Perché la crisi tunisina interessa anche l’Italia

Perché la crisi tunisina interessa anche l'Italia
Non solo sbarchi, le proteste tunisine potrebbero interessare il Belpaese anche sotto ben altri - e più importanti - aspetti. (Fonte immagine ANSA)

Domenica 25 luglio, il Presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied, ha rimosso il Primo Ministro Hichem Mechichi dal suo incarico e ha annunciato che assumerà gli incarichi di governo con l’aiuto di un primo ministro di sua nomina. In molti hanno descritto la mossa presidenziale come un colpo di stato, un incidente che in un periodo difficile come quello pandemico potrebbe portare a una gravissima destabilizzazione del Paese, baluardo democratico del Nord Africa e principale partner diplomatico e politico dell’Italia nel Mediterraneo centrale. Il giorno dopo la rimozione del capo del governo, si sono verificati i primi scontri tra manifestanti fedeli all’esecutivo e l’esercito, inviato per bloccare l’ingresso dei parlamentari all’interno dell’edificio.

Il 25 luglio non è soltanto la data d’inizio del caos politico più grave dalla primavera araba, è anche la Festa della Repubblica tunisina; ed è il secondo anniversario dalla morte dell’ex Presidente Beji Caid Essebsi, la figura più importante della Tunisia post-rivoluzionaria.

La crisi, comunque, non è arrivata per caso. Da decenni il Paese versa in una condizione sociale ed economica molto difficile. La disoccupazione è vicina al 18%, quella giovanile al 40%. La povertà dilaga e i prezzi dei beni di prima necessità subiscono numerosi e periodici rincari. La pandemia di Covid-19 non ha fatto altro che peggiorare una situazione potenzialmente esplosiva: la pessima gestione delle misure di contenimento del contagio – con una media di 150 decessi giornalieri, che rende la Tunisia il Paese africano con la mortalità pro capite più alta del continente – e della successiva vaccinazione (meno del 7% della popolazione è stata vaccinata) hanno portato allo scoperto le decennali criticità di un sistema sanitario perennemente in affanno.

Di riflesso, la crisi tunisina preoccupa e non poco l’Italia. I pericoli, però, non arrivano soltanto dall’immigrazione – si contano decine di sbarchi soltanto nelle ultime 24 ore – e dalla minaccia di un esodo massiccio (si dice che ci siano 500mila tunisini pronti a lasciare la madrepatria per trovare rifugio in Europa) ma anche dalle implicazioni geopolitiche dell’instabilità politica che potrebbero portare altre potenze ad affacciarsi verso Tunisi. Insomma, ci sono buone probabilità di una “seconda Libia“, con Turchia, Russia, Egitto e Paesi arabi a contendersi fette di territorio, cercando di ricacciare in mare le potenze europee e gli occidentali in generale, colpevoli di aver giocato troppo sulla pelle delle popolazioni autoctone. Il rischio di perdere un partner importante, l’ennesimo, è molto alto. Ecco perché, la crisi tunisina interessa anche il Belpaese.

Alle origini della crisi

Non è una sorpresa che il 25 luglio la popolazione sia scesa in piazza nelle principali città del Paese. E non è una sorpresa che i destinatari delle proteste siano stati proprio il Primo Ministro Mechichi, il presidente del Parlamento  Rached Ghannouci e il partito islamista Ennahdha.

I tunisini si sono riversati per le strade per dimostrare la loro frustrazione verso una classe dirigente responsabile del baratro economico e sanitario. La Tunisia, infatti, con circa 150 morti al giorno, è il Paese africano con la mortalità pro-capite più alta del continente, gli ospedali sono al collasso, mancano ossigeno, posti letti, mascherine e materiale sanitario. Inoltre, soltanto il 7% della popolazione è stata vaccinata. Se non fosse per gli aiuti giunti dai diversi Paesi del mondo, tra cui l’Italia, la situazione sarebbe profondamente peggiore. A dimostrazione di quanto detto finora, c’è la fallimentare gestione dei centri vaccinali, finiti in mano all’esercito per manifesta incapacità organizzativa.

Al di là della Covid, a inasprire il malcontento generale della popolazione si sono aggiunti il rincaro continuo dei beni di prima necessità, la disoccupazione galoppante (17,8%) e quella giovanile giunta ormai al 40,8%, la violenza delle forze dell’ordine, la sfiducia nei partiti di governo e la crisi economica. Si tratta di ragioni plausibili ed esasperanti che hanno portato la popolazione a scendere in piazza nonostante i contagi, dopo aver pubblicato qualche giorno prima un manifesto con le rivendicazioni che avrebbero portato le persone a protestare. Tra le più importanti è d’obbligo citare lo scioglimento del Parlamento, l’indipendenza del potere giudiziario e la revoca dell’immunità parlamentare ai deputati accusati di aver commesso crimini sfruttando la loro posizione istituzionale.

Le rivendicazioni non sono casuali, dato che sono dirette nei confronti del partito islamista di Ennahdha. Infatti, sono diversi i rappresentanti della formazione politica (tra cui proprio il suo Presidente Ghannouchi), indagati in merito alla ricezione illecita di fondi statali – si parla di prestiti che la Tunisia ha ricevuto dal 2011 in poi – e da più di un anno, il Parlamento continua a rimandare la calendarizzazione del voto per rimuovere l’immunità per chi ha commesso reati sfruttando la propria posizione di preminenza istituzionale. Inoltre, il partito islamista ha deciso di riaprire un dossier per il risarcimento dei danni che lo stesso ha subito durante il regime di Ben Ali. Si parla di una cifra che si aggira attorno ai 3 miliardi di dinari (1 miliardo di euro). Una notizia del genere, comprensibilmente ha suscitato l’ira della popolazione, la quale nonostante il blocco della polizia, si è riversata davanti al Parlamento gridando slogan contro la cattiva politica.

La polizia ha caricato i manifestanti a Tunisi e in altre città con la consueta violenza. Ci sono stati diversi feriti e numerosi fermi.

La risposta politica non si è fatta attendere. Il Presidente Kais Saied ha invocato l’art. 80 della Costituzione, che gli consente di prendere misure straordinarie “in caso di pericolo imminente che minaccia le istituzioni della nazione o la sicurezza o l’indipendenza del paese, e che ostacola il normale funzionamento dello Stato, il Presidente della Repubblica può prendere tutte le misure rese necessarie dalle circostanze eccezionali, dopo aver consultato il Capo del Governo e il Presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e aver informato il Presidente della Corte Costituzionale“. Si tratta comunque di una misura limitata, la cui durata non può superare i 30 giorni.

Il Presidente, in nome di tale articolo, ha rimosso Hichem Mechichi, spostando il potere esecutivo nelle sue mani, ha congelato i lavori parlamentari e ha tolto l’immunità per i deputati e ha imposto a questi ultimi di non uscire dal Paese. Tale divieto è stato allargato anche ai sindaci e ai dirigenti di grandi società. Entro i trenta giorni previsti dalla misura straordinaria, il capo dello stato dovrà provvedere a scegliere un nuovo Primo Ministro.

La decisione presidenziale è arrivata dopo che, a gennaio, Mechichi era stato nominato da Kais Saied come Primo Ministro di un governo tecnico e apartitico che fronteggiasse la pandemia e la crisi istituzionale ed economica in cui versava il Paese. Nonostante le premesse, l’esecutivo era sceso a patti con i partiti, soprattutto con quello islamista, snaturando la sua nomina e finendo per iniziare una battaglia contro la stessa presidenza che aveva proceduto alla sua investitura. Per diverso tempo Kais Saied si era rifiutato di nominare diversi ministri e aveva chiesto più volte a Mechichi di dimettersi, soprattutto in seguito all’ennesimo episodio di violenza che aveva interessato le forze dell’ordine (un brutale arresto di un minorenne a Tunisi).

La reazione dei partiti a questo colpo di mano della presidenza non si è fatta attendere. Ovviamente i primi a rispondere sono stati il Presidente del Parlamento Ghannouchi e alcuni membri del suo partito di appartenenza, Ennahdha. Diversi parlamentari hanno dichiarato la propria opposizione nei confronti dell’utilizzo così spregiudicato dell’articolo 80. Non contenti hanno cercato di entrare nella sede parlamentare ma sono stati bloccati dall’esercito che vigilava sull’entrata. Altri partiti, come Al Karama, Qalb Tounes e il Blocco Democratico, hanno dichiarato di essere molto preoccupati dalla reazione presidenziale e dall’invocazione dell’art. 80.

Desta preoccupazione anche lo sgombero degli uffici tunisini di Al Jazeera, nota agenzia di stampa araba, da parte delle forze dell’ordine, che hanno portato il sindacato dei giornalisti a diffondere un comunicato circa la sua preoccupazione per la limitazione della libertà di stampa.

Nel frattempo, le piazze sono gremite di cittadini in procinto di scontrarsi tra di loro. Da un lato ci sono i sostenitori del partito islamista, contrario al colpo di mano di Kais Saied, dall’altro ci sono, invece, coloro che hanno approvato la reazione del Presidente della Repubblica alle inefficienze della politica. Ed è proprio questo lo scenario che si prospetterà nelle prossime settimane, con una pandemia che incombe e che continua a mietere vittime, e una instabilità istituzionale che di certo non migliorerà la situazione.

Nel frattempo sono migliaia gli sbarchi previsti in queste settimane. Fonti tunisine riferiscono di 15mila persone decise a lasciare il Paese nel breve termine per trovare rifugio in Europa. L’Italia, per posizione geografica ma anche per interessi particolari, si ritroverà in prima linea a fronteggiare un’emergenza che coinvolge uno dei baluardi occidentali nel Nord Africa.

Perché è una crisi che ci riguarda

Benché sia un partner strategico, l’Italia non sta giocando alcun ruolo nei disordini che stanno travolgendo la Tunisia. In passato, invece, il Belpaese aveva più volte fatto sentire il proprio peso nelle scelte politiche compiute in loco. Basti pensare che l’ultimo dittatore locale è stato imposto dall’Italia. Oggi, invece, a prevalere sono le istanze emiratine, saudite e turche.

In particolare, le inflitrazioni di Ankara succedono la presa di potere in Libia, dove l’Italia è formalmente alleata dei turchi. Se l’influenza di Erdogan travolgesse anche la Tunisia, non sarebbe una bella notizia per Palazzo Chigi. Paradossalmente, secondo esimi commentatori geopolitici, gli sviluppi a Tunisi sembrerebbero sorridere più all’Italia che alla Turchia, nonostante Roma non abbia ancora mosso un dito. Questo perché la presenza di più competitor potrebbe finire per indebolire Ankara.

La costante evoluzione degli eventi dovrebbe, al contrario di quanto sta accadendo, essere monitorata dalle istituzioni italiane, intelligence compresa, affinché il corso degli eventi non vada ad incidere sugli interessi italiani in loco. Inoltre, quanto sta accadendo dovrebbe mandare un messaggio anche all’Europa e alla sua scellerata gestione della stabilizzazione della democrazia tunisina nel 2011, dopo aver aiutato il processo nel Paese. I segnali critici di una democrazia instabile si erano già palesati nel 2014.

Cosa fare? L’Italia ha l’opportunità di muovere la politica tunisina in modo abbastanza chiaro ed evidente. E può prendere le redini della crisi in modo da non vedersi intaccati i propri interessi, a partire dalla gestione dei flussi migratori che sottolineano una instabilità sociale evidente che rischia di diventare piena emergenza. E tutto questo in periodo di Covid, dove la situazione è molto più delicata. Roma può porsi come attore di mediazione, affermando la propria presenza in loco. La mediazione, infatti, se compiuta da una posizione di forza (con il sostegno dell’Europa, magari) non è un atto di debolezza ma un elemento in grado di dare forza politica.

L’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia, con oltre 890 imprese e un volume di scambi tra i due Paesi pari a 16 miliardi nel 2018 e con un tasso di copertura del 70%. Ma non è solo una questione economica. La posizione della Tunisia è strategica perché permette di controllare l’ingresso nel Mediterraneo centrale e dei buoni uffici che garantiscono la permanenza della presenza italiana ambo i lati della costa (italiana e tunisini). Per comprenderne l’importanza storica basti pensare al celeberrimo schiaffo di Tunisi e alla propaganda fascista su Biserta (“Biserta in mano francese, è una pistola puntata contro la Sicilia“). Non è auspicabile lasciare una “porta aperta verso l’Occidente” nelle mani di rivali strategici.

L’Italia in Tunisia non può – e non deve – fare lo stesso errore compiuto con la Libia. La politica estera deve ritornare ad essere una delle specialità del Paese e non un semplice orpello da mettere in secondo piano.

Donatello D’Andrea

Lascia un commento