La politica italiana ha fallito… Di nuovo

La politica italiana ha fallito... Di nuovo
iI Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Prof. Mario Draghi (Fonte immagine TPI).

L’epopea del Conte bis ha aperto l’ennesima voragine all’interno del Parlamento che Mattarella è stato costretto a tappare in fretta e furia convocando l’ex numero uno della BCE Mario Draghi, incaricato di salvare il Paese da sé stesso e soprattutto da una politica autolesionista fino al midollo e incapace di farsi carico di quello che, forse, dovrebbe essere l’unico interesse veramente importante per una classe dirigente: il bene comune.

Personalismo, egoismo, propaganda, retorica, sono solo alcuni degli elementi che, miscelati per bene, hanno prodotto una classe dirigente incapace di assumersi le proprie responsabilità e che ogniqualvolta è stata chiamata a compiere il suo dovere, ha preferito delegare il tutto ai celeberrimi e profetici tecnici. La storia degli esecutivi “di alto profilo“, è lunga: da Pella a Ciampi, passando per Dini e Mario Monti. L’ex BCE è solo l’ultimo di una lunga fila di salvatori della patria chiamati a farsi carico delle accortezze che spetterebbero ai politici.

É inutile negarlo: la politica ha fallito ancora. La politica italiana ha perso la partita più importante degli ultimi anni proprio quando aveva la possibilità di redimersi mostrando agli italiani di saper superare le beghe interne in nome di un bene superiore.

In tempo di pandemia poi, le colpe sono maggiori. Mentre il Paese viveva la peggior crisi sanitaria, economica e sociale degli ultimi settant’anni c’era chi poneva dei veti su nomi e contenuti di secondo piano come la giustizia e il reddito di cittadinanza.

A questo punto pare evidente che c’è qualcosa che non va. Da tempo immemore la classe dirigente nostrana ha mostrato evidenti carenze contenutistiche, dialettiche e morali ma mai qualcuno si era spinto oltre un limite, cioè quello che aveva a che fare con un’emergenza nazionale. Questo limite è stato ampiamente superato proprio in queste settimane.

Contenuti e poltrone

Nonostante il tentativo di buttarlo in caciara tirando fuori dal cilindro temi, contenuti e disaccordi particolari, a tutti era chiaro fin da subito che il problema erano le poltrone. O meglio, sulle poltrone la situazione è precipitata. Si è passati, in una decina di giorni, dal Recovery Plan al MES e poi al reddito di cittadinanza, alla giustizia e alla prescrizione. Che cosa abbiano a che vedere con la pandemia gli ultimi tre punti programmatici non è dato saperlo ma sono utili a comprendere come i contenuti siano solo un contorno della vicenda. Alla fine, il vero problema erano proprio i nomi e le cadreghe.

Adesso il Paese resta attaccato alla possibilità di Mario Draghi di tirare su un governo in breve tempo, sempre se riesca a trovare una maggioranza parlamentare. Infatti, nonostante il governo possa cambiare, i nomi in Parlamento restano gli stessi. I capricci pure.

E non finisce qui. Stando alle dichiarazioni di questi giorni, i giochetti politici sembrano non volersi fermare. Prima nessuno voleva stare con Draghi, ora c’è la fila fuori Palazzo Chigi. La Lega e il Movimento Cinque Stelle, i due gruppi più grandi in Parlamento, dopo un’iniziale diffidenza con ogni probabilità entreranno nel nuovo esecutivo. Salvini, addirittura, sembrerebbe essere diventato europeista con dichiarazioni che mettono in discussione gli ultimi dieci anni della sua attività politica. I grillini, dal canto loro, non sanno se rimettere la questione direttamente ai loro elettori su Rousseau. Una mossa pericolosa, dato che la base del partito sta con Conte, il quale dal canto suo ha incensato il Presidente del Consiglio incaricato e si prepara a capitalizzare il suo consenso personale. Infine c’è lui, Matteo Renzi che ha benedetto Draghi, appoggiandolo “a prescindere dai contenuti” e si crogiola sui giornali della sua “mossa del cavallo” ai danni del capo del governo uscente. Un’albagia indecorosa.

Come è possibile notare, questa classe dirigente non conosce contenuti e li usa come spauracchio per il popolino che, in molti casi, è incapace di comprendere le dinamiche politiche fino in fondo per imperizia o disinteresse. Il teatro di questi giorni, con coloriture farsesche, va avanti da tempo e ha origine proprio nel 2019 quando nacque il secondo esecutivo di Conte.

L’unica ragione era quella di posticipare il voto e logorare il consenso del centrodestra. Un’operazione in parte riuscita grazie solamente alla pandemia e alla leadership di Giuseppe Conte che ha saputo compattare le forze politiche e soprattuto il Paese e guidarlo, non senza errori, dentro la crisi più grave dal dopoguerra. Ciò non è bastato per spegnere i rancori le difficoltà nella maggioranza che si sono ridotte a uno scontro personale tra il capo del governo e Matteo Renzi.

Una questione di potere e di opportunità. Niente di più. Questo era il momento oggettivamente più debole per il governo Conte bis, bisognava imbastire solo una campagna mediatica e propagandistica per rendere la caduta moralmente accettabile. Se fosse stata una questione di contenuti, l’accordo si sarebbe trovato, soprattutto a fronte del fatto che PD e M5S si sono mostrati – sbagliando – più che accomodanti nei confronti di Italia Viva.

La verità è che il malessere covava da mesi e la totale mancanza di un pensiero politico ha portato gli altri tre partiti della maggioranza a farsi trovare comunque impreparati. L’avvitamento negli ultimi giorni di governo era così evidente che Giuseppe Conte, lasciato solo al comando di una nave che stava affondando, ha deciso di dimettersi. Nonostante siano circolate voci di una crisi pilotata, che serviva all’avvocato solo per farsi riassegnare l’incarico, il destino del Conte ter era già scritto: non sarebbe mai nato. Una mossa a vuoto.

Il tempo intercorso tra la fiducia al Senato e le dimissioni è servito soltanto agli sfidanti per ricollocarsi, elaborare tattiche inconcludenti e constatare come, nonostante il Paese stesse colando a picco, tutti avessero già deciso di cogliere la palla al balzo e fare fuori questo esecutivo. La politica, le idee e i contenuti sono rimasti fuori. C’era solo il risentimento personale.

La crisi di governo in corso è stata una crisi che ha avuto più a che fare con l’astio, con la bramosia di potere che con la politica. Ciò ha portato il Paese a fermarsi per tre settimane nell’attesa che i bollori degli sfidanti si calmassero. Un epilogo che rende ancora più evidente l’opera di depoliticizzazione cominciata tanti anni fa con la scomparsa dei partiti popolari e l’arrivo di formazioni personali nelle quali la condivisione delle idee ha lasciato il posto al leader e alle sue opinioni. E non solo, negli ultimi anni si è avuto il dispiacere di assistere anche alla deresponsabilizzazione della politica, altro fenomeno che con questa crisi di governo ha rubato la scena a tutti gli altri. Chi risponderà del tempo perso? Nessuno, mica è colpa dei capricci della politica.

Qui entrano in scena anche i giornali, che spinti da interessi superiori, hanno cominciato a incensare i vincitori e gli sconfitti di questa crisi di governo, sdoganando definitivamente quella scialba opera di trasformazione della politica in una partita di calcio.

Chi ha vinto? Renzi? Perché? Ci ha portato Draghi. Chi ha perso? Conte. No, non ha perso lui. Hanno perso gli italiani, si è perso tempo e non esiste nemmeno la sicurezza matematica che l’esecutivo possa nascere con una maggioranza tale da evitare altri capricci dei partitini.

E poi, cosa ha vinto Renzi? Il suo obiettivo era quello di estromettere Conte da Palazzo Chigi nella speranza che rinunciasse del tutto alla carriera politica, liberando un posto al cento per lasciarlo al senatore fiorentino. Il risultato è stato quello di liberare l’avvocato dalle pressioni e dai doveri dei palazzi, trasformarlo in leader dei grillini e di dargli la possibilità di ricoprire una carica ministeriale all’interno dell’esecutivo del banchiere, il quale molto intelligentemente ha capito che il consenso popolare di Conte è una mina vagante per il suo governo e che il M5S è una forza fondamentale per garantire l’equilibrio del governo. Un capolavoro tattico, non di Renzi però.

Continuando su questa strada, comunque, non si riescono a intravedere né i contenuti, né tantomeno la politica, quella che in un momento come questo servirebbe al Paese.

A giudicare, però, dalle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’unico verdetto “calcistico” che si potrebbe emettere è quello di una sconfitta a tavolino della politica, semplicemente perché si è rifiutata di giocare.

Un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Alcuna formula politica, cioè senza la politica.

No, San Mario Draghi non salverà anche la politica

A prescindere dall’esito dell’operato di Draghi, uomo di elevata caratura e sicuramente l’unico che in questo momento potrebbe traghettare l’Italia in questo marciume, c’è poco per cui esultare: il governo è nato a causa di un fallimento della politica, l’ennesimo dopo soli 9 anni da quello che portò Monti a Palazzo Chigi.

Questo è altresì il fallimento di un sistema fragile a tal punto da essere considerato tale anche dal Capo dello stato. Come può questo sistema politico affrontare le grandi sfide del futuro? Non ci sarà sempre un Draghi, un Monti o un Ciampi a prendere il posto del Parlamento.

In questo frangente si aprirebbero una miriade di prospettive, tutte problematiche e che richiederebbero una discussione tecnica adeguata. Dal parlamento razionalizzato – seguendo un po’ le parole di Giovanni Sartori che riportava in un suo testo: “il parlamentarismo che funziona è un parlamentarismo a cui hanno tarpato le ali” – al sistema elettorale, se maggioritario, proporzionale e se con o senza voto di preferenza. Ma sarebbe tutto inutile se non viene compiuta una severa opera di selezione della classe dirigente. Perché?

Innanzitutto non è detto che tagliando il numero dei parlamentari si risolva la questione della bassa caratura della classe dirigente. Semplicemente diminuendone il numero, si sbarrerà la strada a tutti, indistintamente. Così facendo i “peggiori” avranno più peso. Inoltre, tutti i sistemi elettorali hanno i loro pregi e i loro difetti: quello inglese, ad esempio, penalizza le minoranze e non garantisce una reale comprensione degli orientamenti politici nazionali. Inoltre, affinché un sistema si adatti al contesto ci vogliono anche delle condizioni ben definite (e del tempo). Poi, la competizione intra-partitica per la carica verrebbe comunque decisa dal partito che, con un maggioritario, candiderebbe colui che ha più possibilità di vincere in un collegio, oppure il politico più malleabile, non di certo il più bravo. E qui non si tengono in considerazione i vari episodi di corruzione, clientelismo e concussione.

Ecco perché l’unica risposta al fallimento della politica è quella di ripensare la selezione della classe dirigente. Ma prima ancora, sarebbe ideale formarne una adeguata. Un problema non da poco e che richiede decenni per essere risolto ma che va affrontato quanto prima. Magari, per cominciare con il piede giusto, si potrebbe proprio partire dall’istruzione (e chissà, una spinta potrebbe proprio darla l’ex BCE).

Non sarà, dunque, Mario Draghi, dipinto dalla stampa come un deus ex machina, a garantire per la sopravvivenza della politica italiana. Questa deve trovare una cura adeguata, la quale passa soprattutto attraverso un coinvolgimento diretto del popolo, che non può continuare ad essere considerato come un mero contenitore di propaganda.

L’autorevolezza da sola non basta. Sicuramente Mario Draghi riuscirà a tenere a bada i protagonismi di alcuni, concentrando le forze sulla redazione di un piano di resilienza migliorato e aggiornato, ma dopo? La classe politica dovrà comunque assumersi la responsabilità di ricostruire il Paese e potrà farlo soltanto se metterà da parte gli eccessi di un personalismo consumato, dando centralità ai contenuti. Per ricostruire, insomma, la politica ha bisogno di ricostruirsi.

Donatello D’Andrea

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