Significato e origine di: Primo, secondo, … ultimo

Primo

Chiunque può avvicinarsi al lavoro che stiamo portando avanti da qualche anno su queste pagine. Se ciò interessa, naturalmente. Soprattutto, è cosa che si può fare anche autonomamente: a partire da un buon dizionario della lingua italiana. E ce ne sono diversi oggi in commercio. Non è necessario che siano specificatamente dizionari etimologici. Basta che siano ben fatti: con coscienza e con finalità chiare. In genere, nei vocabolari scolastici, non mancano i rimandi alle radici latine e greche del lessico italiano, o a parole delle lingue che hanno influenzato l’italiano nel corso della storia linguistica nazionale.

Questa premessa vuol essere d’incoraggiamento (e anche una rassicurazione) per i nostri lettori, e specialmente per gli studenti che affrontano lo studio del latino e del greco, o che cominciano a familiarizzare con le lingue europee. Ma anche con le altre parlate di tanti immigrati ormai residenti in Italia, i quali padroneggiano la nostra lingua.

Tuttavia resta comunque difficile – forse complicato – ricostruire l’origine del nome di quei numeri che sono alla base della numerazione e della relativa denominazione, come uno, due, tre, ecc; cento, mille. Ma, non è esattamente di questo che voglio parlare.

Si sa che per le lettere dell’alfabeto, la rappresentazione grafica (la forma della loro scrittura: i grafemi), l’origine dovette essere un ideogramma; cioè dei disegni stilizzati di determinati oggetti che, col tempo, ridotti all’essenziale, hanno preso la forma delle lettere che conosciamo oggi. Contemporaneamente questi segni grafici, proseguendo ancora il processo di astrazione, mentre continuavano a richiamare alla mente l’oggetto designato, hanno finito col simboleggiare il suono del fonema caratteristico, inconsciamente collegato all’oggetto stesso.

Non molto diversamente deve essere successo per i numeri, nonostante questi, per la loro natura concettuale di entità, potevano essere rappresentati più realisticamente ognuno con la peculiare pluralità di segni, come avviene nella scrittura dei numeri romani (almeno per i primi quattro).

Questo per la rappresentazione grafica. Ma per i loro nomi? Qui possiamo supporre che i nomi dei numeri, originariamente dovettero indicare cose, fatti, ed esperienze che in qualche modo fossero legate a quelle realtà della vita quotidiana che si presentavano abitualmente come insieme di unità, un unicum collettivo. Gli occhi, le gambe, le zampe, le dita (per mantenerci ad una realtà molto vicina).

In seguito anche altre immagini, legate a situazioni particolari o ad esperienze originali, possono aver imprestato i loro nomi anche ai numeri. Poi sarà venuto il momento dei multipli, con i meccanismi logico-linguistici che conosciamo, anche se i criteri alla base dell’organizzazione numerica non sono identici in tutte le lingue.

Così alla fine la visione seriale della realtà e la sua rappresentazione nella lingua (e nella scrittura), si sarà imposta alle operazioni contabili: conteggio dei capi di bestiame, schieramento dei soldati, registrazione delle scorte nei magazzini, o delle operazioni di baratto. E solo allora si saranno specializzate le tecniche di calcolo rapido, a partire dall’addizione, prima con le unità semplici poi con quelle complesse, fino alla creazione di procedure sintetiche schematiche e formalizzate.

Oggetti, idee, ed ideogrammi, la procedura che, come si ritiene, ha dato origine ai sistemi di rappresentazione grafica. Finalmente, implementandosi il linguaggio, il processo logico avrà trovato altre formule a mano a mano che l’uomo scopriva tutti i tipi di relazione numerica tra gli oggetti e, in astratto, tra i numeri. Fino alle misurazioni e ai relativi calcoli. La meraviglia di fronte al mistero (l’esattezza) dei numeri e del loro complesso gioco di ricorrenze e di rimandi ha addirittura portato l’uomo a considerarli sostanze soprannaturali, e simboli di valori morali: l’Assoluto.

Ma i linguisti sono piuttosto dei letterati, al massimo dei psicologi, ma sempre letterati: non filosofi, né naturalisti. Perciò dobbiamo procedere a partire dalle parole.

I numeri, dalla grammatica, sono definiti aggettivi (nomi aggettivi), perché sono sempre accompagnati a un nome; almeno all’origine. Se isolati, possono essere sostantivi (nomi sostantivi). Essi di norma aggiungono (ad-iectum) al nome sostantivo un elemento che caratterizza la sostanza del nome per il suo aspetto quantitativo. E questi aggettivi (numerali) a seconda di come vengono usati (e perciò da come sono strutturati linguisticamente) si distinguono in cardinali, ordinali, distributivi, moltiplicativi, avverbiali (essendo questi ultimi dei veri e propri avverbi).

Non potendo spiegare l’origine dei nomi dei numeri – non era questo, infatti, il nostro assunto – accontentiamoci di vedere almeno alcune parole che con i numerali hanno un rapporto stretto: come primo, secondo, … ultimo.

“Primo” (latino: primus) è un superlativo derivante dall’avverbio latino prae (avanti). Da prae si formano infatti il comparativo prior e il superlativo primus (avanti a tutti).

“Secondo” (lat.: secundus) è un aggettivo verbale dal verbo sequor (seguire). È quello che è destinato a seguire.

“Ultimo” (ultimus) è anch’esso un superlativo. Dall’avverbio ultra (al di là) si formano il comparativo ulterior e il superlativo ultimus (che viene dopo tutti gli altri).

“Penultimo” è formato da paene + ultimus, dove paene è un avverbio che significa quasi. (Vedi: penisola, penombra, ecc.).

Luigi Casale

 

 

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