Francia e necolonialismo: Le parole di Di Maio fanno riflettere

Soldati francesi schierati in Africa. Francia
Il neocolonialismo francese, è alla base della maggior parte degli interventi umanitari in Africa. FOTO GEOPOLITICAL REVIEW

Quando pubblicai, sulla Voce d’Italia, l’articolo riguardante la crisi libica e le conseguenti rivendicazioni di Francia Italia, in cuor mio sapevo che, prima o poi, le divergenze tra i due Paesi dell’Unione Europea avrebbero portato ad una crisi diplomatica. 

Infatti, troppi erano (e sono) gli interessi in ballo: dal petrolio alla leadership nel Mediterraneo, passando per l’immigrazione e la manovra mai digerita dall’europeista Macron. Insomma, un amore mai sbocciato, quello tra il Governo giallo-verde e quello francese.

Il casus belli di questa crisi diplomatica sono i migranti. La crisi migratoria, inaugurata nel 2011 con la caduta del colonnello Gheddafi, ha aperto la strada ad un esodo che ha visto centinaia di migliaia di migranti spostarsi dal continente africano verso l’Europa. L’incapacità di far fronte a quest’apocalisse ha sottolineato come lo spirito comunitario sia venuto a mancare in favore di un egoismo e di un’ipocrisia diffusi.

Precedentemente, già parlammo degli interessi francesi in Libia, petrolio e gas, sottolineando come gli accordi tra Italia e Libia fossero controproducenti per i transalpini che preferirono far saltare il Governo, alludendo ad un intervento umanitario in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Infatti,  il pretesto usato per rovesciare il regime africano, l’uccisione di 10.000 persone, si rivelò essere l’ennesima farsa occidentale.

Nonostante ciò, dopo la caduta del regime del colonnello, i francesi hanno potuto mettere le mani sul petrolio libico, inasprendo la loro, già affermata, politica neocoloniale. Infatti, le parole del Ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, Luigi di Maio, non sono casuali. La Francia, al contrario del Regno Unito (o quasi), non ha mai rinunciato alle proprie colonie, nonostante questo sia configurato come un crimine contro l’umanità e nonostante i processi di decolonizzazione succedutesi tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Non si sa se le dichiarazioni dei principali esponenti del Governo Italiano, e non solo, siano in ottica elettorale. Poiché, l’obiettivo dei partiti considerati, impropriamente, “populisti” è quello della continua ricerca di un nemico contro cui inveire. Però, fatto sta che Di Battista e Di Maio, volontariamente o involontariamente, hanno detto la verità.

Credo sia opportuno, a questo punto, analizzare l’attuale situazione “dell’Africa francese”.

Al di là delle dichiarazioni di Marattin e di altri “economisti da tastiera” che affermano come il giogo neocoloniale francese abbia portato quei Paesi ad un livello di crescita più alto di quello dell’Italia, è sconcertante notare come il 42% dell’economia transalpina dipenda dallo sfruttamento economico (Franco FCFA e tasse coloniali) e da quello minerario (uranio, oro e petrolio) delle malcapitate 14 ex colonie.

La crescita africana non deve trarre in inganno, per il semplice fatto che ciò che viene generato all’interno di quei Paesi non finisce nelle tasche degli africani, bensì in quelle delle multinazionali francesi, dei banchieri e degli occidentali. Ad esempio, il rapporto FMI del 2014 indicava il Sud Sudan come Paese top a livello di crescita. E’ un dato fittizio, causato dalla presenza di multinazionali del petrolio che, una volta esaurita la materia prima, delocalizzeranno in un altro posto, lasciando il Sud Sudan in balia di una crisi economica senza precedenti.

Inoltre, quei dati“mostruosi” non devono portare a pensare che quei Paesi crescano più dell’Italia per il semplice fatto che il nostro Paese ha raggiunto la “saturazione”, cioè la massima crescita, nel 1995. Invece, i Paesi africani, sono ancora lontani da questo traguardo.

E la moneta coloniale, il FCFA (Franco della Comunità Finanziaria Africana), è soltanto uno degli obblighi senza scadenza imposti dai francesi ai Governi delle ex colonie. Infatti, gli altri obblighi concernono il versamento obbligatorio dell’85% delle loro riserve auree presso la Banca Centrale di Parigi, tutore nella gestione di questi fondi. Inoltre, per qualsiasi intervento inerente allo sviluppo economico dei loro Paesi, i Governi africani devono obbligatoriamente chiedere alla“madrepatria”, un prestito rimborsabile con tassi di interesse di favore. Un giogo, inaugurato con un “patto di continuazione coloniale”, stipulato negli anni ’80 e da allora pietra tombale delle ambizioni africane.

Questo intramontabile impero, frutta 320 milioni di euro annui alle casse francesi. I restanti 120 milioni di euro provengono da quella famosa“tassa coloniale” che BeninBurkina Faso, Camerun, Ciad, Congo Brazzaville, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Senegal e Togo devono obbligatoriamente versare nell’erario parigino.

Il neocolonialismo francese non si ferma qui. Infatti i transalpini detengono il controllo diretto delle risorse, accessibili senza gare d’appalto e possono estinguere ribellioni semplicemente congelando le riserve auree del Paese ribelle presso la Banca Centrale di Parigi.

Le ribellioni, ovviamente, non mancano. Prima su tutte quella libica. Agli interessi petroliferi, infatti, si aggiungono i piani di Gheddafi di creare una moneta pan-africana in sostituzione del franco coloniale francese; anche il Presidente della Costa d’Avorio aveva le stesse intenzioni prima di finire davanti alla Corte Penale Internazionale, accusato di aver commesso presunti crimini di guerra.

Neppure le minacce terroristiche hanno sortito effetto: nel 2013, ad esempio, i francesi intervennero con il loro esercito in Mali, adducendo la motivazione di “dover salvaguardare la missione diplomatica francese”, senza sapere però che interi contingenti furono schierati nei pressi delle miniere di uranio.

Un altro dato curioso è anche quello relativo ai colpi di Stato e alle guerre civili avvenuti all’interno delle ex colonie francesi: ben 67 colpi di Stato e 14 guerre civili. Però, almeno per ora, il vento di protesta e ribellione sembrerebbe inarrestabile. Infatti, il Togo, il Ciad e le altre colonie stanno sostenendo degli sforzi simili a quelli dei gilet gialli francesi, contro il carovita e contro il giogo di una potenza egoista e ipocrita che, nonostante tutto, si permette di dare lezioni di umanità all’Italia.

Ovviamente, non tutti sono d’accordo con le dichiarazioni di Di Maio e Di Battista, troppo semplicistiche e totalmente fuori luogo perché dalle 14 colonie francesi non proverrebbe un numero spropositato di migranti. La correlazione FCFA-immigrazione, sembrerebbe non reggere, poiché, nonostante l’esistenza di uno sfruttamento massiccio dei democratici francesi, i problemi migratori italiani provengono da ben altri Paesi, come la Tunisia l’Iraq e Nigeria.

Però, per dovere di cronaca, sarebbe ancor più opportuno sottolineare che la rovina dello sviluppo africano non è soltanto il FCFA francese, bensì lo sfruttamento delle materie prime, il debito estero contratto con i cinesi e la presenza costante delle multinazionali americane e russe. Infatti, in Nigeria ad esempio, è costante la presenza di petrolieri anglo-francesi che, annidandosi sulla costa ricca di petrolio, sfruttano indistintamente le aree fertili del Paese sottraendo migliaia di ettari ai contadini nigeriani che, ridotti all’osso, sono corretti ad emigrare. Inoltre, il fenomeno del land grabbing, consistente nell’acquisto di terreno fertile da sfruttare da parte di quei Paesi che conoscono ripetute crisi alimentari -India e Cina in primis-, sottrae il lavoro ai giovani africani che, in cerca di fortuna, lasciano la propria terra.

La fine del colonialismo francese, quindi, non porterebbe come conseguenza, lo sviluppo di quei 14 Paesi, anzi. La dipartita dell’ultimo impero coloniale europeo spingerebbe la Cina, vero nemico dell’Occidente, ad espandersi ulteriormente attraverso la sua politica del “soft power”, cioè finanziando grandi opere pubbliche in cambio dello sfruttamento indistinto delle materie prime.

Se il controllo delle colonie d’oltre mare dovesse finire, l’economia francese crollerebbe definitivamente e l’energivora Cina arriverebbe alle porte del Mediterraneo.

Ed è qui che dovrebbero entrare in gioco diversi elementi che sottolineerebbero la volontà degli Occidentali di aiutare un continente in difficoltà: superamento degli egoismi e delle rivalità, solidarietà conoscenze tecnologiche (il famoso know how). Se i Paesi dell’Occidente si unissero per aiutare le economie africane, fallaci e sempre più dipendenti da capitali stranieri, a rendersi indipendenti, si garantirebbe la sopravvivenza di uno scenario “cuscinetto” molto importante tra Occidente e Oriente, respingendo gli interessi russi e cinesi sulla zona. Ovviamente, la fine del neocolonialismo implicherebbe la fine dello sfruttamento di quei Paesi anche da parte nostra, da parte degli occidentali.

Di Maio, volontariamente o involontariamente ha detto cosa buona e giusta: lo sfruttamento, non solo francese, ha portato il continente africano ad un rapido decadimento e di conseguenza ad un esodo che si è riversato interamente sull’Unione Europea, acuendo la grave crisi economica e sociale che dal 2008 non sembra conoscere fine.

Però, al di là degli scenari geopolitici, delle trovate elettorali in vista delle Elezioni Europee e degli interessi più vari, la situazione è chiara: finché prevarranno gli egoismi deplorevoli di Paesi come Francia, USA e Cina, che attraverso le loro politiche umanamente condannabili sfruttano senza ritegno un continente intero, la popolazione africana non conoscerà pace e abbandonerà i loro affetti per dirigersi verso un altro continente che, impoverito, non avrà niente da offrire.

Non basta fare la morale, accusando gli altri di comportamenti vergognosi, ci vogliono i fatti. E la Francia, tirata in ballo ma non unica responsabile, ha mostrato un’ipocrisia senza precedenti.

La solidarietà, non spinge un Paese a violare la sovranità di una Nazione, i diritti umani e la vita di milioni di persone per un mero interesse economico.

Non può essere la Francia ad impartire una lezione al nostro Paese, bensì il contrario. L’ipocrisia di un intero popolo dovrebbe essere messa a tacere dai 700mila sbarchi avvenuti in pochi anni sulle nostre coste, nonostante l’acuirsi della crisi economica per i Paesi fortemente indebitati che ha gettato alle ortiche il nostro sistema bancario nel 2011.

E ciò corona le pretese del nostro Governo per la gestione comune delle migrazioni e ancor di più giustifica il richiamo alla fine dello sfruttamento da parte di Oriente ed Occidente del continente africano, in nome dell’autodeterminazione dei popoli, principio sacro dell’età contemporanea.

Donatello D’Andrea