Conte, Zingaretti, Di Maio: storia di una crisi di governo di “mezza estate”

Conte, Zingaretti, Di Maio: storia di una crisi di governo di mezza estate
Da sinistra a destra: Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Gli uomini chiave di questa crisi di governo che potrebbe risolversi in un inedito esecutivo PD-M5S (FOTO OPEN)

Negli ultimi giorni il Movimento Cinque Stelle e il Partito Democratico stanno discutendo sulla possibilità di dare all’Italia un governo, senza passare dalle urne e nella speranza di varare una finanziaria capace di evitare l’innesco delle clausole di salvaguardia e di conseguenza l’aumento dell’IVA al 25,2%.

Sicuramente gli elettori “vecchio stampo” avranno mal digerito questo tentativo di dialogo tra due partiti apparentemente così diversi e contrapposti e che se le son suonate di santa ragione fino ad un mese fa. Purtroppo, però, le vicissitudini della politica portano anche due acerrimi nemici ad unirsi per far fronte ad un nemico comune, che sia una finanziaria o un altro partito.

L’origine di questa “crisi di mezza estate” è da ricercare nella votazione del 7 agosto sul TAV, dove Salvini si è allineato ai voti dell’opposizione voltando le spalle all’alleato grillino, il quale aveva presentato una mozione anti-TAV in un disperato tentativo di mostrare all’elettorato di aver fatto di tutto per opporsi a quell’inutile e demoniaca opera infrastrutturale.

Ma andiamo per gradi.

L’origine della crisi di governo e il voltafaccia di Salvini

La crisi di governo è ufficiosamente iniziata il giorno successivo a quello della votazione sulla Torino-Lione. Matteo Salvini, in uno dei suoi 300 comizi di quest’anno, ha invocato la fine del governo giallo-verde a causa dei troppi “no” grillini che gli hanno impedito di lavorare.

L’8 agosto, in poche parole, Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina, dopo soli 14 mesi, e di tornare alle urne il prima possibile.

“Non c’è più una maggioranza, come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori”. (Matteo Salvini)

Sono state queste le parole del leader del Carroccio, pronunciate nel bel mezzo della spiaggia davanti ad una folla gremita di “bagnanti sostenitori”. Il 9 agosto, di tutto punto, la Lega consegna una mozione di sfiducia indirizzata al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. L’irrequieto Matteo puntava a calendarizzare il prima possibile la sfiducia per tornare subito al voto, cercando di capitalizzare il consenso ottenuto alle Europee e arrivato al suo massimo storico proprio in quesi giorni (38%).

Proprio con la calendarizzazione del voto di sfiducia si forma il primo nucleo della nuova maggioranza: il 13 agosto il Senato boccia la proposta del centrodestra di votare la mozione il 14 agosto, e si fissa la data del 20 agosto per le comunicazioni di Conte a Palazzo Madama. Allungando la finestra della crisi si accorciano le date utili per andare al voto, visto le imminenti scadenze di bilancio.

Il 20 agosto il Premier Giuseppe Conte si presenta in Senato annunciando le proprie dimissioni, dopo una lunga requisitoria nei confronti del responsabile di questa crisi. Un discorso forse arrivato un po’ in ritardo ma con un rispetto della grammatica istituzionale incredibile; una vera e propria luce in fondo a quel tunnel di becera propaganda che è diventata la norma all’interno del dibattito pubblico italiano.

Proprio durante il discorso di Conte, la Lega fa marcia indietro, ritirando la mozione di sfiducia, e dicendosi pronta a ricompattare la maggioranza per proseguire con un governo di riforme a partire dal taglio dei parlamentari, previsto per settembre. Un voltafaccia simbolo della frettolosa incoscienza di Matteo Salvini, a staccare la spina a questo governo senza esser pronto ad affrontarne le conseguenze.

I grillini non accettano la proposta leghista, chiudendo ufficialmente l’esperienza del governo del cambiamento.

Le consultazioni e la lezione di Mattarella

L’apertura formale della crisi di governo si apre con la salita di Conte al Quirinale e il primo giro di consultazioni.

Nel frattempo, dopo la fine dell’esperienza dell’esecutivo giallo-verde i rapporti tra PD e M5S sono andati avanti con discrezione, nella speranza di poter cavare un ragno dal buco. Nel frattempo sia Di Maio che Zingaretti ribadivano la necessità di tornare al voto se non si fosse riusciti a trovare una maggioranza forte.

Colui che sbloccherà la trattativa, però, sarà proprio Matteo Renzi che un anno prima aveva chiuso le porte ad un’alleanza con i Cinque Stelle. L’idea del Senatore di Firenze è quella di un governo istituzionale che evitasse l’aumento dell’Iva, forte dell’appoggio dei suoi 100 parlamentari. Un numero esiguo, ma che all’interno di un parlamento senza “zingarettiani” sono una garanzia.

Nel frattempo termina il primo giro di consultazioni e Mattarella rilascia un’emblematica dichiarazione, indirizzata a tutti coloro che nell’euforia del momento (o nell’ignoranza) chiedevano a gran voce il ritorno alle urne, additando le consultazioni indette dal Presidente della Repubblica come un attentato alla sovranità del popolo italiano.

Il Presidente della Repubblica, costituzionalista ed ex giudice della Consulta, ha ribadito che l’Italia è una Repubblica Parlamentare e che le urne non sono la prassi dopo la caduta di un governo. Lo step successivo a quello della fine di un esecutivo è la ricerca di una maggioranza alternativa. Lo dice la Costituzione.

Dopo questa lezione di diritto costituzionale, sicuramente ignota a tutti coloro che hanno gridato al complotto internazionale, di Bruxelles o di Soros, il PdR ha indetto un secondo giro di consultazioni che si son concluse con l’ufficialità della trattativa PD-M5S.

Dopo lunghe peripezie, tra un ultimatum e una pretesa, il 29 agosto a salire al Quirinale per ricevere l’incarico (con riserva) per formare un governo è propio Giuseppe Conte.

La scelta di questo Premier risponde a tante motivazioni. Innanzitutto è l’unico politico (o presunto tale) a godere di un elevato indice di gradimento tra quasi tutti gli elettori dei partiti italiani. Inoltre ha ricevuto l’endorsement di molte importanti personalità internazionali, come Donald Trump, Angela Merkel e Donald Tusk. Inoltre lo stesso Conte è stato riconosciuto dagli stessi Zingaretti e Di Maio come l’unico in grado di poter fare da mediatore tra le diverse istanze di PD e Cinque Stelle.

Seguendo la prassi, anche Giuseppe Conte ha indetto delle consultazioni con il preciso obiettivo di sondare il terreno per trovare una maggioranza più solida rispetto a quella già presente, a dire il vero un po’ traballante. Il Premier è riuscito a racimolare il supporto di Liberi e Uguali e la “non opposizione” del gruppo parlamentare misto e delle autonomie.

Stando ai numeri i parlamentari in quota giallo-rossa si fermano a 158, tre in meno rispetto a quelli che servono per raggiungere la maggioranza. Considerando che dentro al Movimento Cinque Stelle c’è l’ex leghista, ora dissidente grillino, Gianluigi Paragone che non voterà la fiducia al governo, diventano determinanti i voti di ogni singolo parlamentare. Potrebbero tuttavia rientrare all’interno della stessa gli ex senatori M5S che rinnegarono la deriva salviniana del precedente esecutivo (5).

Alla fine della fiera il governo giallo-rosso dovrebbe oscillare tra i 163 e i 171 si, una maggioranza risicata, simbolo dei delicati equilibri che da un po’ di anni muovono il frammentario quadro partitico italiano. Inoltre, il nascente esecutivo non dovrà compiere l’errore di escludere Renzi dai giochi, poiché 40 dei 51 senatori dem sono renziani, fedeli all’ex segretario.

Dal canto suo, Matteo Salvini continua ad agitare lo spettro del complotto internazionale, sbraitando contro un “governo non eletto dal popolo”, contro la volontà degli italiani e fortemente antidemocratico. Inoltre, stando alle ultime dichiarazioni, il leader della Lega si è rivolto direttamente a Mattarella chiedendogli di mettere fine a questo “mercimonio delle poltrone”.

La vuota retorica leghista, volta a scaricare la responsabilità della crisi di governo sui grillini, ha portato il leader del Carroccio a compiere un grossolano errore di calcolo.

Matteo Salvini, è bene ribadirlo, per capitalizzare il voto europeo e per sfuggire dalla responsabilità di scrivere una legge finanziaria molto complessa, ha ufficiosamente generato una crisi di governo, in pieno agosto, nella speranza di convincere Giuseppe Conte a dimettersi, per tornare alle urne il più presto possibile.

Purtroppo, le sue lacune in diritto costituzionale e la reazione del Premier Conte hanno rovinato i suoi piani e l’hanno costretto a tornare sui suoi passi. Ora, con un governo da lui inconsciamente sollecitato, grida al complotto, aizzando i suoi elettori che, senza la benché minima voglia di informarsi sulla veridicità delle sue “sentenze”, lo seguono.

Lo spettro di Rosseau e il richiamo alla responsabilità

Se Matteo Salvini sta sfruttando tutta la sua influenza dei social per indirizzare i suoi elettori contro la nascita di questo esecutivo, Luigi Di Maio, homo novus dopo la dipartita del precedente esecutivo, ha deciso di dover lasciare agli iscritti di Rosseau (la piattaforma degli elettori grillini) l’ultima parola sulla nascita del governo giallo-rosso.

Un gesto contestato sia dai democratici che da gran parte dei politici pentastellati. Non si può lasciare una decisione del genere, di vitale importanza per il futuro di sessanta milioni di persone, agli umori di centomila attivisti. Inoltre, sarebbe uno smacco istituzionale per l’unico uomo in grado di proferire l’unica parola su questo esecutivo: Sergio Mattarella.

Sergio Mattarella non ha sciolto le Camere perché ha concesso fiducia al dialogo tra il M5S e il PD e il secondo giro di consultazioni ha confermato questa impressione. Se c’è una parvenza di dialogo tra due forze politiche, queste ricevono tutti gli auspici del Colle e quindi l’endorsment del Capo dello Stato. Non può una piattaforma privata scavalcare la fiducia del Quirinale.

Inoltre se gli iscritti non dovessero confermare l’appoggio al governo cosa succederebbe? Per cinquantamila no si torna alle urne? E chi restituisce agli italiani, a Mattarella e agli altri protagonisti di questa crisi di governo il tempo perso? Di Maio?

Il Presidente della Repubblica ha posto delle semplici quanto precise condizioni. Se il capo politico dei Cinque Stelle avesse davvero ritenuto necessario sottoporre l’accordo alla sua base elettorale, avrebbe dovuto farlo prima di Ferragosto, non ora con i tempi sempre più stretti e una manovra da varare. Una finanziaria, inoltre, la cui importanza resta sconosciuta ai centomila che si accingeranno martedì dalle 9 alle 18 a votare su quella piattaforma privata.

Come la piattaforma “Rosseau”, più volte tacciata di scarsa sicurezza, pericolosa e più volte violata da alcuni hacker (di cui uno giovanissimo), prevalere sul giudizio di un uomo del calibro di Sergio Mattarella? L’unico “voto” a cui questo nascente governo dovrebbe essere sottoposto è quello del Capo dello Stato.

Inoltre resta il problema dell’assenza di certificazione del voto, in mancanza di un ente terzo che controlli la correttezza dello stesso. In più di 70 occasioni il voto non è stato certificato, quindi l’ipotesi che questo potrebbe essere manovrato non è proprio così remota.

“Sei d’accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?”. Sarà questo il quesito che la piattaforma proporrà agli iscritti. Un quesito preciso.

Ma non è soltanto lo spettro di Rosseau ad agitare gli animi. In queste concitate settimane gli italiani hanno dovuto assistere ad uno squallido spettacolo fatto di poltrone, ultimatum e diktat. Luigi Di Maio pretende fortemente la doppia carica di Ministro dell’Interno e Vicepremier, pretende che i suoi venti punti programmatici siano considerati intoccabili. I democratici dal canto loro hanno reagito malamente alle dichiarazioni e alle pretese del capo grillino. Più volte l’accordo è stato un a passo dal saltare.

Un comportamento, quello del politico partenopeo, dettato da un’impellente necessità di legittimazione di fronte ad un elettorato stanco della sua figura, deluso per aver lasciato l’inerzia del precedente governo nelle mani di Matteo Salvini. Purtroppo, però, il tempo del pungo di ferro è finito. Urge, invece, un comportamento assennato e coscienzioso.

Questa crisi di governo e ciò che n’è seguito, ha visto i politici parlare davvero poco dei problemi degli italiani. Nessuno, prima delle poltrone, ha anteposto l’interesse dei cittadini e del tanto millantato “popolo sovrano”. Al di là delle fake news salviniane, i due azionisti di maggioranza dell’esecutivo giallo-rosso non hanno messo la stessa foga avuta per le poltrone, nel redigere un programma per il futuro del Paese.

I presupposti per la nascita del nuovo esecutivo non sono dei migliori (due partiti che si son fatti la guerra fino a due settimane fa, reciproca diffidenza, complessa finanziaria da varare, spettro delle urne sempre ad un passo), ma ciò che dovrebbe loro unire è un comune richiamo alla responsabilità.

La crisi di governo ha costretto loro a trattare. Che non sia solo il terrore delle urne, ma un grande senso di responsabilità, a guidare i provvedimenti di questo governo.

Donatello D’Andrea

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