La truffa

Una bella casa simile a quella che ricordava raffigurata sulla copertina di un racconto dell’infanzia
Una bella casa simile a quella che ricordava raffigurata sulla copertina di un racconto dell’infanzia

Franco aveva raggiunto, finalmente, lo scopo della sua vita: possedere un terreno proprio, non molto esteso, con una bella casetta al centro come quella che ricordava raffigurata sulla copertina di un racconto dell’infanzia, circondata da alberi da frutto e da tanti fiori profumati. Era proprio in questo modo che aspirava a realizzare il suo sogno di vivere sereno: lontano dal frastuono della città infernale e circondato da uccelli che al mattino lo svegliassero con allegri cinguettii come le cantilene della madre quando con un bacio sulla guancia lo tirava giù dal letto affinché andasse, ancora bimbo, ad espletare i suoi doveri di apprendista muratore nel paese. Sebbene persista sempre nella sua anima la nostalgia di tornare a Leonessa, il paese natio sulla montagna quasi sempre tappezzato di bianco per la neve abbondante che vi cade, s’innamora comunque del tropico rovente, dove trascorre gli anni intensi della sfrenata gioventù e, ora, della maturità più pacata. Per questo, con le sue stesse mani, costruisce il suo rifugio nell’estrema periferia di un villaggio chiamato San Mateo[1], nello stato Aragua. Vive da solo, in compagnia di un peón[2] che l’aiuta nella semina del terreno. Non gli si conoscono storielle d’amore adesso, e nemmeno in passato i suoi paesani l’hanno visto mai andare dietro una sottana di mulatta in calore che, quando si tratta d’italiani, saltano loro addosso come le tigri affamate sulle prede inermi, e nemmeno ad altre donne con serie intenzioni di metter su famiglia. Da lì i mormorii dei maldicenti che lo considerano un tipo strano, un finocchio che preferisce le carezze di un uomo anziché la gustosa lingua umida di una femmina. Ha un vizio, però, poco comune tra gli uomini effeminati: beve liquore in abbondanza come latte di capra un bimbo di montagna, tanto che, sin dalle prime ore del mattino procede barcollante simile a un ballerino che fa le prove prima di salire sul palcoscenico.

Così, placidamente, nella sua immensa casa e nel suo terreno coltivato di manghi e avocadi innestati che crescono grandi come cocomeri, si susseguono le settimane, monotone e sempre uguali. Un giorno, però, verso l’ora in cui il sole comincia il suo declino occultandosi dietro le vette della Cordigliera Centrale[3], che in lontananza sembra una muraglia a protezione della valle, si presentano due signori perbene all’apparenza: entrambi incravattati e in abiti scuri come chi assiste a una cerimonia religiosa nel dì di festa.

– Buongiorno amico, o forse meglio buonasera, poiché già non si ode il cinguettio delle rondini che ritornano ai loro nidi quando il cielo è prossimo ad imbrunire – esordisce uno dei due in un tono forbito da uomo di cultura. – Scusi il disturbo a quest’ora, mentre si gode il meritato riposo che, da quel che sembra, da persona raffinata, si palesa dimenando il profumato liquido in quel suo bicchiere di cristallo pregiato. Necessitiamo, però, del suo aiuto, il quale sarà senz’altro ricompensato qualora il messaggio rinvenuto insieme ad altre pergamene nel vecchio baule della cascina abbandonata del nonno, risultasse credibile.

– Ditemi in cosa posso esservi utile – risponde Franco senza occultare i segni del suo stupore sul volto dalle mascelle squadrate.

L’altro a seguito, più prolisso del primo e dagli stessi modi aggraziati, spiega che da una mappa − che gli mostra − simile a quella di un tesoro, risulta che proprio in quel frutteto, in svariati punti, siano nascoste antiche morocotas[4], pepite d’oro in uno scrigno d’argento tempestato di diamanti, e altri oggetti dal valore inestimabile.

– Finora – prosegue senza destar sospetto, senza che dal viso trapeli un minimo d’emozione – abbiamo potuto capire che a tre passi a destra dall’unico samán[5] piantato in questo posto, a circa cinque palmi dalla superficie rasa, dovrebbe essere sepolto un sacchetto in pelle di margay[6] che contiene varie monete d’argento risalenti all’epoca del generale José Tadeo Monagas[7]. Qualora lei ci desse il consenso di verificare se questa tesi è certa, proseguiremmo nell’esame delle altre carte ingiallite che indicano altri percorsi; nel caso contrario, prenderemmo quest’avventura come un’ulteriore beffa a cui il ricco vecchio volpone aveva abituato la famiglia.

Franco, con la mente offuscata dal rum, pensa, comunque, che nessun danno avrebbe arrecato alla sua proprietà una buca scavata sotto un albero, vicino alle radici, pertanto approva che si faccia. Anzi, chiama il suo fedele peón affinché aiuti a scavare, per evitare che quei signori così ben vestiti si debbano sporcar le mani, o ancor di più le unghie scrupolosamente ricoperte di smalto trasparente. Appena minuti dopo, a meno di un metro di profondità, viene fuori sul serio il sacchetto di pelle che, avviluppato in stracci lacerati, era pieno zeppo di monete. È evidente lo stupore sul volto pallido dell’immigrato, che non riesce a proferire una parola. Molto loquaci, invece, i visitatori i quali, ringraziando più volte la fiducia riposta in loro, gli mettono in mano, a mo’ di ricompensa, due monete che – dicono − hanno un “valore inestimabile”. Se ne vanno facendo riverenze, come quando un suddito inchina il corpo in segno di rispetto al suo sovrano. Franco ricambia il saluto scuotendo appena la testa frastornata, corre subito a casa, ormai completamente illuminata, e si rinchiude in camera stringendo forte tra le mani le due monete della buona sorte.

Trascorre, nel frattempo, una settimana, un’altra ancora e alcuni giorni di una terza. Ha difficoltà a dormire di notte Franco, pensando che quegli uomini potrebbero invadere le sue terre in cerca di più tesori. Proprio quando cominciavano a scemare le speranze di rivederli, si ripresentano, una mattina, questa volta però in abiti molto più informali. Portano in una valigetta diversi fogli di una carta stropicciata tipo cartoncino, consunte alcune agli angoli per dare l’impressione che il materiale sia vecchio. Ci sono strani disegni sulla carta, abbondano le frecce che partono da diversi punti e sono presenti persino testi scritti in geroglifico che i due uomini dicono di aver decifrato con assoluta certezza.

– Ecco fatto, amico. È tutto pronto – afferma uno. – Ci sono due opzioni. O dividiamo in parti uguali l’oro che si troverà, poiché, essendo suo il terreno, dobbiamo riconoscerle una legittima partecipazione nel negozio. Oppure, se lo ritiene più adeguato, ci offre una somma di denaro da pattuire e, facendosi carico d’ogni rischio, diventa completo proprietario delle pergamene. Con la nostra firma, ovviamente, in un documento notarile, dove consterà che non abbiamo più alcun diritto in questa faccenda.

Nella testa di Franco cominciano a girovagare i fantasmi abbacinanti, e soprattutto il diavolo tentatore, un pessimo consigliere, che gli fa rispondere rapido e deciso senza pensarci troppo:

– L’unica cosa che possiedo, oltre a questo fondo e a questa casa, sono i miei risparmi depositati in una banca della capitale. Circa centomila bolívares, che non è poi poca cosa. Se vi soddisfa la cifra, opterei per la seconda proposta.

Gli amici si guardano in faccia, ma sanno fingere talmente bene da non lasciar trapelare alcun turbamento per l’obiettivo raggiunto. Trattano, per far sembrare reale il teatrino, ma quando l’immigrato li mette di fronte alla scelta: o quella somma o l’altra alternativa, fingono di dovere accettare a malincuore l’idea della prima opzione, e fissano appuntamento per legittimare l’accordo davanti al notaio, anche lui complice della giocata.

Franco inizia a scavare il giorno stesso della firma, seguendo le istruzioni della presunta mappa. Una buca qui, un’altra più in là, un’altra laggiù vicino al cespuglio che segna il confine con il terreno limitrofo, un’altra sotto l’ombra dell’antico mamón[8] e un’altra ancora giusto all’entrata della casa. Insomma, dal balcone quella superficie sembra, tra gli alberi, una fetta del formaggio svizzero di cui è tanto ghiotto. Del tesoro, invece, nessuna traccia, nessuna speranza ormai. Vengono a galla, così, le lucide riflessioni sui fatti quando, come avveniva ogni giorno, alle prime ore dell’alba svanivano momentaneamente i fumi dell’alcol responsabili della sua rovina: il latrato insistente del cane in quella notte di cielo coperto, le due sagome che correvano oltre i confini, il terreno molle evidentemente rimosso sotto il leccio. Nessun dubbio, era tutto molto chiaro adesso, come l’acqua limpida dello stagno che lui convertì in acquario: i due truffatori avevano nascosto sotto terra le monete per simulare l’autenticità del piano. Una truffa, insomma, architettata ed eseguita da veri maestri della malavita, scaltri come la volpe che dal pollaio porta via la gallina senza lasciare, a prima vista, tracce del sentiero che conducono nella sua tana camuffata.

Nei giorni seguenti, Franco cade in uno stato depressivo atroce, che niente e nessuno riesce a gestire. Soltanto con il passar del tempo, guardandosi allo specchio e osservando l’abbondante miseria che lo circonda − nonostante la ricchezza di quella sua seconda patria − dice a se stesso che anche così, se si paragona ad altri, si sente ancora un uomo fortunato: gli rimane almeno per una vecchiaia serena una bella casa simile a quella che ricordava raffigurata sulla copertina di un racconto dell’infanzia, circondata da alberi da frutto e da tanti fiori profumati

[1] San Mateo è una cittadina dello stato Aragua, ricca zona agricola, situata tra le città di La Victoria ad est e Turmero ad ovest. Qui Simón Bolivar trascorse buona parte della sua infanzia.

[2] Il peón è il garzone tuttofare, l’operaio a cui sono affidati i lavori più umili e meno impegnativi in una tenuta e simili.

[3] La Cordigliera Centrale o Cordigliera della Costa è una catena montuosa che si sviluppa lungo la parte centrale e orientale della zona costiera del Venezuela. È a tutti gli effetti una diramazione verso nordest della Cordigliera delle Ande, tanto da essere nota anche con il nome di Ande Marittima.

[4] Vedere Nota 13, Cap. I.

[5] Albero emblematico che raggiunge i 20 metri di altezza. Rappresenta un simbolo nazionale del Venezuela.

[6] Piccolo felino selvatico dalla lunga coda e dalla pelle macchiata da linee di forma ellittica.

[7] José Tadeo Monagas Burgos (Maturín, 28 ottobre 1784 – Caracas, 18 novembre 1868) è stato un politico ed eroe della guerra d’indipendenza venezuelana. Due volte presidente del Venezuela dal 1847 al 1851 e dal 1855 al 1858, abolì la pena di morte per i crimini politici.

[8] Il mamón è un albero della zona intertropicale delle Americhe, molto apprezzato per il suo frutto commestibile, rotondo, relativamente piccolo, di sapore alquanto acre con un grosso seme, che cresce a grappoli.

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