− Il Cavaliere ha mantenuto la parola − esulta don Tommaso agitando tra le dita il foglio che esenta Salvatore dal servizio militare. Forza, donna, prepara la valigia perché la nave salpa domani verso sera e non possiamo perdere la coincidenza del treno che da Messina va diretto a Napoli.
La famiglia Silvestrini non patisce gli scempi della guerra, anzi ne trae profitto. È proprietaria dell’unico frantoio della zona e distribuisce olio ai potenti circoli di cui nessuno osa indagare i loro attivi. Lo fa con discrezione, però. Nonostante siffatta clientela di grosso calibro, non nega mai a nessuno l’indispensabile prodotto, né alle persone comuni che pagano con le gocce del sudore, né tantomeno al povero mendicante che abbonda in Sicilia, come nel resto dell’Italia devastata. Gente di prestigio, dunque, relazionata con politici come il Cavaliere, ma anche con il volgo, che va rispettato, perché da lì vengono le radici. Guai a dimenticarlo!
Salvatore, il secondo di una marea di figli, si è guadagnato nel suo piccolo paese, e in altri dei dintorni, la fama di spavaldo scapestrato, di puledro libertino che solo torna in grembo alla giumenta quando scarseggia il pasto nelle praterie, dove saltella, insieme ad altri simili, in cerca di avventure. Intelligente, astuto come la volpe, a malapena, però, porta a termine le scuole medie, rifiutandosi, con ardore, di assecondare il desiderio del padre di proseguire gli studi in un liceo.
− Preferisco che mi mandi in una cava a estrarre le pietre con il piccone − era solito ripetere con le lacrime agli occhi − piuttosto che internarmi in un collegio fuori dal paese. L’unica cosa che mi piace è il disegno, e tu mi hai ripetuto mille volte che con questa professione si fa la fame.
Comunque, pochi mesi prima di compiere la maggiore età, Salvatore comincia a preoccuparsi. I suoi amici gli hanno detto che è dura la vita di leva in caserma dove, per due anni, i giovani italiani sono costretti al servizio militare. Supplica il padre, allora, di fare il possibile per evitargli quel dispiacere. Che metta alla prova quei potenti che dicono di essere amici per la pelle quando si recano al frantoio a riempire d’olio i fusti che poi rivendono a prezzi maggiorati.
− Per favore, padre, liberami da questo incubo − gli dice. − Farò tutto ciò che vuoi. Cambierò radicalmente la mia vita. Niente più follie, né false promesse, né donnine allegre, e neppure giochi d’azzardo nelle cantine.
− Va bene − gli risponde il padre remissivo. − Parlerò con il Cavaliere, amico del Ministro, con la condizione però che tu abbandoni il paese, questa nazione immersa nel caos che ora alimenta solo l’ozio. Mi sono informato e il clima in Venezuela è simile a quello nostro qui in Sicilia. Andrai lì a tentare la fortuna come hanno fatto, con successo, altre persone con meno qualità delle tue.
Il giovane parte. Con la sua valigia colma di amarezze, ma anche con un cospicuo gruzzoletto di banconote in tasca, tante quante furono consegnate una sull’altra all’onorato amico del Ministro, insignito pochi mesi prima “per le sue illustri virtù di cittadino”…
Sulla nave Salvatore viaggia in prima classe, dove incontra vari impresari invitati dal governo del paese amico per esplorare nuove opportunità di investimento. Se la conversazione è di affari, o giù di lì, il giovane siciliano si limita ad ascoltare, visto che per lui è astruso quel linguaggio costituito da cifre e indagini di mercato. Tuttavia, non ci pensa due volte a sedersi al tavolo quando manca il quarto per la partita di scopa o briscola, o perfino di poker, che è un gioco più d’azzardo. Povero lui! Non si rende conto che è diverso dal passatempo tra amici nel bar del suo paese, dove si andava ad ammazzare la noia nei lunghi pomeriggi dell’autunno siciliano. Qui si scommettono i soldi con la pala e, in men che non si dica, lo spennano riducendolo come un emigrante di terza classe. Riesce, almeno, a conservare gli spiccioli rimasti nella tasca di un pantalone sporco buttato giù in cabina. Nel cambiarli, gli danno dieci monete di un bolívar, di cui Salvatore ignora il valore vero: non sa se è molto o poco.
Quando sbarca, la crudele realtà gli viene sbattuta in faccia: due bolívares gli costa il biglietto dal porto fino al terminal dei bus di Plaza Capuchinos[1] a Caracas; con altri tre, in una pensione, gli danno una stanzetta con pranzo e cena e, così, la sopravvivenza è garantita anche fino al giorno dopo.
− Domani − pensa − vedrò cosa fare, che cosa viene fuori da quest’avventura anomala, da questa farsa, da questo sogno dal quale conviene svegliarsi in tempo prima che la realtà mi riservi qualche altra brutta sorpresa.
Esce, infine, su raccomandazione del proprietario dell’albergo, per mettere all’asta la forza delle sue braccia nella piazza famosa delle lacrime[2]. Nota decina di volti afflitti, allineati lungo il muretto che delimita l’artistico recinto di metallo, in attesa del “padrone” che verrà a vedere la bocca dei cavalli per contrattarne il groppone. Lui non sa che è vietato passare davanti alla statua del Libertador[3] con le mani in tasca, o in maniche corte di camicia. Per questo si avvicina un poliziotto.
− Ehi, tu. Sloggia! − urla agitandogli a due centimetri dal volto il manganello di gomma. − Mostrami la carta d’identità, o il passaporto se sei appena arrivato.
Né l’una né l’altra cosa ha con sé Salvatore. E così, senza fare discussione e senza che nessuno intervenisse per evitare che lo ammanettassero come un delinquente preso in flagrante per un delitto grave, il poliziotto lo conduce al comando lì vicino, rinchiudendolo in un’angusta, pestifera gattabuia, dove già v’erano una ventina di detenuti: ubriaconi alcuni, ladruncoli altri, squilibrati molti, barbuti lerci tutto il resto. Man mano che vi entrano nuovi, scarcerano, in ordine di arrivo, quelli che sono dentro. A Salvatore tocca il turno il giorno dopo. Non sa di preciso che ore sono perché quando si tocca il polso si accorge che l’orologio è sparito, come pure il braccialetto d’oro che gli aveva regalato la nonna il giorno della partenza.
− Saranno le sette e mezza o le otto − pensa, senza poter evitare una smorfia di nausea per l’odore di piscio e altre schifezze che gli si erano incrostate addosso come una colla di pesce impossibile da grattare via.
Sebbene sia sudicio e ripugnante, invece di tornare in albergo, che era a pochi isolati dalla caserma, decide di andare per direttissima al Consolato a richiedere il rimpatrio immediato, perché non vuole rimanere un minuto in più in questo strano paese. Quando finalmente arriva, dopo aver camminato sotto il sole tre o quattro ore senza sosta, vede una fila lunghissima di persone che vanno, forse, per lo stesso motivo in quel “TERRITORIO ITALIANO”, come recita il piccolo cartello sul muro esterno di una villa dipinta meticolosamente di azzurro e bianco. Salvatore, non curante della fila, si dirige verso il portone d’ingresso, dove viene fermato all’istante da un poliziotto con la stessa uniforme color cachi di quello della Plaza. Si spaventa, al principio, ma quando nota che il tizio è a dir poco gentile e che conosce perfino qualche parolina in italiano, si arma di coraggio e gli dice in un tono più che perturbato:
− Devo parlare subito con il Console. Sono stato arrestato senza motivo, mi hanno pisciato addosso in quella lurida cella e, come se non bastasse, non ho un centesimo in tasca, nemmeno per un pan de a locha[4] o per un cambur manzano[5]. Ne ho fin sopra i capelli di questa situazione. Voglio tornare a casa mia senza più indugio. Preferisco di gran lunga servire l’esercito nella mia patria piuttosto che passare le pene dell’inferno qui.
− Si rilassi, amico mio − gli risponde affabile il poliziotto al quale era risultato simpatico l’italiano. − All’inizio è dura dappertutto. Ci rifletta un po’ prima di prendere una decisione così drastica… Ho appena ricevuto il mio misero stipendio di appena ottanta bolívares, che non è una gran cosa. Gliene presto la metà affinché possa sopravvivere una settimana, o poco più, mentre trova un lavoro stabile. Le suggerisco di lasciare quella zona rossa, pericolosa, dove alloggia adesso, e cerchi qualcosa di meglio nei pressi di El Conde, di Los Caobos o di Sabana Grande[6].
Il giovane accetta l’aiuto e il consiglio dell’uomo in uniforme che gli cade come la manna dal cielo. Il giorno successivo, rasato, profumato e con un abito nuovo in gabardina, si siede a un tavolino del Piccolo Caffè[7] dove per la prima volta si sente a casa, poiché, oltre alla pulizia del posto, nota che quasi tutti parlano in italiano. Un signore distinto, dai capelli bianchi, chiacchiera con un altro al suo fianco, commentandogli che al Canal[8] è tutto pronto per il debutto dell’Otello: manca soltanto assumere uno scenografo bravo, difficile da trovare in questo incipiente mercato dell’arte dello spettacolo. Salvatore, nel sentire simile conversazione, alza la testa e s’azzarda a proferire la gran menzogna.
− Scusate se m’intrometto − dice, senza un minimo di tremore nella voce. − Se cercate uno scenografo con esperienza, eccolo qui davanti a voi. Sono appena arrivato dall’Italia e mi metto a vostra disposizione.
I due uomini si guardano in faccia. Gli credono all’istante, perché è falso che l’abito non fa il monaco: l’eleganza che contraddistingue il giovane è una credenziale importante. Perciò, per il giorno successivo, gli danno appuntamento a Quinta Crespo[9] per un colloquio con Román[10], il regista.
Costui non è persona di molte parole, né ha fama di buon oratore. Anzi, bisogna leggergli il pensiero. Parla con gli occhi rivolti al cielo, immaginando tutto per sé lo scenario fantastico nel quale il Generale della potente armata, il Moro di Venezia, vittima degli intrighi di palazzo, a causa della gelosia irrefrenabile, uccide la sua amata Desdemona. Povero Salvatore, in che guaio si è cacciato. Che cosa fare: fuggire? Perdersi nella selva o nelle pianure o nelle Ande dove vive solitario il falco rapace americano?
− No! − Si dice alla fine. − Solo i vigliacchi fuggono. Farò quattro disegni rappresentanti: uno, lo sfondo della bella Cipro, dominio veneziano; un altro, la parte esterna del Castello e le onde bianche dell’Egeo; il terzo, l’arredamento del tardo Rinascimento nell’Armeria della fortezza; e il quarto, infine, la camera da letto di Desdemona con il baldacchino dai veli raffinati. Per fortuna, mi sono portato un libro che parla di queste cose. Se non dovessero piacere, pazienza, non sarà successo niente…
Piacciono, invece, al punto che, non solo il grande Chalbaud lo porta sul palmo della mano, ma in poco tempo diventa il consulente stilistico di tutte le attrici, perfino amante di alcune debuttanti, e assiduo personaggio di quegli ambienti dove alcol, donne stupende e vizi di altro genere ti attirano come una calamita dai potenti ossidi di ferro. Per questo, in poco tempo, il corpo comincia a deteriorarsi ed il medico gli suggerisce di tornarsene a casa prima di soccombere in terra altrui senza il sostegno affettuoso della famiglia.
Il giorno della partenza del bastimento, prima di andare verso il porto de La Guaira, cerca il poliziotto che ancora vigila la sede del Consolato, nella Campiña[11], gli mette tra le mani un mazzo di banconote, e gli dice con enorme emozione:
− Amico, ecco la ricompensa per le sue parole di conforto e il generoso supporto. Lei aveva ragione nel dirmi che in questa terra soltanto chi è audace riesce a farsi strada come una nave rompighiaccio nelle acque polari. Patria immacolata questa, tutta da modellare da parte dei suoi figli nobili con voglia di progresso. Io mi sono fatto incantare dalle sirene e, così, anche se me ne vado con le tasche piene, ho bisogno di rigenerare la mia anima nella quiete della mia pacifica Sicilia per poi tornare, un giorno, a recuperare con enormi sforzi il tempo perduto dietro i profumi ingannevoli di alcuni fiori perfidi e traditori. Arrivederci, amico.
Ritorna, in effetti, un giorno, e vi rimane per sempre, diventando con il tempo marito fedele, padre premuroso, nonno affettuoso e fiorente produttore di scarpe d’autore.
Plaza Capuchinos (si legga plasa capucinos) è una delle piazze più antiche di Caracas ed è ubicata in via San Martín della Parrocchia San Juan, a ovest del centro storico del Municipio Libertador. Era una fermata dei bus che trasportavano gli immigrati dal porto de La Guaira.
[2] Il riferimento è alla Plaza Bolívar. Vedere Nota 3, Cap. VI.
[3] Ibidem.
[4] Per locha e le altre monete in vigore all’epoca, vedere Nota 7, Cap. VIII. Fino al 1969, la locha era una moneta di ampio uso: il biglietto dell’autobus costava una locha, così come il gelato e altri prodotti. Anche alcuni tipi di pane costavano una locha. Sebbene non sia più in circolazione, si continuano a chiamare pan de a locha dei panini di circa 80 grammi, molto simili ai nostri panini all’olio, dai prezzi, ovviamente, lontanissimi da quelli degli anni Cinquanta.
[5] Il cambur manzano è un tipo di banana piccola, dolce e dall’alto valore nutritivo, molto comune in Venezuela.
[6] Tutte e tre zone residenziali e di commerci ubicate presso la Plaza Venezuela, una delle più belle della Caracas degli anni Cinquanta. Il Bulevar de Sabana Grande, poi, era, e continua ad essere, dopo un importante processo di riabilitazione, una zona pedonale ricca di negozi di ogni genere, e quindi assai frequentata anche per i numerosi bar all’aria aperta.
[7] Caffetteria in stile italiano, ancora esistente, assai frequentata negli anni Cinquanta da intellettuali, ma soprattutto da immigrati italiani che avevano fatto fortuna.
[8] Il riferimento è al Canale 2 di televisione (Radio Caracas Televisión), il più antico del paese, censurato nel 2007 dal presidente Hugo Chávez Frías per mantenere una linea editoriale indipendente, assai critica al regime.
[9] Quinta Crespo (si legga chinta crespo) è ubicato nella zona est della Parrocchia Santa Teresa, al centro di Caracas, sede appunto di Radio Caracas Televisión.
[10] Román José Chalbaud (Mérida, 10 ottobre 1931) è un drammaturgo, regista teatrale, cinematografico e televisivo venezuelano tra i più quotati oggigiorno. Iniziò la sua attività artistica giovanissimo riscuotendo subito una grande fama.
[11] Si legga Campigna. Quartiere all’est di Caracas dove negli anni Cinquanta e Sessanta sorgeva appunto il Consolato Generale d’Italia.