In Medio Oriente si respira (ancora) aria di guerra

In Medio Oriente si respira (ancora) aria di guerra
L'uccisione dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh potrebbe rispondere a una comprovata strategia mirante a mantenere alta la tensione in Medio Oriente, rendendo difficoltoso ogni tentativo di dialogo (FOTO Fars News Agency via AP)

Venerdì è stato ucciso a Teheran, capitale dell’Iran, Mohsen Fakhrizadeh, il più importante scienziato nucleare iraniano. Aveva 62 anni, ed è stato assassinato da un commando armato mente viaggiava in auto a 60 km dalla capitale. Le ore successive sono state molto calde in Iran. I vertici politici e militari hanno promesso ritorsioni contro i responsabili, chiamati “terroristi”, rivolgendo il dito contro i servizi segreti israeliani. Questi sospetti, secondo il New York Times, sembrerebbero fondati anche se, fino ad ora, non c’è stata alcuna conferma ufficiale. E forse, non ci sarà mai.

Ci si muove solamente sulla base di ipotesi

Non c’è dubbio che l’Iran sia il principale avversario di Israele nel Medio Oriente. Da anni Tehran ritiene gli israeliani responsabili della morte di importanti esponenti del programma nucleare iraniano. Secondo fonti interne, e stando alle numerose ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’Iran avrebbe abbandonato da diversi anni il suo programma nucleare a scopi militari sostenendo di proseguire la ricerca solo per scopi civili. Infatti, è stata proprio l’AIEA a dire che il Paese non dispone delle centrifughe e dell’uranio necessario per produrre una bomba atomica. Israele, dal canto suo, ritiene il contrario e afferma che a capo di questo progetto ci sia proprio Mohesn Fakhrizadeh.

Questa accusa va ad aggiungersi alle già numerosi pressioni che la presidenza Trump ha esercitato sul Paese mediorientale durante gli ultimi quattro anni. Dalla fine dell’accordo sul nucleare siglato da Obama all’assassinio di Qasem Soleimani, passando per le recenti notizie circa la volontà del Tycoon di attaccare una centrale atomica iraniana, forse su suggerimento di Israele stesso.

Tra rappresaglie, collegamenti e fuochi fatui

Dalla Casa Bianca alla CIA, dal Pentagono al team del presidente eletto Joe Biden, nessuno ha rotto il silenzio sulla vicenda negli Stati Uniti. L’unico a rilasciare un breve, ma intenso, commento è stato l’ex capo della CIA, Brennan, che ha sottolineato in un tweet come la politica di Donald Trump in Medio Oriente possa portare a una rappresaglia locale e a “un nuovo conflitto regionale“.

Stando alle parole di Brennan e alle proteste sorte nelle piazze di Teheran, lo scienziato atomico doveva essere proprio un personaggio pubblico di tutto rispetto. Infatti, Fakhrizadeh era considerato talmente centrale che i giornali lo definivano “la forza trainante nel Paese”, la “vera anima del programma nucleare iraniano”. I suoi rivali israeliani, invece, lo avevano soprannominato il “padre della bomba iraniana”.

L’Iran ha promesso che reagirà alla morte dello scienziato “al momento opportuno“, cercando di non abbandonarsi “ai tranelli dei sionisti“, cioè degli israeliani. Ciò che è certo è che il governo non potrà ignorare a lungo le proteste e soprattutto le angherie e le provocazioni subite in questo 2020. La morte di Soleimani ha privato il Paese del più importante stratega, quella di Fakhrizadeh ha tolto al Paese uno scienziato di punta.

Le due morti, però, secondo alcuni analisti sarebbero collegate. Soleimani e Fakhrizadeh erano gli architetti di due pilastri della politica di sicurezza dell’Iran. Entrambi hanno contribuito a creare l’infrastruttura e a sviluppare programmi civili e militari. Ma la loro scomparsa, molto probabilmente, spingerà il Paese a continuare con più veemenza i propri obiettivi.

Già nel 2018, quando Trump uscì dall’accordo sul nucleare siglato con Teheran dal suo predecessore, l’Iran riprese a violare le restrizioni e ad armarsi pesantemente raggiungendo, nel febbraio scorso, la possibilità e la capacità di poter costruire una bomba atomica. Non si conosce l’esatta veridicità di queste affermazioni, così come si ignorano le reali intenzioni degli ayatollah in merito, dato che l’Iran ha sempre affermato di non volersi mai servire dell’energia atomica per obiettivi militari. Ma ciò che interessa a questa discussione risponde alla possibilità che una rappresaglia iraniana sia ciò che serva ai suoi avversari per dar luogo ad un conflitto regionale che giustifichi l’intervento israeliano e statunitense. Strategia già adoperata in passato per diversi obiettivi.

D’altro canto le tensioni sociali provocate dalle morti del generale e dello scienziato, unite alle voci dissidenti nei confronti del governo che in questi mesi stanno acquistando forza e soprattutto alla ipotetica collaborazione dei “terroristi” con un gruppo di opposizione noto come Mek, che ha combattuto al fianco di Saddam Hussein durante la guerra Iraq-Iran, rendono l’equilibrio interno molto fragile e l’ipotesi di una reazione adeguata nel breve termine. Nel gennaio scorso furono bombardate, senza successo, delle basi americane in Iraq e nulla più. L’azione si accompagnò a qualche protesta in seno alla Corte dell’Aja.

Qualcuno sta sabotando l’equilibrio in Medio Oriente?

Non è chiaro se realmente gli Stati Uniti fossero al corrente dell’uccisione dello scienziato, dunque ci si muove ancora sulla base di evidenze precedenti e ipotesi di merito. Si presume comunque che, data la tradizionale e usuale condivisione di intelligence con il Mossad, gli americani sapessero qualcosa al riguardo. Inoltre, sono due gli aspetti più significativi: in primo luogo c’è un incontro segreto, negato dalle parti, avvenuto in Arabia Saudita tra Mohammad Bin Salman, erede al trono, e Mike Pompeo a cui si sarebbe aggiunto il capo del Mossad Yossi Cohen. Si tratta delle massime espressioni della violenta e spregiudicata politica nei confronti dell’Iran.

Il secondo aspetto è quello della proposta del Tycoon di attaccare la centrale atomica di Natanz, con l’obiettivo di sabotare la strada che Joe Biden intende percorrere, cioè il dialogo con Teheran sulla scia degli accordi sul nucleare stracciati proprio da Donald Trump nel 2018. Si dice che per convincere Trump a desistere dai suoi propositi bellici, i suoi consiglieri gli avrebbero proposto altre soluzioni. Due giorni prima del brutale omicidio dello scienziato, alcuni ufficiali dell’Aeronautica israeliana avevano riferito ad un giornalista che nelle ultime settimane erano stati sollecitati a prepararsi all’eventualità di un bombardamento americano in Iran prima della fine del mandato presidenziale. Un’ipotesi remota, sicuramente figlia di “sentito dire” ma che nasconde una verità di fondo: in Medio Oriente si respirano tensioni che non fanno presagire nulla di buono.

Le ipotesi si accompagnano ad assunti più o meno prevedibili come quello di un sabotaggio per saggiare la capacità iraniana di imbastire una reazione credibile dopo il fuoco fatuo di gennaio. Si tratta di un’azione rischiosa che, sicuramente, non sarà Trump a dover maneggiare. Al contempo, è pur vero che Benjamin Netanyahu ha colto la palla al balzo, dato che dal 20 gennaio avrà a che fare con un presidente vicino alle idee di Obama, che il Primo Ministro israeliano non amava sicuramente, viste le sue posizioni concilianti con il regime degli ayatollah. Ecco perché un’azione in questo senso era ampiamente prevedibile in questi ultimi mesi: nel caso in cui questi interventi provocassero un’improbabile escalation militare, l’amministrazione Biden con chi si schiererà? Con Israele ovviamente, nonostante tutte le buone intenzioni nei confronti degli iraniani.

Ovviamente l’ipotesi di un’escalation è remota. L’Iran è un Paese ancora molto pericoloso ma, evidentemente, non ancora in grado di imbastire un programma di difesa per i propri personaggi di spicco e soprattutto non è in grado di sostenere una guerra, sia economicamente che militarmente. Già questo dovrebbe bastare per scoraggiare una guerra contro un Paese militarmente preparato come Israele. A ciò, se si aggiunge che nel caso in cui scoppiasse una guerra, gli israeliani sarebbero appoggiati dal grande fratello americano e da mezzo occidente, le cose si farebbero tragiche. Inoltre, ed è importante, l’Iran non ha alleati veramente interessati a difendere la propria causa. La Russia si limita a fornire supporto logistico per il programma nucleare, e mantiene buoni rapporti anche con Tel Aviv, mentre la Cina non appoggerebbe mai Teheran in una guerra aperta contro gli Stati Uniti.

Ma, si sa, è proprio quando nessuno vuole una guerra che questa, forse per una strana congiunzione astrale, scoppia improvvisamente. Soprattutto quando una parte provoca continuamente l’altra…

In sostanza, più che un atto per prevenire un pericolo reale, proprio come Trump aveva definito l’assassinio di Soleimani, l’attentato di venerdì potrebbe avere il solo scopo di provocare una reazione iraniana e di tenere la tensione in Medio Oriente molto alta. Si tratta del celeberrimo fiammifero che, se lasciato acceso, è in grado di distruggere un intero fienile. É molto probabile che questo incendio non avverrà nel breve periodo e che nelle prossime settimane ci saranno numerose occasioni per accenderne altri, così da rendere davvero difficile ogni tentativo di dialogo futuro tra Washington e Teheran.

Non si sa quanto questa strategia possa pagare nel lungo termine, dato che le massime autorità iraniane hanno invitato alla calma, nel tentativo di fermare una pericolosa deriva sociale. Inoltre, più volte l’Iran ha definito l’accordo sul nucleare “reversibile”, nel caso in cui gli Stati Uniti avessero voluto ripercorrere la strada del dialogo.

In questo frangente si colloca la nuova amministrazione, non ancora in carica ma già pregna di responsabilità. Biden dovrà fare i conti con il lascito di Donald Trump e con orientamenti particolari che non sorridono alla causa iraniana. L’entourage del presidente eletto dovrà fare un grande lavoro per ristabilire una condizione di parità e di reciproco riconoscimento per restaurare un dialogo quanto mai necessario. E si spera, al contempo, che a questo tavolo possa sedersi anche l’Unione Europea, la quale ha un disperato bisogno di “politica estera”.

Donatello D’Andrea

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