Cafone!

 

A chi piacerebbe essere chiamato cafone?

Eppure, non c’è niente di degradante nella parola cafone!

Il vocabolo è di origine italiana, in particolare del meridione della penisola.

Ignazio Silone (1900-1978), nella prefazione al suo romanzo, Fontamara (1933), dove sceglie per sé il ruolo del narratore, proprio un cafone, lo spiega molto bene. A lui, fuoruscito in Svizzera per motivi politici, altri cafoni, emigranti dal suo paese, raccontano la storia che egli poi, fedelmente, si accinge a narrare nel romanzo.

In effetti, questa parola è connotata sotto l’aspetto sociologico e non dovrebbe avere nessuna implicazione di carattere morale, come ho detto. Però, nell’uso che se ne fa, involontariamente oppure no, i rappresentanti della classe egemone, cioè i ricchi borghesi, finiscono con attribuirle un significato di tipo socio-economico se non addirittura morale, snaturando completamente il suo originario significato.

Silone, dando al testo la forma del genere autobiografico di prima e di seconda mano (il narratore che riporta il racconto dei personaggi narranti), con la scelta di personaggi cafoni riscatta la condizione del cafone, facendo vedere che se qualche discriminante, civile e morale, esiste nei rapporti sociali in termini di educazione e di umanità, questa è assolutamente svantaggiosa per la classe dominante. La povertà non è una vergogna, come non lo è la condizione di cafone. Spesso è più vergognoso il comportamento dei ricchi e dei potenti.

Infatti, cafone etimologicamente non significa né povero, né contadino, né incolto, come spesso siamo portati a credere. Lo si evince dal discorso che se ne fa nell’insieme del racconto siloniano.

All’origine della parola c’è un vocabolo greco, tipico del meridione italiano dove più a lungo si è conservato l’uso del greco attraverso la cultura bizantina. Kakòphōnos (plurale: kakòphōnoi), sono quelli che parlano male una lingua. Ma questo, secondo il giudizio che ne danno quelli che ritengono di parlarla bene; senza rendersi conto che la loro è una lingua diversa.

E’ la classica scena delle rappresentazioni stereotipate di una realtà di paese, frequente nella letteratura (e nella cinematografia) del dopoguerra, in cui il prete, il maestro elementare, il farmacista, si collocano al di sopra del livello del popolo per una loro presunta prerogativa di parlanti colti.

Luigi Casale

 

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