Il guardiano degli extraterrestri

Foto di Stefan Keller da Pixabay

Enrique si guarda attorno e si strofina gli occhi per accertarsi che non si tratti di un’allucinazione, ma sia autentico il fenomeno osservato lì, a pochi metri di distanza da dove si era fermato. Si rallegra, comunque, perché ha la possibilità di comprovare la veridicità del racconto ascoltato dalla viva voce di un suo amico, con il quale condivide gli studi sulla presenza nel nostro pianeta di esseri sopraggiunti dallo spazio.

Era arrivato nei pressi del monte Santa Ana[1], di là dai médanos[2] dalla sabbia soffice e finissima, superando ogni singolo ostacolo trovato lungo il cammino: la folta vegetazione, che a tratti quasi impedisce al suo veicolo di proseguire fino a destinazione; i torrenti cresciuti a dismisura le cui acque coprono quasi i finestrini diventati marroni per il fango; la nebbia fitta come il fumo nero della ciminiera di un campo petrolifero; ed altri ancora.

Avanza, comunque. In fondo al sentiero, poi, in una piccola spianata coltivata con piante esotiche e fiori dai colori strani, appare imponente la baracca di legno cosparsa di muschio, sicuramente a causa dell’intensa umidità del luogo, poiché i raggi del sole non riescono a filtrare tra i rami degli alberi giganteschi addossati gli uni agli altri. Seduto su uno sgabello davanti all’uscio, lo attende un uomo dalle strane apparenze, anche lui coincidente con la descrizione che gli avevano fornito. Ed è questi che, senza scomodarsi dal suo posto, rompe il silenzio appena Enrique scende dall’auto.

– Benvenuto, amico, nel luogo dove arrivano soltanto pochi eletti – gli dice. – Hai superato la prova lungo l’intrico tortuoso e infangato del sentiero che fa battere in ritirata i curiosi e i deboli di spirito. Il tuo sforzo sarà ricompensato con una visione unica che non dimenticherai mai più finché duri la tua vita terrena tra gli uomini imperfetti di questo mondo. A breve, ti darò le istruzioni per preparare il corpo alla scalata che non avviene dal versante del Moruy e neppure da quello di Santa Ana, cioè il viottolo che sbuca nella Hierbita[3]. No. Quei percorsi sono frequentati dagli escursionisti, ai quali è preclusa la visione, verso il tunnel di rocce, dello splendore che emana la navicella parcheggiata. Vieni con me adesso. Entra nella capanna. Riposa un po’ le tue membra stanche, poiché aspetteremo l’ora del tramonto per fare insieme il viaggio nel regno dei Beta[4].

Enrique ascolta il tutto senza stupore né meraviglia, perché già era stato informato dall’amico che in questo modo l’avrebbe accolto l’uomo, noto tra gli esperti di ufologia come “il guardiano degli extraterrestri”. Persino il suo aspetto gli era stato descritto così come ora lo vede dal vivo: bianco, dal viso ovale, capelli biondi, lunghi e folti, occhi azzurri come il cielo sereno dell’estate, altezza media, età imprecisata. Nota appena un unico dettaglio, probabilmente sfuggito all’amico ufologo, il quale non ne aveva mai fatto cenno nei suoi commenti e nemmeno lo aveva minimamente insinuato: ha la pronuncia neutra di un uomo istruito, ma di sicuro non appartenente a questa terra tropicale dove vi è prevalenza di articolazioni velari o glottidali formate nella gola.

Trascorse varie ore, forse due o tre, durante le quali lo strano personaggio gli dà istruzioni su come affrontare l’intricata via, preclusa in ogni caso a chiunque decidesse di ovviare la sua guida, dopo averlo cosparso con un gradevole liquido dal profumo di petali di rose, si mettono in cammino, impugnando lui, nella mano sinistra, un machete affilato e nell’altra un lungo vincastro di legno simile al bastone che il vescovo usa nelle cerimonie solenni. Il sentiero è angusto e la fitta vegetazione occulta il cielo. Non si vedono le stelle né la luna. La guida, tuttavia, vince le tenebre con una potente lanterna che illumina come il sole a mezzogiorno. Non si scambiano neppure una parola i due uomini mentre avanzano lentamente tra spine, arbusti e pioppi tremuli che, a causa del vento che soffia dalla costa, dondolano come provetti ballerini. A tratti, poi, nel silenzio più assoluto, si ode il cinguettio di un uccello cardinale e lo svolazzare di palomas sabaneras[5] che abbondano in questi luoghi come le spine nei cactus o nei fichi d’india. A un certo punto, dopo un tempo difficile da stabilire, arrivano in un posto dove ci si lascia alle spalle la fitta vegetazione e in alto predomina una roccia viva di color marrone. Ora le stelle, con la luna piena che sembra un immenso lampione sospeso nel vuoto, consentono di distinguere chiaramente le pareti viscose del monte Santa Ana e delle sue tre cime. Manca ancora un buon tratto di strada per avere la veduta completa della valle nell’abisso, ma Enrique non regge più la stanchezza alle gambe.

– Non ce la faccio più – dice dopo un po’, ormai rassegnato. – Continua da solo. Mi limiterò a osservare da qui lo splendore che, secondo il tuo racconto, si proietta di sera dalla base verso le pareti della roccia. Pazienza. Le mie gambe, purtroppo, sono impalate come le stecche conficcate al suolo e si rifiutano di andare avanti fino alla meta.

L’uomo prosegue da solo la scalata della roccia fino alla cima, sul punto più elevato. Non sembra che cammini. Vola. In un batter d’occhi, infatti, arriva alla vetta quasi appuntita e da lì, avvolto in un’aureola formata da più colori dello stesso arcobaleno, eretto come una statua su un piedistallo di marmo, innalza verso il cielo il vincastro di legno e, all’improvviso, inizia a salire un fascio di luce a forma di ventaglio. I misteriosi raggi formano un cono che termina proprio sul punto in cui, più intensamente, risplende la figura della strana guida. Poi, questi discende lungo la parete viscosa, in piedi, come uno sciatore su una pista di neve in una montagna, accompagnato dal fascio di luce come il faro in un teatro quando segue la sagoma dell’artista che si esibisce sul proscenio. Scompare alla fine e, insieme a lui, la luce. Soltanto per un istante, però, perché, come per magia e in men che non si dica, si ritrovano entrambi sull’uscio della baracca di legno con la sensazione, Enrique, che l’accaduto fosse stato un sogno, un sogno meraviglioso, dal quale ora si risveglia suo malgrado. Segue il silenzio, interrotto appena dallo stridio lagnoso delle gallinelle d’acqua spaventate chissà da quale animale selvatico venuto a placare l’arsura sulla riva della laguna lì vicino.

– Grazie di tutto – dice poco dopo il visitante, mantenendo la promessa di non fare domande sui fenomeni a cui aveva assistito. – Rientro soddisfatto. Ma, devi togliermi una curiosità, se non sono troppo indiscreto. Tu non sei venezuelano, l’ho capito. Allora, da dove vieni? Come ti chiami? Vivi da solo nella baracca o condividi con qualcuno questa tua esistenza temeraria, immerso in questo bosco difficile da raggiungere?

Quelle domande non sembrano sorprenderlo, forse perché gli erano state già formulate da altri prima. Perciò, risponde senza titubare.

– Mi chiamo Sandrino e sono originario di Vercelli, la provincia italiana situata nella pianura dove si coltiva il riso consumato in tutta l’Europa. Sono ingegnere e da giovane mi dilettavo a leggere con estremo stupore le opere di Kolosimo[6], ufologo e studioso di altre cose che hanno sconvolto la mia vita per sempre. Un giorno, ho invocato gli esseri che arrivano da altri mondi e, con mia immensa sorpresa, sono apparsi davvero, conferendomi dei poteri che posso utilizzare soltanto per la loro causa. Proprio come nel caso a cui hai appena avuto modo di assistere. Dimostrare che non è un mito la loro presenza qui, nel nostro mondo, ma non per convincere gli scettici increduli di tutto, bensì per rafforzare le convinzioni di quelli che, come te, sanno che loro hanno una missione su questa terra la quale, nonostante gli innegabili progressi, è rimasta a uno stadio barbaro e quasi primitivo: basta pensare che gli uomini si uccidono ancora tra di loro per il predominio degli uni sugli altri. Sono, pertanto, ufficialmente, un “guardiano di extraterrestri” che, prima di trapiantare le radici in questo posto magico colmo di poesia, sono stato in altre regioni compiendo la medesima funzione. Da qui, adesso, non mi sposto più. Mi piace il bosco con la sua nebbia perenne. Mi crogiolo nel profumo del mare che arriva dalla costa. I canti, poi, degli usignoli, del paujil, o del turpial[7] mi riempiono di allegria.

– Ma come fai, allora, a vivere da eremita in questo luogo isolato, dove solo di rado arriva qualche viaggiatore degno delle tue attenzioni? – lo interrompe Enrique in un tono quasi inquisitorio.

– Non è come tu credi – risponde l’uomo con un enorme sorriso sulle labbra, rosse come il melograno. – In paradiso non esiste la solitudine. Ciò che è etereo, si palesa sempre agli occhi delle persone elette come me, e come te adesso.

Detto questo, svanisce. E insieme a lui anche la baracca in legno rustico.

Resta soltanto il mormorio delle foglie che dialogano con gli angeli, il sussurro delle acque cristalline che ondeggiano calme tra i cespugli, gli uccelli canterini che svolazzano festosi ed Enrique che, con le lacrime agli occhi, dice urlando affinché l’eco trasporti le sue parole:

– Dio mio, quanto disprezziamo questa nostra patria. Quanto la distruggiamo noi, suoi figli ingrati, mentre altrove ce la invidiano. Basta osannare i caudillos dal cervello di gallina che giocano con l’ignoranza della gente! Se in questa terra arrivano, per la sua bellezza e per la verginità dei suoi paesaggi, esseri dai poteri sovrannaturali come quelli dell’italiano di Vercelli, e si stanziano nel cuore dei suoi boschi inesplorati gli uomini Beta che ci visitano dai mondi più remoti, perché a noi è preclusa la possibilità di vederla grande, poderosa e prospera? Perché?

Mentre la domanda rimbomba nel silenzio come un tuono quando infuria la tempesta, si accende il lumicino della coscienza ed Enrique capisce finalmente il messaggio contenuto nelle ultime parole del guardiano di quegli esseri venuti da altri mondi. Accetta allora la sfida e giura a sé stesso, tra i cori in festa del bosco fresco e solitario, che la sua anima non troverà più pace finché non vedrà libera e gloriosa la sua patria amata.


[1]

Il monte Santa Ana è un monumento naturale situato al centro della penisola di Paraguaná, a nord dello stato Falcón. Si estende su una superficie di 1900 ettari, è alto 830 metri e si caratterizza per la sua flora mutevole. Gli studiosi di ufologia hanno ammesso in diverse riviste scientifiche internazionali avvistamenti di alieni e di navi spaziali nelle zone adiacenti al monte.

[2] Il termine significa ‘dune’. Il riferimento è a Los médanos de Coro, un deserto del nord-ovest del Venezuela, situato nello stato Falcón. È circoscritto intorno a un istmo e contiguo alla strada che da Coro, la capitale dello stato, raggiunge la penisola di Paraguaná.

[3] Il monte Santa Ana è formato da tre cime: quella che gli dà il nome è la più alta ed è raggiungibile a piedi attraverso un sentiero che termina in un piccolo casolare conosciuto con il nome di Hierbita; la seconda si chiama Moruy e la terza, la meno esplorata per l’intricata vegetazione, Buena Vista. Secondo gli ufologi alle pendici di quest’ultima, sarebbero stati avvistati in diverse opportunità i visitatori dello spazio.

[4] Secondo la teoria di classificazione delle razze extraterrestri dell’ufologo statunitense Brad Steiger, i Beta (o Nordici) sono esseri dalle fattezze umane, ma molto più alti.

[5] La paloma sabanera (lett. ‘colomba della savana’) è un uccello dalle dimensioni simili a quelle della colomba domestica, originario delle Grandi Antille, che abbonda nelle zone boscose.

[6] Peter Kolosimo è lo pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (Modena, 1922 – Milano, 1984). È stato uno scrittore e giornalista italiano, considerato tra i pionieri dell’archeologia misteriosa, un controverso filone che si propone di studiare le origini delle antiche civiltà, utilizzando teorie e metodi spesso non accettati dalla comunità scientifico-accademica. Si è occupato, in particolare, della teoria degli antichi astronauti (paleoufologia), che ipotizza il contatto di civiltà extraterrestri con le antiche civiltà umane.

[7] Sono entrambi uccelli tipicamente tropicali che abbondano nelle zone boscose. Il primo, il paujil (si legga pauhil), di piumaggio nero, raggiunge la lunghezza di circa un metro ed è caratterizzato da una protuberanza in testa, di colore grigio, simile ad un elmo. Per questo è conosciuto anche con il nome di paujil de yelmo. Il secondo, il turpial, anch’esso di ali e testa nera ma giallo nel resto del corpo, misura appena una ventina di centimetri.

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