Se è per Rafael, non costa niente…

Bicicletta appoggiata al muro del negozio.
Bicicletta appoggiata al muro del negozio.


Dalla terrazza del muraglione di Vibonati, Felice si ferma estasiato a guardare la luna che quella sera si riflette come un enorme globo nelle acque cristalline del Golfo, quello stesso in cui Carlo Pisacane sbarcò un giorno con i suoi trecento uomini che intrapresero invano una lotta impari per liberare il suolo napoletano. Ogni volta che il giovane si ritrova da solo al cospetto di tale spettacolo di mare aperto sotto un manto di stelle che paiono schizzare come sassolini d’argento sulle placide onde, comincia a recitare ad alta voce l’eroico poema di Luigi Mercantini che gli inonda l’anima fino a fargli arrossare di lacrime gli occhi visionari. Sono anni difficili questi. Gli ultimi di un secolo che si congeda sì con la missione compiuta di aver scacciato lo straniero dai confini italici, ma che non allevia il compito degli eredi di Cavour e di Mazzini. I lupi di altro pelo, infatti, sono già in agguato per ingoiare in un solo boccone il popolo sprovveduto. Le cellule anarchiche che sognano una patria libera, senza leggi inutili, senza proprietà private, sono perseguitate. Felice appartiene a un circolo napoletano e ora, dinanzi al mare che da lontano lo accarezza con la sua cordiale brezza, medita la fuga dalla furia dei suoi nemici che lo cercano per annientarlo. Già altri erano riusciti a fuggire dalla stessa caccia spietata.

− Cercherò di salire clandestinamente sul bastimento che domani salpa da Napoli per il Brasile − dice tra sé mentre complotta come fare per imbarcarsi senza essere scorto. − Già alcuni compagni hanno raggiunto quelle terre immense di selve inesplorate, dove, a quanto pare, sono tollerate le idee che noi propugniamo.

Riesce, infine, a travestirsi da sporco marinaio e comincia la lunga traversata, condividendo, insieme ai ratti, il caldo insopportabile che non dà tregua, come pure la noia infinita nella stiva buia del bastimento maleodorante. Dopo un periodo di tempo difficile da calcolare poiché la notte è uguale al giorno e viceversa, viene a sapere da due persone che conversano nel ponte, sulla sua testa, che già prossima alle coste della Guyana la nave era stata dirottata per approdare in un piccolo porto di cui dicono il nome, ma che lui, purtroppo, non riesce a coglie-re. Quando intuisce che è l’alba, grazie al canto di un gallo e al cinguettio di molti uccelli gioviali che fischiettano in un modo diverso da quelli della sua patria sempre tristi, esce circospetto per la prima volta dal nascondiglio tetro e scende attraverso la scaletta che lo conduce, finalmente, sulla terraferma. A pochi metri dall’armatura della nave, come un fantasma che spunta dal nulla, gli appare un uomo con un cappello di paglia in testa, e in mano un pacchettino accuratamente avvolto.

− Buongiorno paesano − gli dice in un tono che dimostra molto rispetto. − Ti ho visto scendere dalla nave e suppongo tu sia un marinaio. Vorrei chiederti un grande favore, se non crea disturbo. Mia madre è malata ad Alimeno, in provincia di Palermo, e devo inviarle questo pacco che contiene medicinali assai costosi. Impiegherebbe troppo tempo se lo mandassi da qui, adesso, per la situazione confusa del paese, visto che non si sa se il “Cabito[1] è ancora il presidente. Ti pregherei, perciò, d’inviarlo dal primo ufficio postale che trovi in Italia. Ti pagherò, ovviamente, le spese sostenute e anche il disturbo che…

Prima che quell’uomo, all’incirca della sua stessa età, possa concludere la sua richiesta sincera, Felice intuisce di aver ricevuto una mano dal cielo a cui aggrapparsi e non ha intenzione di farsela scappare.

− Amico mio − gli dice a mo’ di preghiera − sono io invece che chiedo a te di aiutarmi. Non sono un marinaio, bensì venivo clandestinamente in questa nave carica di grano, giacché gli sbirri borghesi, che hanno preso le redini dell’Italia unita, mi perseguitano a causa dei miei ideali anarchici. Non so dove mi trovo, né se la mia vita è in pericolo in questi luoghi. Per favore, non ti chiedo elemosina. Voglio solo informazioni e che tu mi dica come mi devo muovere.

− Sei arrivato a Puerto Cabello[2], in Venezuela − gli risponde Milino. È così che dice di chiamarsi il giovane. − Questo è un paese immenso dove è possibile passare inavvertito poiché i pochi abitanti sparsi siamo come il granello di sabbia in una vasta spiaggia di mare sconfinato. Ti suggerisco, comunque, di andare verso ovest, perché a Caracas la situazione è confusa. È possibile che Cipriano Castro stia ancora al comando, ma si dice che il suo compare, il Generale, ha predisposto già tutto per usurpargli il potere[3]. È da un paio d’anni che vivo in questa zona dello stato Carabobo[4], lavorando la terra. Non ho ancora fatto fortuna come altri paesani che sono già ricchi. Ciò nonostante, posso offrirti un asino che, oltre a servirti come carico, ti farà compagnia nelle lunghe tratte che qui si misurano più per il tempo che si impiega nel percorrerle che per la distanza che c’è tra l’una e l’altra. Posso anche darti qualche abito per il tuo uso personale, un po’ di scatolette da variare con i frutti in cui ti imbatterai spesso in qualsiasi sentiero, e questa manciata di monete che qui si chiamano bolívares. È tutto quanto posso offrirti…

Felice ringrazia con la promessa di cercarlo un giorno per ripagare il suo generoso gesto e intraprende, così, il viaggio verso occidente senza sapere con certezza dove arrivare. Il cammino è lungo, interminabile: aveva ragione Milino. Il sole colpisce sul corpo inerme come la spada di un guerriero che, invece di uccidere, punzecchia lievemente, ma ripetutamente, l’avversario. Il paesaggio, però, è cangiante e talmente bello proprio come l’arcobaleno che appariva nel Golfo dei suoi ricordi dopo la tormenta che infuriava il mare: alberi robusti ed alti fino a raggiungere il cielo, con le chiome in conversazione amena mentre si dondolano come ballerine a ritmo della brezza; uccelli chiassosi appollaiati tra i verdi rami dalle varie tonalità contendendosi, i maschi, le femmine pretenziose; fiori multicolori dalle forme strane da cui il colibrì con brio becca il polline per poi deporlo più avanti, dove di nuovo sarà fecondata la terra fertile; lingue d’acqua che scivolano lungo i fianchi delle rocce fino a cadere suicide in piccoli pozzi, dove gli animali selvatici vanno ad abbeverarsi e a rinfrescare i corpi accalorati; praterie che si estendono oltre l’orizzonte sconfinato seminate da arbusti rari che alternano con rovi aridi e ricche distese di spinosi cardi; alte montagne sulle cui cime volano libere ad ali spiegate le aquile rapaci, ma anche i sorocuas[5] mascherati e i tucani, che spesso scompaiono tra le nuvole.

Finalmente, dopo vari giorni e altrettante notti durante i quali viene a contatto con pochi casolari, arriva in una valle circondata da colline affascinanti dove ad accoglierlo c’è un odore di fiori che si espande per diverse miglia intorno. Proprio nel centro di quella vallata colma di alberi da frutto, sono disseminate belle case coloniali con grandi finestre protette da ringhiere di legno lavorate a mano da esperti artigiani. All’ingresso del paese, Felice incontra due bambini che giocano con un cane.

Hola − dice, alternando segni e parole cercando di farsi capire. − C’è una locanda in questo bel villaggio dove un povero viandante come me che viene da lontano possa riposare le ossa stanche?

Alla fine, gliene indicano una, vicino alla piazza in cui campeggia una statua circondata da siepi profumate, al lato della chiesa. Lì viene a sapere che la cittadina si chiama San Felipe[6] e, non appena il proprietario del modesto ostello capisce dall’accento e dalla strana lingua, che l’ospite è italiano, non solo lo accoglie con affetto, ma manda subito a chiamare don Sebastián Marino, il nipote del tenente milanese che lottò con Simón Bolívar in diverse battaglie. Costui lo invita a fermarsi nella sua fattoria e, senza troppi giri di parole, lo convince che nessuno lo potrà trovare in quel luogo per fargli pagare l’ardire delle sue idee progressiste. Inoltre, è disposto ad aiutarlo per avviare qualche attività che gli consenta di vivere comodo e in santa pace. Difatti, Felice decide di aprire una bottega che si rifornisce, principalmente, di oggetti elaborati dalle mani esperte degli indios della zona, e che, col tempo, quando viene costruita la strada che collega la città con altri centri importanti del paese, si trasformerà in un grande emporio.

Dopo alcuni anni, il “signor” Felice diviene un mecenate ben voluto, un baluardo del posto senza rivali quando si tratta di dimostrare la sua generosità.

− Signor Felice, abbiamo già radunato abbastanza libri per aprire la biblioteca pubblica. Ci farebbe dono, adesso, del locale sfitto che ha di fronte al Palazzo del Governo?

− Don Felice, ho bisogno di un prestito per comprare le medicine al bimbo. Glielo restituirò alla fine del mese, come la volta scorsa, quando mio marito prenderà la busta paga.

Musiù Felice, gli manda a dire il maestro Fernandito che questa sera verrà inaugurata in piazza l’orchestra a cui lei ha donato i violoncelli. Non può mancare perché hanno preparato l’aria del Nabucco in suo onore.

E cose del genere, tutti i giorni, a qualunque ora.

Ad ogni modo, il grande evento, la sorpresa che lascia l’intero paese a bocca aperta, arriva una mattina di dicembre all’alba, quando il sole comincia a fare capolino col suo volto color dell’oro dietro la collina. Si ferma, davanti alla bottega dell’immigrato, un camion giunto da Caracas. Tra altre cose, scarica un mezzo a due ruote che il venditore che lo offre dice si chiami “bicicletta”. Felice sa, naturalmente, di cosa si tratta, ma lì a San Felipe è una vera novità che sorprende grandi e piccini quando lui stesso si esibisce durante una passeggiata. Subito dopo la colloca in vetrina in attesa di un acquirente all’altezza, poiché il suo prezzo non è alla portata di un compratore qualunque.

Trascorso il Natale, la seconda settimana di gennaio di un anno memorabile, si presenta al negozio un rispettabile signorotto della cittadella e gli dice:

− Signor Felice, tra qualche giorno compie dieci anni Rafael, il mio ragazzo. Vorrei regalargli quella bicicletta che lei tiene in mostra con tanto orgoglio. Quanto costa?

− Se è per Rafael − risponde con inusuale prontezza il commerciante − non costa niente…

Ah però, che grande intuizione! Il piccolo Rafael[7] diverrà col tempo un fecondo intellettuale dell’America, tra i massimi statisti, due volte presidente di questa patria forgiata anche grazie alla tenacia e al lavoro di tanti immigrati italiani, come Felice, l’anarchico di Vibonati.


[1]

Vedere Nota 2, Cap. I.

[2] Puerto Cabello (si legga Cabeglio) è un importante porto della costa centrale del Venezuela, situato nello Stato Carabobo. Attualmente è il terzo porto del paese per volume di traffico.

[3] Vedere Note 3, 4, 5, 8, 11, 12, 13, Cap. II.

[4] Uno dei 24 stati e distretti del Venezuela, situato nella parte settentrionale del paese sulla costa del Mar dei Caraibi. Il suo capoluogo è la città industriale di Va-lencia.

[5] I sorocuas, sono uccelli dai colori brillanti che cercano il cibo stando appollaiati sui rami. Caso assai particolare in questi uccelli è l’eterodattilia, ossia il primo e il secondo dito della zampa sono rivolti all’indietro.

[6] San Felipe è il capoluogo dello stato Yaracuy e sorge nella regione centro-occidentale del Venezuela.

[7] Si tratta di Rafael Caldera Rodríguez (San Felipe, 24 gennaio 1916 – Caracas, 24 dicembre 2009), intellettuale e politico venezuelano, fondatore del partito Copei (corrispettivo venezuelano della Democrazia Cristiana), due volte presidente della Repubblica, la prima dall’11 marzo 1969 al 12 marzo 1974, e la seconda dal 2 febbraio 1994 al 2 febbraio 1999.

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