

In questo caso, si tratterebbe della classica questione di fede: “credere alla capacità dell’attuale esecutivo di dar seguito a riforme di una certa rilevanza, oppure no”.

A supportare il no, sono scesi in campo più di 200 costituzionalisti, i quali hanno riassunto il loro pensiero in questa breve ma importante nota: “la riforma svilisce il ruolo del Parlamento e ne riduce la rappresentatività, senza offrire vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza, né su quello del risparmio della spesa pubblica. Sembra ispirata da una logica punitiva nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa“. E il taglio “presuppone che la rappresentanza nazionale possa essere assorbita in quella di altri organi elettivi (Parlamento Europeo, Consigli regionali, Consigli comunali…) contro ogni evidenza storica e contro la giurisprudenza della Corte costituzionale“.

A cosa serve davvero il taglio dei parlamentari? Un’opinione al riguardo

Non che ci siano buone ragioni per votare da entrambe le parti, anche se uno studio approfondito dell’iter di approvazione spiega benissimo come il percorso della legge si sia inserito nella solita battaglia politica basata sul nulla, su posizioni preconfezionate. Nel luglio del 2019, Pd e Leu votarono contro per la terza volta di fila, mentre Forza Italia non partecipò al voto. Tre mesi dopo, con un altro esecutivo, tutti i partiti si allinearono alla posizione del M5S perché avevano ricevuto rassicurazioni o promesse sulla futura legge elettorale. Oggi, dopo la pandemia, gli schieramenti tornano a dividersi, sia per le ragioni più impellenti, come la rappresentanza dei territori, sia sulle meno nobili ragioni di partito.

Scendere a 400 deputati e 200 senatori, porta risparmi trascurabili allo stato. Nulla, se confrontati con il gigantesco debito pubblico che quest’anno raggiungerà la cifra monstre di 2.530 miliardi di euro. Se quei soldi vengono messi sul piatto come ragioni per votare sì, non sono una ragione sufficiente per dare un taglio alla democrazia.

Più che ragioni di parsimonia, in questo referendum prevalgono gli scandali di trent’anni di cattiva politica, la quale ha generato un sentimento popolare profondamente antagonista nei confronti dell’attività parlamentare, tanto da spingere gli elettori a chiederne lo scalpo per principio. Si tratta di una riforma tecnicamente vendicativa, da parte di un movimento che altro non è il contenitore del risentimento popolare. Era inevitabile che si arrivasse ad un punto del genere, dato che il decennio di antipolitica appena trascorso ha portato gli elettori a stufarsi dei “politici di professione”, eleggendo persone “normali” e apparentemente oneste. L’essenza della riforma è questa. Niente di più e niente di meno. Il taglio riassume dieci anni di urla, strepiti, e di offese ad una classe dirigente incapace di dare delle risposte.

E non si tratta nemmeno di una questione di efficienza. Il problema centrale del lavoro delle Camere non sta nel numero dei parlamentari, bensì nell’efficienza di Camera e Senato. La sforbiciata delle poltrone non peserà sulle logiche parlamentari, regolate da leggi elettorali, regolamenti e dal bicameralismo perfetto. Infatti, il cuore della questione è questo. Si sarebbero dovuti, semmai, riscrivere tutti i regolamenti e le nuove commissioni, presentando un quadro già pronto per il “dopo taglio”, spiegando in virtù di quali modifiche le due camere lavorerebbero meglio di quanto non possano fare le attuali.

Seguire la strada dell’abolizione del bicameralismo perfetto, dove si annidano interessi e lungaggini, magari seguendo proprio la strada della riduzione del numero dei parlamentari, associando il tutto a meccanismi più rigidi circa la selezione da parte dei partiti e ad una legge elettorale proporzionale.

Tagliare tout court, rimandando qualsiasi “correttivo” al futuro è una sfida tosta, un salto nel buio dagli esiti inaspettati, dato che si tratta di una legge costituzionale e non di una ordinaria e servirebbero tempo e voti per modificarla. Inoltre, casomai il taglio si rivelasse un fallimento, tutti i partiti proponenti ne dovrebbero rispondere davanti allo stesso elettorato che per mesi hanno fomentato. Ridurre, il taglio ad una mera questione vendicativa, adducendo scuse circa il risparmio e l’efficienza, è, insomma, una scorciatoia per “menti semplici”.

Per cambiare il Paese, bisogna partire dal basso. Certe volte, chiudersi dietro a freddi numeri senza interpretarli, non porta a nulla”.

Donatello D’Andrea

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