Fato

moire

Comunque l’abbiamo appresa, e comunque l’avessimo usata la parola fato, la sua definizione si è perfezionata nel corso degli studi classici, a contatto con l’epica greca e latina. Praticamente, a scuola l’abbiamo letta sempre come “una volontà che trascende (anche) la volontà degli dei”: cosa che gli insegnanti ci facevano tradurre – erroneamente – col termine italiano destino.

A dire il vero essi ci dicevano, specialmente durante la lettura dei poemi epici greci e latini, che il Fato è una volontà superiore, a cui anche gli dei soggiacciono. Perciò gli interventi degli dei a favore degli uomini (per i quali, come sappiamo, essi parteggiavano) oltre ad indicare un valore puramente simbolico, esistenziale o letterario che fosse, non potevano mai modificare le decisioni già fissate (“fata”, le cose dette) degli oracoli.

Perciò noi studenti, confortati da questa visione, traducevamo banalmente: il Destino.

Non so se in italiano la parola debba essere scritta con l’iniziale maiuscola. Ma visto che si tratta di una realtà superiore, sarebbe giusto che lo fosse.

Nessuno tuttavia – credo – oggi scriverebbe “Destino” (con la maiuscola).

Eppure presso gli antichi Romani – ma già presso i Greci – il Fato era qualche cosa di più del destino. Era una necessità. La necessità del divenire storico. Sentita come trascendenza. Alla quale naturalmente erano sottoposti anche gli dei.

Ed è evidente: dal momento che gli dei della mitologia classica, secondo la concezione dell’uomo antico, si comportano proprio come gli uomini, e degli uomini hanno pregi e difetti, e ne riproducono i comportamenti.

Perciò, se fossero in grado di modificare il Fato quando prendono parte alle vicende umane (cioè entrano nella storia) schierandosi per l’uno o per l’altro eroe, col loro intervento rischierebbero di modificare ciò che è predestinato, stabilito, detto (o scritto), fin dal principio (il Mito).

Fino ad inficiare il valore simbolico del Mito stesso. A riprova di ciò resta il fatto che mai nei racconti dei poemi epici e in quelli della tragedia classica, tutti gli interventi divini per l’uno o per l’altro eroe sono mai serviti a modificare le sentenze di oracoli e profetesse.

Allora Fatum è “ciò che è stabilito dall’eternità”, è “il Detto”. Che esiste prima del tempo dell’uomo (la storia), e fuori dal dominio – anch’esso antropomorfo – degli dei (trascendenza).

Ed ecco la nota etimologica.

Fatum, infatti, significa proprio “il detto”. Esso è il participio passato – meglio se diciamo “perfetto” – del verbo latino: for, faris; fatus sum; fari ( = “parlare, dire”).

La radice della parola è “-fa-”, corrispondente alla radice greca φα/φη [fa/fē] (vedi anche il verbo greco φημί [phēmì] = parlo, dico), la quale ritorna in tutta la grande famiglia di parole (si dice anche: sfera lessicale) di quest’area semantica (cioè, campo di significato) delle lingue indeuropee. Parole che troviamo quasi identiche nel francese, nel portoghese, nello spagnolo, e in tante altre lingue a causa dell’influsso subito dalle lingue indoeuropee.

Ecco! Fatum dovremmo tradurlo allora con “il Detto”. Corrispondente alla voce greca: Λόγος (Logos), utilizzata anche nel Vangelo di Giovanni (periodo ellenistico), che s. Girolamo, in latino, traduce Verbum (Parola di Dio).

Evidentemente non può utilizzare Fatum, essendo questa una parola fortemente connotata dalla storia del pensiero religioso del mondo romano, a cui si contrapponeva la nuova religione cristiana. Quindi, parola negativamente connotata e, di conseguenza, inflazionata.

Inoltre nella visione cristiana, definita nel dogma della Trinità, il Verbo è persona, è il Figlio di Dio. Egli stesso è Dio. Cosa completamente diversa dal Fatum: Volontà/Necessità.

Eppure l’autore del 4° Evangelo, detto di Giovanni, usa tranquillamente la parola Λόγος, con chiaro riferimento alla tradizione filosofica greca.

Morale.

Da quanto detto, emergono due cose importanti. La prima attiene alla storia delle culture. E ci mostra quanto siano sorprendentemente vicine culture che – chi sa perché – noi abbiamo sempre considerate diverse e opposte. (Senza voler sminuire con questo la differenza, l’originalità, e la grande novità del Cristianesimo, sia rispetto alla visione ebraica che a quella pagana: quella filosofica dei Greci, e quella mitologica dei Romani).

La seconda è di tipo antropologico e ci fa vedere come in ogni civiltà sia costante ed uniforme l’atteggiamento dell’uomo antico di fronte al miracolo del linguaggio umano e la conseguente consapevolezza storica della sua portata (simbolizzare, argomentare, raccontare, produrre testi rituali; e poi anche scrivere): forza meravigliosa, originale e creativa che prospetta il mistero della creazione. Consegna dell’eredità divina (come sostiene il Foscolo in “dei Sepolcri”, parlando di mitologia e poesia).

Se poi questa attività “divina” dell’uomo la presentiamo con la parola greca, scopriamo un altro assioma: l’intuizione dell’identità tra pensiero e linguaggio. Infatti, in greco λόγος (logos) è sia pensiero sia discorso.

Quest’ultima riflessione sulla “parola” (linguaggio), o questo parlare del “pensiero”, merita un ulteriore approfondimento. Che lascio all’iniziativa del singolo lettore.

Se vi va, però, cari amici studenti – che immagino numerosi nella schiera dei miei lettori – voi potete continuare a giocare con le parole (la famiglia del /parlare/) anche da soli, partendo da quelle italiane: fama, fante, infante, infame, fata, famigerato, nefando, prefazione, profezia, eufemismo, affabile, ineffabile, favella, favola, affabulazione, fandonie, ecc.. E anche fàtico fatale, fatalità e fatidico più direttamente collegate a fato.

Passando poi a quelle corrispondenti delle lingue sorelle: francese, spagnola e portoghese. Non è difficile: vi aiuteranno i vocabolari.

Luigi Casale

Lascia un commento