Lontano da Napoli è difficile sentire parole ascoltate nell’infanzia, specialmente quelle più care perché apprese direttamente dalla mamma nell’età tenera, prima ancora di poterne importare dal mondo esterno all’ambiente familiare.
Quel “lessico famigliare” custodito dalla parte del cuore, anzi a lui affidato e da lui custodito. Parole mantenute in vita perché impresse nella mente: “tenute a mente” nella loro freschezza, sebbene mai più esibite nella comunicazione verbale. “Ricordate” (tenute nel cuore). Proprio come i francesi dicono “par coeur” quando vogliono dire “a memoria”.
Una di queste parole, usata spesso dalla mamma o dalle sue sorelle, quando si incontravano, è “sciaffettèra” o “ciaff’ttera”, a seconda dell’età di chi la pronunciava. Segno che il termine, nel suo avviato processo evolutivo, aveva già iniziato una naturale deriva rispetto alla sua forma originaria. Eppure, questa parola l’ho sentita usare solo nella famiglia di mia madre. Almeno fino a pochi anni fa.
La mamma chiamava ciaff’ttera, in maniera affettuosa e confidenziale, una persona, in genere una donna, e particolarmente una bambina o una ragazza, che si mostrasse piena di iniziative e si desse da fare per affermare questa sua intraprendenza. Organizzare, disporre, agire, dire sempre la sua. Ed era perciò un complimento per la bambina.
Poi, solo di recente, mi è sembrato di averla udita da un’anziana signora di lingua tedesca, qui in Alto Adige, la quale mi ha aiutato ad analizzarne il significato.
La parola trova, infatti, una base nel verbo tedesco “schaffen” (fare), da cui le parole “Geschäft” (attività, negozio), e “geschäftlich” (commerciale).
Nel dialetto sudtirolese esiste anche la parola “G’schaftle” che potrebbe essere il modello del napoletano “ciaffettèra” e che si applica bonariamente proprio alle bambine che vogliono fare le donnine, attive e premurose.
Luigi Casale