Quando, durante la grande rivoluzione sociale e culturale degli anni ’60 del secolo scorso, si predicava la ricerca di una certa autenticità (anche nel linguaggio, come nella vita) e si voleva che il più acuto senso critico tutto mettesse in discussione, per recuperarne valori ideali insieme alla percezione realistica delle cose (basata sul recupero del significato originario delle parole, quello più vero), una scuola di pensiero pedagogico pretendeva mostrarci come liberarci dai pregiudizi, e per far ciò ci mostrava alcuni schemi interpretativi della lettura di determinate parole, di cui l’uso, ormai inflazionato, aveva modificato il significato, fino a stratificarne altri del tutto nuovi e completamente diversi.
Allora noi giovani tutto volevamo sottoporre al vaglio critico della ragione e … della antica pertinenza linguistica. Ci avevano insegnato, infatti, – specialmente i poeti – a scrostare quei significati che si erano calcificati sopra le parole, e a metterne a nudo quelli originari, veri e impliciti, gli etimi; e scoprirne così i cosiddetti tratti essenziali, sui quali il nostro giudizio si era fatto miope; si voleva stigmatizzare il senso vago delle generalizzazioni e delle banalizzazioni.
Niente altro che superare il pregiudizio attraverso un distillato di buona lingua (come cerco ancora di fare oggi). Era la lingua riscattata, quella adottata dai poeti della prima metà del Novecento. Chi non aveva la sensibilità del poeta, invece, rifuggendo dall’utilizzo della figura retorica dell’analogia, prese l’abitudine di usare il “cioè”. Fino … alla nausea.
Allora le domande che noi giovani ponevamo (e non sempre trovavano risposte congrue) erano: perché tra “alto” e “basso”, in mancanza di una più vigile decodifica, il primo è concepito come positivo e l’altro invece come negativo? E perché tra “grande” e “piccolo”, il primo era connotato positivamente e il secondo negativamente? Tra “bianco” e “nero”, il bianco era il buono e il nero il cattivo? E la stessa cosa valeva tra “vicino” e “lontano”, o tra “aperto” e “chiuso”. E potremmo aggiungere tra “positivo e negativo”. O anche tra “cielo e terra”. “Acqua e fuoco”. Ecc., ecc.
In effetti, prima ancora di cogliere la portata del segno linguistico, se ne immaginava la “connotazione”; e questa, poi, veniva assolutizzata dalla consuetudine. Cosa che non avviene, o – per lo meno – è meno probabile che avvenga con le coppie di parole: bello e brutto, o buono e cattivo. In cui il giudizio di merito (la connotazione) è già implicita tra i tratti semantici che ne formano la “denotazione”. È la stessa definizione delle parole che comporta l’opposizione semantica (che potremmo dire di carattere “morale”).
Mentre per le precedenti coppie di parole l’implicazione di merito è frutto di una sovrapposizione di significato determinata dall’uso (connotazione), e, col tempo, assorbita anche dal livello denotativo del significato. Per intenderci, è come se nero da “contrario di bianco” andasse a significare “meno bello di bianco”. Quindi, in assenza di una coerente “trasparenza linguistica”, si creava un vero pregiudizio. E, una volta consolidato questo pregiudizio, sedimentato e strutturato, diventava un nuovo tratto semantico della parola. Praticamente ne modificava la denotazione.
Ed è quello che è successo agli aggettivi: urbano e villano. Prima di renderci conto di che cosa sia “urbano” e che cosa sia “villano”, già ci prefiguriamo che urbano sia “meglio” di villano. E oggi, per effetto dell’antonomasia, nell’accezione comune, urbana è la persona di buoni comportamenti; mentre villano è colui che, non conoscendo le convenzioni della buona creanza, mostra comportamenti non normalizzati (cattivi!).
Allora per meglio capirci ci conviene risalire all’origine, e fare la storia delle parole. E dobbiamo partire dalle parole latine “urbs” (città) e “villa” (fattoria) – da cui derivano i due aggettivi “urbanus” e “villicus”, in seguito “villanus”. Urbs è la città organizzata (insieme di abitazioni, di popolazione, e di leggi); “villa” è la casa di campagna, la fattoria agricola (che può essere dimora della famiglia e insieme azienda agricola). Così urbano è il cittadino, e villano è il contadino.
Dopo questa precisazione, chi direbbe che la città è migliore della campagna, senza definire prima “rispetto a quale indicatore si intende fare il confronto”?
Invece è successo che il citato fenomeno dell’antonomasia (che rientra anch’esso in quel meccanismo della lingua che gioca sul trasferimento di significato che abbiamo chiamato metafora) ha fatto sì che alla connotazione di carattere geografico si sia sovrapposta quella di carattere sociologico, scivolando poi in quella di carattere morale. Così la connotazione (il significato aggiunto dall’uso) di urbano è diventata “positivo”, “buono”; e quella di villano, “negativo”, “cattivo”.
E i “vigili urbani” sono veramente sempre “urbani”? O, fra essi, ce ne sono anche di “villani”?
A questo proposito, vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che rimetterebbe a posto lo schema città/campagna. Notiamo come l’organizzazione del territorio, per ragioni storiche, socio-economiche, e culturali, abbia fatto sì che gli insediamenti umani di una certa importanza, i casali, abbia fatto sì che la città nella lingua italiana si chiami città (Civitanova, Civitavecchia, Orvieto, ecc.), mentre in quella francese, ville (Thionville, Luxembourg Ville, Villerupt, ecc.).
Luigi Casale