Seconda ondata, cosa abbiamo sbagliato?

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, durante la conferenza di domenica mentre illustrava i provvedimenti adottati dal nuovo Dpcm. FOTO La Repubblica

Domenica mattina, all’ora di pranzo, il Presidente del Consiglio ha presentato in conferenza stampa il nuovo decreto contenente un inasprimento delle misure approvate la settimana prima, circa la lotta contro una delle peggiori crisi sanitarie degli ultimi decenni. L’intervento, necessario dato che l’improvvisa impennata di casi positivi secondo Andrea Crisanti ha addirittura “azzerato i sacrifici” compiuti dagli italiani negli ultimi mesi. Parole dure, di difficile comprensione visto che, nonostante le numerose premesse, l’intera Europa è stata colta di sorpresa da un’ondata che gli scienziati avevano previsto in tempi non sospetti.

La settimana scorsa, il direttore generale dell’OMS ha ripetuto che il numero di nuovi casi non è mai stato così alto e ha attaccato tutti coloro che continuano a sollevare la bufala dell’immunità di gregge come una strategia valida per contrastare la Covid-19. L’evidenza più importante portata a supporto dell’invalidità della tesi sostenuta da buona parte della popolazione è quella riguardante la possibilità per un individuo di contrarre la malattia una seconda volta, senza considerare gli effetti a lungo termine che una lunga esposizione può provocare nel paziente.

La strada è ancora lunga, insomma. Una gestione parziale e temporanea dell’emergenza, mirante solo a “tamponare” un problema nella speranza di un vaccino, la cui efficacia è ancora da dimostrare nonostante il lodevole lavoro della scienza mondiale, o di un intervento fortuito del destino, non è la soluzione giusta. Bisogna lavorare a dei meccanismi che permettano di gestire la crisi sul lungo periodo, in modo costruttivo e preventivo.

Sappiamo benissimo che la Cina è stato il primo Paese colpito da questa tragedia, ma negli ultimi mesi ha dimostrato sapientemente di essere riuscito a controllare il contagio, attraverso misure drastiche, veramente draconiane e, in sostanza, realmente limitative delle libertà interpersonali. Dall’inizio della pandemia, a Pechino si sono contati solo 9 morti e per quanto sia legittimo dubitare delle stime ufficiali, in tutti i casi e non solo quello cinese, è indubbio che l’Oriente abbia saputo gestire molto meglio la pandemia rispetto all’Europa Occidentale. Altri esempio? La Corea del Sud, oppure il Giappone.

Nel caso coreano, il paragone è impietoso. Dall’inizio della pandemia il picco dei casi giornalieri è stato di 909 casi. Inoltre, a fine agosto, il governo locale è riuscito a bloccare una seconda ondata mantenendosi sempre attorno ai 100 casi giornalieri. Indubbiamente l’aver già affrontato delle emergenze simili, come la MERS, ha aiutato molto, però non si può negare che la Corea del Sud rappresenta un modello mondiale nella lotta al contagio. Il migliore, a dire il vero.

Cosa abbiamo sbagliato?

Non si può non notare che in Asia tutti i governi abbiano investito più risorse nella salvaguardia della salute pubblica, attraverso investimenti mirati, assidua partecipazione popolare e con la collaborazione attiva della tecnologia.

La strategia coreana, ad esempio, detta “test-trace-contain” ha avuto un’immediata applicabilità grazia alla propensione tecnologica dell’autorità e all’uniformità dei dati messi a disposizione di una squadra investigativa con il compito di seguire gli spostamenti degli infetti. Questo processo è stato col tempo implementato. Prima richiedeva un periodo di 24 ore, con interrogazioni ai soggetti e ai familiari e con la consultazione dei pagamenti effettuati con carta, dei dati GPS e delle registrazioni delle telecamere. Dal 26 marzo è entrato in funzione un software che riduce il processo a soli 10 minuti.

Ad ogni persona identificata era imposta una quarantena di due settimane, ogni giorno dovevano trasmettere, tramite app, la temperatura e i sintomi che manifestavano. Nel caso in cui la quarantena fosse stata violata, un segnale avvisava la squadra che contattava il soggetto. Nel caso in cui, l’infrazione fosse ripetuta, il caso passava alle autorità. Dopo le due settimane, i soggetti erano liberi di cancellare l’app e tutti i dati che li riguardavano venivano eliminati dal sistema centrale.

Un’efficienza fuori dal comune, unita al tradizionale senso civico della popolazione coreana. Nessun lamento, nessun grido d’allarme per i diritti violati, contro una “dittatura sanitaria”. Una mentalità, figlia della cultura orientale, meno attaccata al benessere rispetto a quella europea e molto più sensibile ai richiami governativi.

Ma c’è anche una diversa concezione dello stato e della sua presenza da parte della popolazione. Non è un caso che i tre Paesi che in tutto il mondo hanno gestito meglio la pandemia siano Corea del Sud, Taiwan e Vietnam. In Occidente, lo stato ha cercato di farsi carico degli oneri derivanti dalla gestione della crisi sanitaria, ma la politica non ha gli stessi strumenti e la stessa legittimazione per pensare negli stessi termini coreani. La devolution, la cessione di sovranità agli enti locali, soprattutto nelle materie strategiche come sanità e trasporti, hanno costituito più un impedimento che un incentivo alla collaborazione e alla gestione territoriale del fenomeno. Il Giappone, ad esempio, identificato da una mentalità più occidentale rispetto alla Corea, è quello che se l’è cavata peggio nella regione, anche se è in condizioni che farebbero davvero comodo a qualsiasi stato europeo.

Tipo alla Francia, che nella giornata di domenica ha superato la soglia dei 50mila contagi giornalieri. Emmanuel Macron ha diramato dapprima un coprifuoco notturno e poi un lockdown soft.. L’obiettivo del Presidente è quello di riportare il carico di casi “tra i tremila e i cinquemila” al giorno. Assieme a questa misura, verranno implementati degli aiuti economici per assistere i redditi colpiti e altri provvedimenti che interessano bar, ristoranti, teatri e cinema.

In Italia, invece, la situazione è in evoluzione, nonostante si contino già più di 30mila casi. La curva epidemiologica continua a salire e il governo, il quale nella prima fase è riuscito a gestire con una certa destrezza la crisi sanitaria, sembrerebbe essere entrato in uno stato di confusione, probabilmente generato dall’incapacità di coniugare salute ed economia. Di contro, l’opinione pubblica continua a concentrarsi sulle sciocchezze, come la movida, e non sulle terapie intensive e del loro aumento. Sul tavolo del governo ci sono le 11mila terapie promesse ma mai veramente implementate per i ritardi delle regioni e dello stesso Arcuri.

Inoltre, e questo non è solo un problema italiano, pur sapendo che la seconda ondata sarebbe arrivata in inverno, la sensazione è che nessun governo si aspettasse una degenerazione pandemica così drastica e veloce. A questo hanno contribuito gli scienziati, soprattutto quelli più esposti da un punto di vista mediatico che hanno reso impopolare qualsiasi tipo di intervento o di discussione attraverso minimizzazioni, attacchi politici e insulsi dubbi che hanno incattivito la popolazione, facendola entrare in uno stato confusionale, ed esasperato i negazionismi più disparati.

Non solo scienza ma anche politica. Le opposizioni hanno fatto di tutto per infervorare l’opinione pubblica, aizzandola contro il potere governativo e polarizzando un dibattito che non ha nulla di partigiano, dato che si tratta della salvaguardia dell’incolumità dei cittadini italiani. Dall’altro lato, il governo non è riuscito a fare tesoro dell’esperienza e della situazione di relativa calma creatasi dopo le aperture di giugno, in cui doveva essere programmata una ripartenza e soprattutto un sistema di tracciamento dietro al quale avrebbe dovuto celarsi una pronta ed efficiente reazione medica e sanitaria. Il sistema è saltato ed è diventato difficoltoso ricostruire la catena dei contagi. Insomma, se prima era il governo a tracciare preventivamente, ora è il sistema sanitario a rincorrere la pandemia. Come a marzo.

In questo contesto si colloca la scarsa collaborazione con le regioni, le quali hanno preferito agire per conto proprio. A partire dall’implementazione di Immuni, fino alla scellerata riapertura delle discoteche per futili motivi elettorali. L’ultima notizia in ordine temporale è lo stanziamento di fondi per il potenziamento della sanità (circa 4 miliardi) usati soltanto in parte e non da tutte le autonomie locali. Certamente, il governo avrebbe potuto far valere la propria autorevolezza, arrogandosi il diritto di decidere per la salvaguardia dell’incolumità dei propri cittadini ma le divisioni in seno alla maggioranza circa le modalità di intervento e un’opinione pubblica restia alle limitazioni hanno ingabbiato la libertà d’azione dell’esecutivo.

Non solo scienza e politica, ma anche sociologia. L’autorità centrale si è trovata a dover fare i conti con una società incapace di rinunciare al benessere, al divertimento e alla superficialità che la caratterizza. In queste condizioni una convivenza forzata con il patogeno non è impossibile, è addirittura un’utopia. Ciò che è successo in estate, e continua a succedere tuttora con manifestazioni di disobbedienza e menefreghismo, ne è la prova. D’altronde, ben prima del rispetto delle prescrizioni particolari sulle attività o i comportamenti specifici, gli italiani avrebbero dovuto attenersi a tre semplici prescrizioni: mascherine, distanziamento e divieto di assembramenti.

Gli interventi del governo, tre in meno di venti giorni, sottolineano tutto questo. La sorpresa di un contagio rapido e tremendo, l’insofferenza popolare e l’incubo di marzo sono i minimi comuni denominatori di una situazione potenzialmente esplosiva e che, con la saturazione delle terapie intensive e dei posti letto, potrebbe rivelarsi ben peggiore di quella precedente, dove il record di contagi giornalieri fu di 6.000 persone, oggi siamo a 31mila. Seppur sia migliorata la capacità di curare i pazienti, e di individuarli, con la conseguente riduzione delle morti e delle ospedalizzazioni, in un contesto confusionario le cose potrebbero cambiare (e precipitare) rapidamente.

Fatto sta che la pandemia è entrata in una fase acuta e già si registrano i primi disservizi territoriali, con l’aumento del tasso di occupazione dei posti letto in terapia intensiva e con la possibilità che nel prossimo mese alcune regioni arrivino già a saturazione. A complicare la congiuntura ci sono anche le scuole, al centro di polemiche interminabili e grande neo dell’esecutivo, il quale dopo appena due mesi dalla loro riapertura, non riesce a garantire il regolare svolgimento delle lezioni a causa dell’inadeguatezza delle infrastrutture, la carenza di insegnanti e soprattutto della scarsità dei mezzi di trasporto. E in quest’ultimo caso, l’istruzione incontra il lavoro, dato che sugli autobus ci viaggiano anche i lavoratori.

Ovviamente non si possono sottovalutare le conseguenze della pandemia sull’economia italiana e globale. L’Italia non navigava nell’oro prima e sicuramente questa batosta non sarà indolore. Le autorità hanno già predisposto degli aiuti ma per rilanciare i consumi serviranno dei provvedimenti strutturali ben diversi dai semplici aiuti a fondo perduto, comunque una boccata d’ossigeno per le categorie più colpite.

Una responsabilità non indifferente è ascrivibile anche alla categoria dei mass media, i quali in determinati casi non hanno svolto egregiamente il loro lavoro, adoperando molto spesso il clickbait e rendendosi complici di un’infodemia che in questi giorni sta dando i suoi frutti (marci).

Se un giorno qualcuno dovesse chiedersi il motivo per cui a distanza di sei mesi l’intero Paese sia ripiombato nell’incubo di una violenta seconda ondata, le risposte andrebbero cercate in un quadro ben più ampio rispetto a quello che viene di solito prospettato. Anche in questo caso, dunque, non esistono risposte semplici a problemi complessi.

Donatello D’Andrea

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