Terroristi

Tipografia, stampa di un libro.
(Foto di Jochen Haltern da Pixabay)

– Fuori! Fuori! – grida la gente accalcata sui marciapiedi, mentre la polizia politica, armata fino ai denti alla maniera di Rambo, si fa largo sfondando le porte che danno negli uffici.

Pasquale impallidisce. Intuisce che qualcosa di brutto può accadere, perché quei demoni avevano già dimostrato che se volevano fottere qualcuno non c’era nulla che potesse fermarli. Ma poi, chi non deve non teme – dice a sé stesso, ripetendo quasi ad alta voce la massima – e si carica di coraggio per affrontare la scomoda situazione.

– State perdendo il vostro tempo, amici. Qui non troverete nulla che vi possa interessare. Siamo gente perbene e ci teniamo alla larga dai guai – osa balbettare con il suo forte accento meridionale.

– Chiudi il becco, musiú[1] di merda! – è la risposta dell’energumeno che, con la mitragliatrice puntata all’altezza del suo petto, dà ordini ai commilitoni di scendere nella sala delle macchine per iniziare la perquisizione, dopo aver fatto sgomberare il personale che a quell’ora era in piena attività.

C’era una caccia alle streghe per le strade. Il governo non riusciva a dare spiegazioni sugli attentati occorsi a seguito dello sciopero generale quando alcuni settori radicali programmavano soluzioni violente alla crisi del paese[2] ed era, pertanto, imprescindibile fabbricare prove false per dimostrare che la situazione era sotto controllo. Insomma, era necessario, a tutti i costi, trovare i terroristi, reali o fittizi, per tenere in alto il morale della milizia rivoluzionaria la quale, si sa, crolla come un castello di sabbia quando non è ben sostenuta da una convinzione ideologica.

Per questo, era usuale la presenza ovunque, per le strade e i viali della città, di decine e decine di furgoni senza targhe carichi di funzionari civili della polizia che, a tutta lena, a sirene spiegate e luci a intermittenza, vanno a caccia di cospiratori. Era altresì normale, però, che la gente si accalcasse nei luoghi dei “procedimenti”, facendo cacerolazos[3] o gridando loro improperi, talvolta per quelle semplici intuizioni collettive che fanno pensare alle farse, sebbene non si abbiano le prove contundenti per dire che effettivamente siano tali.

Come in questo caso. Nessuno sapeva con certezza per quale motivo la polizia avesse preso d’assalto la tipografia di Pasquale, ma ciò non sembrava interessare a nessuno. Il loro istinto suggeriva solo la necessità di manifestare la propria solidarietà all’italiano. E basta!

– Lei non mi ha ancora consegnato il mandato di perquisizione e neppure mi ha mostrato le credenziali del pubblico ufficiale che ispeziona l’operazione. È un diritto costituzionale di ogni cittadino – torna a insistere spaventato Pasquale, i cui battiti del cuore cominciano ad accelerarsi sempre di più, tanto da sentirli in petto come i rintocchi di tamburo di una fanfara in marcia.

– E chi ti ha detto che i terroristi hanno diritti costituzionali! – urla ancora quell’uomo come un dannato, voltandogli le spalle per tornare a complottare con i suoi compagni. Uno di questi, intanto, arriva di corsa dalle scale del seminterrato. Porta una valigetta nera in mano, la poggia su un bancone e la apre.

– Ecco qua, capo, non c’è più bisogno di cercare. C’è tutto: il cliché, la prova tipografica e un fascio di volantini anonimi identici a quelli che i complici di questi traditori hanno fatto esplodere con il niple[4].

La goccia che fa traboccare il vaso. Non regge più il cuore di Pasquale. Crolla l’italiano come un albero quando nel bosco viene colpito da un fulmine durante la tempesta.

– Presto, chiamate un’ambulanza! – grida preoccupato un nipote dal corpo atletico, un gigantone, che stringe al suo petto vigoroso la testa calva dello zio svenuto.

Mentre l’ambulanza a sirene spiegate fila via verso l’ospedale procedendo a zigzag come un serpente tra le auto per schivare il traffico infernale dell’ora di punta, con gli occhi chiusi ma cosciente di ciò che gli succede attorno, su uno schermo immaginario Pasquale rievoca la sua infanzia nella Molfetta natia, e poi l’adolescenza e la gioventù spensierata a Caracas, la bella città dai tetti rossi, dov’era arrivato con i genitori e i fratelli poco prima di compiere i tredici anni d’età.

Affascinato da El Ávila[5] − la montagna magica che da casa sua vedeva cangiante nei colori secondo i capricci inaspettati del tropico − la scalava con gli amici quasi tutte le domeniche fino al Humboldt per scendere poi dal versante di Macuto fino alle spiagge di sabbia color oro, dove giungevano sfiancate le acque agitate del Mare dei Caraibi[6].

Non era amante delle cose futili che, invece, attraevano molti giovani della sua stessa età. Si godeva le escursioni nelle periferie della città e si dilettava quando, nel parco vicino casa sua, al tramonto, centinaia di uccelli neri e gialli, con uno stridore infernale, svolazzavano da un ramo all’altro degli alberi, come impazziti, prendendosi cura delle loro nidiate che osavano lanciarsi per il primo volo.

Insomma, cresceva senza vizi, compiendo al liceo il proprio dovere di scolaro modello e aiutando il padre nella modesta tipografia che, con il tempo, sarebbe diventata una grande azienda, tra le più prestigiose di questa immensa terra. Gli viene in mente adesso, disteso sulla lettiga dell’ambulanza che lo conduce in ospedale, la morte del padre buono e il giuramento fatto davanti alla sua salma adagiata nella bara di legno pregiato, di prendere, insieme ai fratelli, le redini del negozio con il proposito, non solo di prosperare come prova per tutti che con il lavoro tenace si costruiscono le grandi opere, ma anche per realizzare il sogno racchiuso nel cassetto sin da quando era ancora un fanciullo: quello di diventare un benefattore, un mecenate di artisti, un filantropo.

– Da grande voglio fare il sacerdote, il missionario che allevia le pene della gente che soffre – ripeteva sempre in famiglia.

Al padre non piaceva l’idea del sacerdozio, che, per fortuna, cominciò a scemare un po’ alla volta. Gli stessi scopi – diceva tra sé per non ferire i sentimenti del ragazzo – si possono ottenere in tanti modi diversi.

E in effetti così successe. Responsabile dell’azienda, quando riesce a trasformare il lavoro artigianale della tipografia in un’industria automatizzata che non richiedeva più la sua presenza fissa, Pasquale diventa promotore di un’associazione benefica incaricata di recuperare i bambini della strada per offrire protezione, affetto ed educazione in scuole speciali con il nobile proposito di insegnare loro un mestiere che permettesse di affrontare un domani, con meno difficoltà, gli ostacoli della vita.

Con il tempo, il progetto diviene una “colmena[7], dove si lavora notte e giorno affinché a quei bambini cenciosi, sniffatori di colla, rifiuti umani abbandonati a se stessi, sia garantita la vera vita che, una volta scoperta, vedranno per sempre bella e ricca di colori.

– Ecco come mi viene ricompensato l’amore che sento per questa terra, questa seconda patria mia! – pensa adesso, proprio mentre viene adagiato su una barella del pronto soccorso.

Durante i tre giorni di degenza, l’ospedale sembra una chiesa: un andirivieni di persone come quando alla Vigilia di Natale, in fila indiana, si riesce appena a dare uno sguardo veloce al Bambino appena nato. Tanta solidarietà dà animo alla famiglia, facendole sopportare con meno traumi la presenza nel corridoio di due funzionari che dissimulano alla perfezione il loro compito di sorvegliare Pasquale “per evitarne la fuga”.

Finché, di pomeriggio inoltrato, quando il cielo si veste di un rosso non molto intenso per i raggi del sole che fanno fatica a penetrare le nuvole, arriva Silvano con un sorriso aperto stampato sul volto di porcellana gridando, affinché tutti sentano, incluso i poliziotti di guardia:

– Zio, li abbiamo smascherati! Sono appena arrivati i risultati e l’inchiostro non coincide con il nostro.

Non capiscono i presenti cosa voglia dire il giovane. Neppure lo zio capisce. Silvano, allora, spiega nei dettagli che l’avvocato ha avuto l’idea di far analizzare uno dei volantini che gli sbirri, durante la ritirata, sbadatamente, avevano fatto cadere sul pavimento dell’azienda.

– Coincide con il tipo di carta e con la marca che di solito utilizziamo nei nostri lavori – prosegue il giovane nel suo racconto – ma non con l’inchiostro che contiene invece dei composti chimici che si fabbricano solo in Cina. Abbiamo potuto dimostrare, aprendo i nostri archivi, che in nessun ordine di acquisto compare quel prodotto. Di fronte a una tale prova, resa già pubblica da tutti i mezzi di comunicazione, abbiamo smascherato la truffa che avevano messo in scena ai nostri danni.

Pasquale tira un respiro di sollievo, chiude gli occhi e dice sussurrando:

– Beh, il danno è ormai fatto. Hanno inferto il colpo decisivo a questo cuore, come si fa con la stoccata al toro che non comprende perché mai il matador lo guardi con disprezzo, senza motivo, quando il suo unico desiderio era quello di continuare a ruminare l’erba al pascolo, all’aria aperta. Abbiamo almeno salvato l’onore. Nulla, ora, potrà impedire ai miei figli, e ai loro figli del futuro, di andare con la fronte alta, orgogliosi del cognome che portano, giunto di là del mare per perpetuarsi in un paese dalle bellezze infinite simile all’orchidea nel bosco inesplorato: Venezuela.


[1] Vedere Nota 7, Cap. II.

[2] Il riferimento è al 2002, quando in Venezuela si susseguono una serie di eventi contro il governo del Presidente Hugo Chávez. Il 22 ottobre, un gruppo di 14 alti ufficiali dell’esercito venezuelano rivolge un appello alla popolazione per la disobbedienza civile, proclamando la piazza Altamira di Caracas “territorio liberato dal chavismo”. Il 2 dicembre viene indetto il quarto sciopero generale a tempo indeterminato da industriali, militari pro-golpisti e dal sindacato CTV (Confederazione dei Lavoratori del Venezuela) riuniti nella “Coordinadora Democrática de Acción Cívica”. Lo sciopero durerà 62 giorni senza successo.

[3] Il cacerolazo (si legga caserolaso) è una forma di manifestazione pacifica e rumorosa tipica dei paesi del Sudamerica in cui l’espressione pubblica di protesta si realizza attraverso il rumore ottenuto percuotendo coralmente degli oggetti adatti allo scopo, come casseruole (da cui il nome), tegami, pentole, coperchi o altri utensili simili di uso comune.

[4] Il niple è un ordigno di fabbricazione casalinga a forma di tubo che all’esplodere spande oggetti come chiodi, palline di vetro e simili, che possono avere effetti letali. Sono usati dalle guerriglie urbane anche per diffondere volantini con messaggi clandestini.

[5] Vedere Nota 4, Cap. VIII.

[6] Nella cima de El Ávila era stato costruito nel 1956 l’Hotel Humboldt, oggi solo in funzionamento in alcune aree. Da lì, in funivia, ma anche a piedi per un sentiero scosceso, si poteva e si può accedere al versante opposto di Caracas, fino a Macuto, e quindi alle spiagge del mare lungo la costa.

[7] Colmena significa letteralmente “alveolo”, e in Venezuela sono detti così i centri di attenzione ai ragazzi della strada per salvare loro dal vizio e quindi per garantire un futuro più sicuro. Qualsiasi azienda o persona privata può gestire una propria colmena, o patrocinare altre esistenti, rispettando però le normative stabilite nei regolamenti nazionali.

Lascia un commento