Ha ancora un senso oggi parlare di “regioni rosse”?

Ha ancora senso parlare di regioni rosse?
Alla luce del quadro politico contemporaneo, ha ancora senso parlare di "regioni rosse"? FOTO ANSA

Il 20 e 21 settembre, oltre all’ormai celeberrimo referendum sul taglio dei parlamentari, ci sono state anche le elezioni regionali. Il Partito Democratico, con un colpo di reni, è riuscito a mantenere 3 regioni su 4, cedendo solo le Marche al centrodestra. L’annunciato 6-0 non è arrivato e Matteo Salvini dovrà attendere (ancora) la sua scalata al potere. Un discorso simile, ma più disfattista per il centrodestra, può essere fatto per i capoluoghi al voto. Lì la Lega ha dovuto cedere Lecco, Legnano, Saronno e Corsico al centrosinistra.

La campagna elettorale è stata costellata di temi che si riciclano ad ogni tornata, dall’immigrazione all’Europa passando per la sicurezza e l’economia. Sicuramente ha inciso anche la gestione della pandemia dato che il voto ha premiato gli “sceriffi” Luca Zaia, Giovanni Toti, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca.

Seppur l’assalto del centrodestra sia stato contenuto, l’impressione che emerge da ogni tornata elettorale è che ogni regione sia diventato un territorio conteso. Lo si capisce dalla campagna elettorale impostata sul rischio e non sui meriti delle amministrazioni, dall’incertezza che regna all’interno degli schieramenti politici e, in minor misura, dai sondaggi esitanti.

In sostanza, dato che gli schieramenti politici si avvicendano ad una velocità disarmante anche all’interno di regioni prima impenetrabili, ha ancora senso al giorno d’oggi parlare, per esempio, di regioni rosse?

Le istanze economiche di territori prevalentemente fondati su settore primario e secondario si sono evolute con l’evolversi dei mercati, della globalizzazione e degli Stati. Un esempio? Il passaggio di Siena, passata al centrodestra. La scomparsa dei processi di identificazione ha sicuramente allentato la disaffezione nei confronti delle istituzioni e della politica, sposando il consenso verso i “partiti della sfiducia”, come Lega e M5S.

Per comprendere l’entità del cambiamento basti pensare al dimezzamento dell’area elettorale dei partiti di centrosinistra, passati dal 59,2% del 1968 al 30,2% del 2018 o alle conquiste storiche da parte della Lega di Cascina o Pisa. Nel 2013 il centrosinistra amministrava 10 capoluoghi toscani su 11, oggi 3. L’aggravante è quella di aver ceduto aree proletarie come la Maremma.

La sinistra è in uno stato catatonico di crisi nerissima. Alcuni risultati delle amministrative, politiche ed europee sembrano dimostrarlo. Il rosso di una volta sembra aver lasciato posto ad un colore sbiadito da una cera populista, sostituito alcune volte (vedi Basilicata e Umbria) da un verde legato a sentimenti di rabbia e frustrazione. Sono finiti i tempi dei tabù e delle roccaforti. Negli ultimi cinque anni l’ago della bilancia sembra voler segnare la fine degli elementi che hanno caratterizzato un determinato comportamento elettorale in determinate regioni prima definite “inespugnabili”. Infatti, mettendo da parte il salvataggio in extremis della sinistra, i rapporti di forza rispetto al 2014 sono cambiati. Ad oggi sono 15 le regioni governate dal centrodestra, contro le 5 del centrosinistra.

Insomma, la sinistra ha smesso di fare la sinistra e gli elettori hanno deciso di cambiare referente per le proprie istanze. A questo punto, ha ancora senso parlare di “regioni rosse”?

Da feudi a terre di conquista

Once Upon a Time, c’erano una volta le regioni rosse. Per sessant’anni feudo della sinistra e territori inviolabili per tutti. Città e campagne che, nonostante qualche piccolo cedimento negli anni – come l’elezione di Giorgio Guazzaloga, sindaco di Bologna dal ’99 al ’04, eletto con il centrodestra – dal 1948 hanno sempre risposto alle chiamate del PCI e dei democratici.

Questo fino al 4 marzo 2018. Secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo sui flussi elettorali in Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria, le preferenze per i partiti di centrosinistra hanno subito un’indicativa involuzione rispetto alla loro tradizione politica. Il polo progressista, dal 1948 ad oggi, ha perso quasi 30 punti percentuali.

In realtà, questa è una tendenza che può cogliersi anche nelle Politiche 2013. Il primo segnale fu la caduta del Partito Democratico che con 1.617.748 tra Marche, Emilia Romagna, Toscana e Umbria venne distanziato di quasi 700mila voti dal Movimento Cinque Stelle. Il secondo segnale fu il primo sorpasso della storia del centrodestra sul centrosinistra. Il terzo, invece riguarda la regione più rossa tra le rosse: la Toscana. Nel 2013 il PD risultò ancora il primo partito ma con 200mila voti in meno.

Che fine hanno fatto questi voti? La maggior parte se li è presi il Movimento Cinque Stelle, anche se l’analisi dei flussi elettori conferma che anche i grillini hanno subito una grossa involuzione in questo senso. Il resto se lo sono diviso Liberi Uguali e in alcune grandi città come Bologna, Ferrara, Parma e Perugia, la Lega.

L’altro elemento che ha un certo peso è l’astensione. In media, più di un elettore del PD su 10 non si è recato alle urne nel 2018. La sfida lanciata da Liberi e Uguali, inoltre, ha finito per disorientare e demotivare una quota consistente dell’elettorato, poiché è stata vista come una sfida fratricida senza vantaggi.

La conclusione dell’Istituto Cattaneo è eloquente: “il predominio elettorale dei partiti di sinistra e centrosinistra si è concluso. Le regioni rosse, una volta blindate, sono oggi “l’area geopolitica caratterizzata da maggior competizione”. Da feudi a terre di conquista.

Ha ancora senso parlare di “regioni rosse”? Il caso della Toscana

Un desiderio di mutamento, un ‘bisogno di cambiare’ che è stato una lezione per tutti… un invito a tutti a cambiare, ad adottare metodi, sensibilità, sistemi diversi da quelli usati fin ora… Non c’è un elettorato stretto in difesa per paura di qualcosa, ma un elettorato di diverse provenienze… che non ha paura. È un voto riformista“.

Così recitava un editoriale del Corriere della Sera nel 1985, anno in cui le sinistre si aggiudicarono numerosi comuni nel centro Italia e sfidavano il primato della Democrazia Cristiana.

Da allora nacque il mito delle “regioni rosse”, regioni che saranno ben governate dalle sinistre, dove il rapporto tra comunisti e socialisti produrrà collaborazioni ricche, efficaci e proficue, capaci di mettere in rilievo il potere dei partiti e di mantenere quel ruolo attivo nel determinare le politiche locali. La fine del mito, però, viene da lontano. Il declino dei comunisti in tutte le regioni era già cominciato con le amministrative del 1980, bollato solo come un episodio.

Il risultato fu che dopo il 1985 gli episodi si moltiplicarono. I socialisti presero il posto dei comunisti in alcuni comuni, tanto da costringere democristiani e comunisti, soprattutto in Umbria, a un’inedita alleanza con la benedizione dei vescovi locali. Tra litigi, incomprensioni e nasi turati si arriva così agli anni Duemila, con un centrosinistra sempre più istituzionale e moderato, integrato e parte del tanto disdegnato establishment.

Dalla crisi del 2008 il declino è diventato un’evidenza quasi empirica. Alle regionali del 2015 un centrodestra, trainato dalla Lega, esprimeva un buon candidato in Umbria, perdendo meno del previsto e dimostrando che anche le regioni rosse possono essere contese. E quella Lega era già il partito anti-euro e anti-sistema che oggi conosciamo.

Un voto di reazione? Un voto post-ideologico? Forse bisogna andare ancora oltre e chiedersi quali siano i temi che il centrodestra è stato in grado di farsi carico nel corso del decennio. Dall’economia (Milano resta l’ultima roccaforte economica della sinistra) alla sicurezza, la sinistra non è riuscita a mettere sul piatto la sua credibilità e la sua competenza.

Nel 2010 il candidato del PD, Enrico Rossi, vinse con quasi il 60%, nel 2015 con il 50%, battendo il centrodestra di oltre 30 punti. Negli ultimi anni la situazione però è peggiorata: sei capoluoghi oggi sono amministrati dal centrodestra (Arezzo, Pisa, Siena, Grosseto, Pistoia e Massa) e alle elezioni europee il Partito Democratico si è confermato come primo partito ma con soli 30mila voti di vantaggio rispetto alla Lega. Nelle province, il PD è risultato in testa solamente a Firenze, Siena e Livorno. La Lega è invece risultata prima a Lucca, Grosseto e a Massa Carrara, Arezzo, Pisa, Pistoia e Prato.

Risultati del genere sottolineano come la battaglia elettorale in Toscana sia più aperta che mai. La presenza della destra si è col tempo rafforzata, raccogliendo ciò che le divisioni del Partito Democratico avevano seminato. La nascita del PD accelerò il senso di disorientamento ideologico, culturale e sociale intervenuto con la dissoluzione di PCI e PSI. Si arriva ad un partito salutato come il “nuovo che avanza”, che rinnega la tradizione. La frattura renziana, poi, indebolì ulteriormente la base sociale e culturale dell’elettorato di sinistra fiorentino. Ciò non significa che tutto quello che è stato perso dai democratici sia finito nella Lega, anzi. Molti voti sono finiti nell’infinito bacino dell’astensione. In questo senso, un esempio eclatante fu il caso di Cascina.

Nel 2016 Cascina finì nelle mani del centrodestra, in particolare in quelle di Susanna Ceccardi (Lega), – avversaria di Eugenio Giani alle regionali – per poco più di cento voti. Il sindaco precedente era al suo primo mandato e venne contestato dal suo stesso partito, il PD. Vinse le primarie per concorrere di nuovo alla carica, ma perse al ballottaggio perché non riuscì a compattare il partito intorno a lui. Molti cittadini, magari sottovalutando l’avversaria oppure schierandosi contro il candidato sindaco di un’altra fazione del PD, non si recarono al voto. Cominciò così la strada verso l’astensione.

Nel 2018 a Pisa, Siena e a Massa furono eletti tre sindaci della Lega. A pesare sulla vittoria finale, ci sono più di duemila voti, solo a Massa, frutto delle spaccature interne del Partito Democratico.

Gli ultimi anni di Rossi, Presidente uscente, sono stati turbolenti. Lui è stato eletto con il PD, si era detto entusiasta della segreteria di Matteo Renzi ma col tempo i suoi giudizi si sono fatti severi, tanto da volersi candidare, sfidando proprio il suo segretario, alla guida del Partito. Cosa che poi non è mai accaduta. Nel 2017, durante il congresso, Rossi lanciò assieme a Bersani, D’Alema e a Speranza il Movimento dei Democratici e Progressisti. Dopo questa breve esperienza da dissidente, nel 2019, si riprende la tessera del Partito Democratico.

Purtroppo nel corso degli anni, la Toscana è stata vittima di numerosi scandali che hanno coinvolto soprattutto il PD renziano, facendo percepire all’opinione pubblica la fine di quella “sinistra” legata al popolo. Dal Monte dei Paschi a Banca Etruria, le turbe bancarie hanno fortemente condizionato la percezione della politica rossa da parte dei cittadini, innescando un “sentimento” di fine dell’età dell’oro e di smarrimento elettorale che ha portato i cittadini a cercare altri referenti di partito. Inoltre, le spaccature interne se, da un lato, hanno avuto effetti sulla classe dirigente, è indubbio che anche gli elettori ne abbiano risentito, preferendo l’astensione a una formazione politica non in grado di elaborare una strategia elettorale coerente e un programma che sia scevro di simpatie e preferenze particolaristiche. Non è molto difficile concludere che parte della responsabilità circa la contendibilità della Toscana sia in gran parte “merito” del centrosinistra.

Analisi simili sono state condotte anche prima delle elezioni in Emilia Romagna, vinte poi dal candidato del Partito Democratico Stefano Bonaccini, ma sia in questo caso che in quello della Toscana, il candidato di centrodestra non ha mai brillato per la sua capacità amministrativa e ha fondato la sua campagna elettorale su temi nazionali e non locali. Se in futuro la Lega comprendesse questo sbaglio, spingendo verso la candidatura un uomo o la donna del luogo che conosca benissimo i pregi e i difetti della sua terra, siamo sicuri che il risultato sarà lo stesso?

Alla luce di quanto esplicato, ha ancora senso parlare di roccaforti, di regioni “rosse” per principio e dunque non contendibili?

Donatello D’Andrea

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