Francesco è un bambino povero, forse il più povero tra tutti i suoi compagni i quali, almeno, riescono a valersi delle risorse della campagna dove i genitori contadini, ogni tanto, barattano galline con altri beni primari, oppure possono contare sulla frutta fresca di stagione per placare i tormenti dello stomaco. Lui invece no. Sempre vestito allo stesso modo, d’inverno e d’estate. Sempre lo stesso pantaloncino corto, più volte rammendato, e la stessa camicia colorata il cui colletto sembra pizzicato da ogni genere di uccello rapace. Eppure, indossa con dignità quei vecchi stracci, poiché la madre ogni settimana s’appresta a lavarli con la cenere che raccoglie dal suo stesso caminetto o dal forno pubblico della vicina, affinché tutti i lunedì esca di casa pulito e profumato d’acqua fresca per andare a scuola. Flaviano, suo padre, un artigiano che si dedicava a impagliare con fibre di giunchi secchi attorcigliati le basi delle sedie e le bottiglie, era morto in guerra per difendere a sangue e fuoco “il posto al sole”, anche se mai nessuno, nonostante la sua insistenza, aveva saputo spiegargli quali benefici potevano trarre per lui e per la sua famiglia quelle terre aride dell’Africa, arse dal caldo rovente che non dava tregua, né di giorno né di notte.
Nella scuola del paese, il maestro dimostra un affetto speciale per Francesco perché è un allievo disciplinato e intelligente. Non solo recita con profondo coinvolgimento le poesie del Pascoli o del Carducci o di altri poeti di fine Ottocento, ma compiace con le sue stesse composizioni i compagni di classe, i quali, soltanto per tal motivo, lo risparmiano dalle burla che, invece, dispensano profuse ad altri, timidi e tranquilli come lui. Proprio per questa naturale inclinazione del bambino alle lettere e alle arti, al maestro procura un gran dolore quando la madre decide di ritirarlo dalla scuola finite le elementari.
– Non posso sopportare più le fitte della fame – risponde la madre al maestro quando questi continua ad insistere sulla convenienza che il bambino prosegua gli studi nella scuola. – Immagini un po’. Il fratello maggiore si è appena imbarcato per il Venezuela, e chissà quanto tempo passerà ancora prima che possa darci una mano. Francesco ha compiuto ieri undici anni e don Gregorio mi ha promesso di prenderlo con sé nella fattoria per portare al pascolo le pecore e le capre. Dice che i suoi servigi verranno ricompensati con il latte. Così, potrò, perlomeno, finire di dare l’acqua di riso al fratellino, che sta crescendo pelle e ossa come un pulcino appena nato.
Trascorrono sei anni prima che la situazione inizi a cambiare in casa Martinelli. Il figlio maggiore si fa strada come coltivatore di caffè, lassù lontano, nelle terre calde di Barlovento[1], aprendo non solo un conto in banca alla madre che ha saputo con fatica affrontare le cattive acque, ma compra persino una casa nuova nel paese, obbligando la donna a trasferirvisi fintantoché decida di ritornare per mettere su famiglia.
Vana intenzione che mai si concretizza. Il tropico è come una calamita che ti attrae e ti imprigiona eternamente. È impossibile resistere all’allegria dello zambo quando con le sue svelte mani batte sul cuoio del tamburo i ritmi magici accompagnati con strane contorsioni che non cessano fino allo sfinimento; o al volo di uccelli schiamazzanti come i pappagalli variopinti, o le gazze reali dalle chiome lunghe e scure, o le are dalle code acuminate, o i parrocchetti verdi che vanno sempre in coppia. Povero lui, infine, destinato a coprirsi con la terra di un’altra patria le ossa nate nei pressi di Bari nella Puglia. E se fosse poco, decide anche di fare arrivare il fratello, ormai un giovanotto, perché lo aiuti nel nuovo negozio della torrefazione, iniziato quando la coltivazione e la distribuzione dell’aromatico caffè era cresciuta.
– Ti occuperai degli affari qui a Caracas – dice il fratello a Francesco quando giunge. – Io rimarrò nella tenuta nei pressi di Curiepe[2] perché ormai mi risulta complicato separarmi da questo silenzio che m’avvolge; dal cielo azzurro sereno senza tracce di fumo né di odori strani; dal povero negro che ama soffre e spera; dalle baldorie di San Juan[3] che balla con i diavoli; dal mare che ospita i pesci più belli del pianeta.
Questo dice al fratello e non parlano d’altro, poiché sa bene che il giovane è serio e responsabile. Non gli dice nemmeno di stare all’erta alle imboscate e agli artigli della donna creola, calda come il forno della vicina dove la madre raccoglieva la cenere per il bucato. E bene avrebbe fatto, perché Francesco ha faccia d’angiolo e corpo da gladiatore, appetitosi quindi, all’ora del tramonto quando la fresca brezza della sera accende il desiderio delle mulatte insidiose!
Una domenica, un giovane amico, che lo fu anche d’infanzia nel paesello natio, invita Francesco ad una passeggiata per le fresche colline de El Junquito[4], luogo turistico rinomato per i suoi golfeados[5], i ciccioli e il maialino fritto esposto nelle vetrine ad ogni angolo. È piacevole, inoltre, la brezza che soffia come un vento gelido e poi la nebbia fitta che non fa vedere a un passo di distanza. Al ritorno, e senza preavviso, Paolo devia per un sentiero di campagna e parcheggia la macchina vicino a un capannone illuminato da luci tenui in prevalenza gialle e rosse.
– Adesso ti farò conoscere le donne più belle del paese – dice a Francesco senza alcun preambolo. – Questo non è un bordello di quelli ordinari aperto a tutti. Qui viene solo gente rispettabile e le ragazze sono studentesse, hostess, segretarie che hanno bisogno di arrotondare lo stipendio o sono qui soltanto in cerca di avventure.
Come può essere rispettabile qualcuno che va al bordello, per quanto esclusivo si possa immaginare? È la prima cosa che gli viene in mente a testa fredda. In ogni caso, la sua principale preoccupazione è che non aveva mai annusato da vicino una donna e ciò gli avrebbe potuto creare impaccio, o peggio ancora imbarazzo, se avesse fallito in questa prova.
Ma alla fine, tutto fila senza intoppi. Gli si avvicina una biondina naturale dal viso tondo, bella come l’angelo raffigurato nell’affresco della chiesa del suo paese. Notando che gli tremava il corpo, e che anche le labbra erano diventate di un color bianchiccio, per distendere i nervi del giovane che a malapena diceva qualche parolina in spagnolo, si intrattiene a lungo con lui e gli chiede cose della sua vita, alcune banali, ma altre più che intime e così, a poco a poco, inizia ad accarezzargli le mani, e il viso, fino a consumare l’atto con dolcezza, come se fosse realmente una persona cara e non un cliente occasionale che arriva e fugge, come un ladro che vuole cancellare all’istante le tracce del delitto.
– Vorrei rivederti – gli dice poi la bionda, mettendogli tra le mani un biglietto con il suo nome e un numero di telefono.
Anch’io, pensa Francesco tra sé e sé, convinto che la visione di quella donna gli avesse suscitato la dolce sensazione di un amore a prima vista.
I giorni successivi si incontrano qua e là, ad ogni ora ed in qualsiasi posto. Indizio, questo, che Soraya non frequenta più il capannone e che ha occhi solo per l’italiano al quale giura mille volte eterna fedeltà.
Dopo un anno d’incontri intensi, di desideri reciproci dolci come il miele, prendono la decisione definitiva di coronare il loro sogno d’amore davanti all’altare. È d’uopo, quindi, che si conoscano le famiglie e così Francesco la porta dal fratello nella prospera tenuta dove coltiva il caffè. Appena la vede, e prima ancora che nessuno avesse il tempo di muovere le labbra, Antonio investe il giovane con queste dure e terribili parole:
– Che cosa ci fai tu mano nella mano con questa puttana che non vale quattro soldi!
Dice questo ed altro ancora, insinuando alla fine che anche lui era andato a letto con la donna nel capannone sulla strada di campagna che va a El Junquito. Notando, quindi, che Francesco, invece di ingelosirsi, la stringe ancor di più tra le sue braccia come se volesse dire: “è acqua passata, ora è solo mia e lo sarà per sempre”, ribatte con questa frase pungente che non ammette repliche:
– Bene. Sposatela allora se pensi che ti farà felice. Ricorda, però, che hai perduto un fratello. Non ti voglio più vedere. Raccogli le tue cose dalla fabbrica e sparisci dalla mia vista quanto prima.
Così fu. Trascorsero diversi anni senza che Francesco avesse più notizie del fratello. Un giorno, per quelle coincidenze della vita, incontra un operaio della fabbrica e gli dice che Antonio sta molto male, sul punto di morire.
– Il tabacco, amico, non perdona – continua a dirgli l’uomo. – Sta laggiù, nel casolare della tenuta, buttato sull’amaca tutto il giorno. Il dolore lo soffoca senza che più nessuno possa fare nulla: né il vento della sera, né le onde del mare che vanno e vengono. Solo le gazze, le civette e gli avvoltoi fanno la guardia tra i rami degli alberi e degli arbusti attratti dall’odore di morte che emana il corpo.
Francesco e la moglie non perdono un minuto. Vanno alla tenuta e si prendono cura di lui con molto affetto. Lei, in particolare, non si allontana un istante dal suo capezzale, cercando di alleviare, come meglio può, il dolore del suo corpo deperito e l’angoscia dell’anima pentita. Antonio non dice nulla. La guarda soltanto, frenando il desiderio immenso di accarezzarle la bionda capigliatura. Finché, avvertendo che è giunto il momento della morte, con voce affannata riesce a stento a dire queste ultime parole:
– Perdonami, Soraya.
E spira tra le sue braccia.
Barlovento è una regione ubicata nello stato Miranda, ad est di Caracas. È nota per i suoi balli afroamericani, oltre che per le bellissime spiagge incontaminate, una rigogliosa vegetazione e le grandi estensioni di campi coltivati a caffè.
[2] Curiepe, una parrocchia del Municipio Brión nella regione di Barlovento, è situata a 8 km dal capoluogo Higuerote (si legga igherote), rinomata per la sua ricca produzione di caffè e di cacao.
[3] In Venezuela, i festeggiamenti in onore di San Giovanni Battista rivestono singolare importanza, specialmente a Curiepe. La festa incomincia alla vigilia del giorno di San Juan (23 giugno) e prosegue fino al 25. È piena di magia ed incantesimo, suoni di tamburi e ballo, e il santo diventa padrone dello spazio, dei suoi fedeli e dell’anima della festa. In quei giorni Curiepe si riempie di turisti nazionali e internazionali.
[4] Vedere Nota 12, Cap. VI.
[5] Il golfeado è un dolce tipico della gastronomia venezuelana. Si tratta di un impasto arrotolato a forma di chiocciola, ripieno tra le pieghe di papelón grattugiato (un preparato alimentare ottenuto dal succo della canna da zucchero da cui si ricava una melassa che viene poi fatta essiccare), formaggio bianco e aromi come l’anice, ed altri che ogni pasticcere inventa.